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Thomas Bernhard - Il soccombente

Si fa fatica a entrare dentro a Il soccombente di Thomas Bernhard perché bisogna da subito abituarsi a un linguaggio volutamente sciatto e ripetitivo che, a quanto si legge dalla critica, era la cifra dello scrittore austriaco.
Dietro a questa scelta – parliamo di un autore che Harold Bloom colloca nel Canone Occidentale – c’è quello che Douglas Glover (The Attack of the Copula Spiders and Other Essays on Writing, Biblioasis, Feb 2012) chiama il rifiuto della lingua tedesca, intesa come lingua della menzogna, per aver manipolato le persone e le menti durante il nazismo: se dunque il tedesco è la lingua del contrario della verità, allora viene giusto maltrattarla.
Non c’è nessuna dichiarazione di questa poetica ne Il soccombente, ma può servire come giustificazione per l’uso che ne viene fatto, attraverso un unico monologo di centosessanta pagine, senza un vero dialogo, ma solo citazioni o pensieri riportati senza virgolettato, con un’infilata di ragionamenti ellittici, cioè concatenati l’uno all’altro in cui le ripetizioni riprendono il filo del discorso precedente.
C’è una tecnica in tutto questo e ci vuole un po’ a capirlo. C’è un gusto per l’iterazione, che si ripropone volutamente come meccanismo nella stessa pagina, a voler significare che si vuole proprio rompere quella regola per dimostrare che si possono benissimo usare le stesse parole senza annoiare il lettore.
Il tema non è dei più felici, trattandosi della morte di due dei tre amici raccontata dal personaggio narrante, che cerca in realtà di delineare il carattere e la storia di Wertheimer, colui che da il titolo al romanzo: il soccombente è il soprannome crudele e gratuito che Glenn Gould, il grande pianista e terzo amico da appunto a Wertheimer.

Malati di pianoforte

Ci si chiede perché Gould debba rendersi così odioso nel rappresentare quello che è un suo amico, atteso che lo stesso amico ha già implicitamente riconosciuto la superiorità di Glenn Gould nel pianoforte. Perché al momento della loro amicizia solo quello conta e fin da subito i due austriaci capiscono che il canadese che hanno conosciuto è un vero genio, addirittura superiore al maestro Horowitz da cui tutti e tre vanno a lezione, durante un’estate a Salisburgo.
Si troveranno così bene da decidere di affittare una casa assieme, in modo da non interrompere la totale immersione nella musica e nell’esercizio allo strumento. Ed è stato alla fine di quell’estate che i due, annientati dalla bravura di Gould, decidono di smettere di suonare e il narratore senza nome rinuncia a diventare un virtuoso e intraprendere una nuova carriera, mentre Wertheimer si suiciderà dopo aver inseguito invano l’estrema radicalità di Gould.
Il monologo è il tentativo di illustrare quello che ha capito di lui il suo migliore amico, che torna nella casa in mezzo ai boschi, dove si era rifugiato dopo la fuga della sorella per sposarsi con un ricco industriale svizzero.
E’ un racconto della crisi delle élite intellettuali mitteleuropee ed europee in generale, che si contorcono su se stesse, incapaci di creare alcunché di nuovo e alle prese con le cose della filosofia (per il narratore) e le cose dello spirito (Wertheimer) senza che di questi due concetti astratti venga data una definizione utile a capire.

Il genio inarrivabile di Gould

In concreto, si fa per dire, veniamo a sapere che i due amici stavano lavorando ciascuno per proprio conto a un libro su Glenn Gould, e tutti e due fanno passare i decenni delle loro vite senza scopo (tutti e due ricchi, non hanno bisogno di lavorare, non si sposano, non hanno figli, non gli si conoscono legami) nei ripetuti tentativi di dare forma a un’impossibile biografia o analisi critica di Glenn Gould. Si arrogano questo diritto perché hanno sfiorato da vicino la purezza del genio e ne sono rimasti folgorati.
Toccati dagli dei, tutti e due smetteranno di suonare, con la coscienza di non riuscire ad avvicinarsi a quelle vette e decidono di lasciarsi vivere, cercando in qualche modo di sottrarsi alla depressione, che solo il narratore riuscirà a controllare perché decide di andare a vivere all’estero, a Madrid, mentre Wertheimer resta a Vienna a vivere con la sorella e con cui stabilisce un legame morboso, che avrà fine solo con la fuga di lei.
Sarà questo ultimo atto a far precipitare le cose e far decidere a Wertheimer di andare a impiccarsi a cento metri da casa della sorella, apposta per farla sentire in colpa per tutta la vita e tormentarla anche da morto.
E’ un’azione meschina, scrive il narratore, che pure riconosce che la morte di Glenn Gould da sola non è stata la causa del suo gesto; Glenn Gould è morto l’anno prima, per un infarto o un ictus – secondo il narratore – mentre stava suonando le Variazioni Goldberg.

