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Telmo Pievani - Finitudine

Dice un proverbio zen che la ricerca della soluzione al koan richiede uno sforzo e un’umiltà pari a quella del contadino che, in mezzo alla fiera del paese, cerchi affannosamente in mezzo al fango e allo sterco una moneta d’oro che ha perso. Il poveruomo si inginocchierà e rasperà con le mani, gratterà la terra, si spezzerà le unghie, si inzacchererà nella mota, mosche, tafani, vespe e altri insetti gli voleranno attorno, i ratti gli morderanno le dita, ma tutti questi fastidi non impediranno di continuare a cercare, mentre le speranze di ritrovare quella moneta si fanno sempre più labili, perché chissà dove sarà finita, con tutto quel tramestio, suo e di chi gli passa a fianco, indifferente.
Questa potrebbe essere la perfetta metafora di quanto si ricava al termine di Finitudine, il bel romanzo filosofico di Telmo Pievani, immaginato come l’incontro fra i due amici Albert Camus, già premio Nobel alla letteratura (che l’autore immagina sopravvissuto all’incidente automobilistico che nella realtà lo aveva portato alla morte), e Jaques Monod, illustre genetista dell’Istituto Pasteur, che vincerà il Nobel nel 1965.
Pievani riprende la tradizione del romanzo filosofico con il dialogo mediato dalla stesura di bozze, scritte da Monod, che costituiscono i veri capitoli del libro, delle quali i due parlano, mentre lo scienziato va a trovare lo scrittore, a letto all’ospedale di Fontainebleu.
La finzione è tutta in questa cornice – e non è un caso che Pievani abbia scelto loro come protagonisti, perché si parla di esistenzialismo, caso e necessità, che sono i temi di cui si sono occupati Camus (l’etica di una vita attiva e l’impegno fino alla morte) e Monod (con l’incompiuto lavoro dallo stesso titolo, incentrato sulla casualità dell’esistenza umana nello sviluppo dell’universo).

Siamo il frutto della fortuna

Siamo una scheggia pensante e cosciente, in un lasso di tempo infinitesimo della storia universale, venuti a esistere per caso, senza che alcuna entità preordinatrice abbia imposto alla natura il percorso che ha portato alla nascita del genere umano. Lo scontro fra atomi e particelle elementari è figlio del caso e del caos, così come la combinazione dei geni da cui nascerà una nuova creatura è del tutto casuale.
Siamo finiti, nel senso che siamo a termine e a niente valgono le spiegazioni che l’uomo ha tentato di darsi, non c’è alcuna finalità etica, morale o religiosa: siamo destinati a finire fra un miliardo di anni o forse meno e pare che non ci sia viaggio interplanetario o teletrasporto in grado di portarci su un altro pianeta vivibile, a dispetto anche dei recenti sforzi dei nichilisti Musk e Bezos, che lanciano i loro progetti orbitali illudendosi di gettare semi verso un indefinito progresso che porterà l’uomo al di fuori del sistema solare, alla ricerca di nuovi mondi abitabili. Intanto, dicono, pensiamo a salvarci noi e con noi intendono loro stessi e quelli che possono permettersi l’isolamento in rifugi blindati da malattie o guerre atomiche, oppure di cercare di sopravvivere in altri pianeti, come fa Matt Damon in Sopravvissuto – The Martian.

Come reagire alla finitudine?

Il nichilismo distruttivo è la prima reazione che può suscitare la piena presa di coscienza della propria/nostra finitudine. Leggendo Pievani non possono non venire in mente gli sforzi e i miliardi di dollari profusi nella criogenizzazione (pure citata) così come la tendenza dominante dell’industria tecnologica verso la disruption, nell’illusione di operare in prospettiva, di distruggere per creare qualcos’altro, anche se i distruttori ignorano se sarà un bene per l’umanità. Nel frattempo, hanno pronta la giustificazione ideologica che discende dalla presa d’atto della finitudine e dalla rivolta contro di essa.
E’ la stessa cosa che Pievani fa dire a Monod e Camus, con la differenza che la loro rivolta, inutile come gli sforzi del contadino giapponese, è una lotta contro l’ingiustizia e per l’affermazione di una vera libertà dal bisogno, dal controllo, dal malessere. E’ una lotta come quella di Sisifo (mito preso in prestito da Camus in uno dei suoi libri più famosi), che spinge lo stesso enorme macigno lungo un pendio, per poi vederlo rotolare in basso una volta raggiunta la cima e all’uomo non resta che scendere di nuovo e riprendere a spingere. E’ una lotta dell’umanità nel suo insieme, verso la fine della guerra, della logica delle armi e della violenza, verso un governo mondiale in grado di dare pane e libertà (e le rose) a ognuno. Troppo idealismo, forse, ma i due non si fanno illusioni, perché la loro lotta è anche contro le tendenze nichiliste e distruttive della natura umana.

La cosa migliore che possiamo fare

Le energie impiegate in questo compito, inutili nella storia dell’universo, nel dispiegarsi in eoni di scontri ed esplosioni di stelle ed atomi, questo si, apparentemente infinito, sono la cosa migliore che possiamo fare, sono l’unico senso che possiamo dare all’esistenza, a partire dall’accettazione della nostra irrimediabile finitudine.
Un buon esercizio per tornare alla finitudine, che può esser persa di vista nell’ebbrezza della lotta, è quello di discernere il momento in cui la scommessa della volontà, il gioco al rilancio e al rialzo del giocatore di poker va incontro al fallimento, quando la società, la storia, i fati obbligano i giocatori a mostrare le carte, per constatare la pochezza della loro mano. Quando la volontà di potenza incontra l’hybris, l’illusione di vincere sempre e comunque, a dispetto di tutti e incuranti del prezzo che viene imposto agli altri: riconoscere l’attimo in cui il giocatore vincente perde la prospettiva, portandolo alla fine, anche se non prima di trascinare i milioni con se, fra le macerie. Quando termina l’illusione di invincibilità, questo è un bell’esercizio di finitudine e fa parte delle riflessioni stimolate dalla lettura del libro, dall’esplicativo sottotitolo Un romanzo filosofico su fragilità e libertà.
La fragilità è la nostra coscienza di essere mortali, di sapere che un giorno finiremo e non ci saranno reincarnazioni o futuri noi stessi frutto di clonazioni dai nostri geni, perché quelle copie non avranno la nostra coscienza e i nostri ricordi, seppelliti assieme a noi. L’unico, vero e grande modo di dare un senso a tutto questo è ribellarsi. Ma, avvertono gli autori, il nichilismo distruttivo, così come l’indifferenza, in cui i numi tutelari Lucrezio ed Epicuro si rifugiano, non sono le soluzioni, non porteranno alcun senso, perché il nichilismo degenererà nella lotta per il più forte, mentre l’indifferenza (intesa come passiva presa di coscienza della propria finitudine) non guarirà dalla disperazione. Soltanto la lotta per cercare di vivere qui e ora, al meglio delle nostre possibilità, insieme come umanità, può dare un senso e una pienezza alla nostra vita; ci sentiamo forti e realizzati nella lotta per una piccola porzione di futuro migliore per i nostri figli.