Gettare la spugna

Quello che colpisce è l’assoluta mancanza di uno scopo da parte del narratore e del suo amico Wertheimer, come se il fallimento nel pianoforte avesse annullato qualsiasi altra aspirazione.
Potendoselo permettere non c’è nulla di male a passare la vita senza lavorare, ma questa fortuna dev’essere riempita con uno scopo più alto e totalizzante del lavoro stesso.
Il pianoforte poteva essere quello scopo, ma venendo meno l’obiettivo di diventare virtuosi e famosi, i due gettano la spugna a una carriera comunque promettente e infine alla vita. I due, narratore e Wertheimer, sono due ombre, due grumi di idee negative e irrisolte che sembrano esistere solo biologicamente, ma non lasciano nulla a se e al mondo.
Odiano i genitori, pare non abbiano amici a parte loro stessi e Glenn Gould, disprezzano la loro città, Salisburgo e tutti gli abitanti, tutta l’Austria.
E’ un disprezzo che non è motivato e sono entrambi soccombenti perché hanno deciso di non provarci, non perché si sentano sconfitti. In più, questo disprezzo è l’indice di una propensione all’assoluto che prescinde dal resto dell’umanità: ci riesce ad arrivare uno solo, ed è il terzo, il canadese, non loro due. Si avverte un fastidioso e non ammesso senso di competizione e impotenza. Ognuno di loro avrebbe voluto essere il migliore dei tre e non avrebbe avuto pietà degli altri due.

Beati quei tempi

E’ questo che rende particolarmente fastidiosa la lettura: l’isolamento dei due personaggi. Molto novecentesco, come tema e modo di porsi. Pensiamo a Vladimiro ed Estragone in Aspettando Godot in Beckett, pensiamo al Deserto dei Tartari di Buzzati, incentrati sul tema dell’inazione, dell’attesa, dell’abulia, del lasciar scorrere la vita e la speranza in cambio di nulla. Anche Il soccombente fa parte di questa famiglia, in cui viene definito un tema che viene sviluppato in isolamento dal contesto storico e dalla realtà quotidiana: sono ombre che recitano una parte, personaggi che recitano monologhi sovrapposti senza ascoltarsi.
Pensiamo a quanto attuali erano questi temi all’epoca in cui erano stati scritti. Anzi, considerando l’anno in cui questo lavoro è uscito, il 1983, i temi dell’inabilità, dell’incomunicabilità, della disperazione e mancanza di scopi da parte dell’umanità erano perfino fuori tempo massimo, perché già altri avevano affrontato gli stessi temi negli anni Cinquanta.
Pensiamo a quanto beati erano quei tempi in cui i problemi erano questi, ovvero che fare di noi stessi, rispetto a ora, dove il tema stringente è la sopravvivenza dell’umanità e la difesa da tutto: dal cambiamento climatico, dal terrorismo indiscriminato, dai ripetuti panici mediatici, dalla paura di qualsiasi cosa mentre passiamo da un evento catastrofico all’altro: da un’inondazione a una nuova guerra a uno tsunami, all’erosione dei nostri risparmi, al declino demografico, alle pandemie.

Un lavoro da sciacallo

Quello che fa il narratore nei confronti di Wertheimer è un lavoro da sciacallo: va in cerca dei suoi resti per sbranarli, per leggerli e immortalarli, in apparenza, e così si rende conto di uccidere il suo amico una seconda volta, dopo aver contribuito al suo suicidio semplicemente non rispondendo alle lettere che lui gli aveva mandato. Perché lo avesse fatto può essere stato motivato dall’egoismo, dalla volontà di proteggersi, dal timore di scivolare nel suo imbuto, per non dover andare a trovarlo, per non essere risucchiato nella sua depressione.
E’ un atteggiamento comprensibile, anche se in filigrana vi si legge il desiderio del narratore del suicidio di Wertheimer– e più volte lo ricorda nel testo, perché durante tutto il loro rapporto, lui sapeva che Wertheimer era predestinato.
Ed è curiosa questa mutua credenza verso la prossima fine dell’altro, perché anche Wertheimer ripetutamente gli aveva detto che lui, il narratore, sarebbe morto prima di lui, suicidandosi.
Sembra una gara a chi sta peggio, a chi vince negandosi di più fino all’estremo sacrificio.
Così come prima era stata una gara verso l’assoluto pianistico, verso lo zenit, ora la stessa competizione volge al nadir e in tutte e due il narratore arriva secondo (al piano lui si colloca sopra Werheimer come capacità e talento e ovviamente al di sotto del genio di Gould) e forse è lui il vero soccombente – l’eterno secondo – però è l’unico a restare in vita – ma a che prezzo.