Te-Nehisi Coates - Il danzatore dell'acqua
Il danzatore dell’acqua è la prima opera di narrativa per Ta-Nehisi Coates, noto come giornalista, polemista e autore di tre libri di non fiction di successo, tutti dedicati ai temi del razzismo in connessione con la disuguaglianza e autore di fumetti, con la riscrittura di Black Panther, poi portata al cinema. Ta-Nehisi Coates è già una superstar delle lettere e della cultura negli Stati Uniti e nel mondo anglosassone quando esce la sua opera prima di narrativa e – come fa notare Dwight Garner – non è un’opera prima schiacciata dagli interventi degli editor, ma si pone da subito come a jeroboam of a book, a stento traducibile come un libro delle dimensioni di una magnum (nel senso di bottiglia).
Due romanzi in contemporanea
Il passo è subito deciso, siamo nel mezzo dell’azione fin dall’incipit, immersi in ogni senso nelle acque di un fiume dove il nostro protagonista Hiram sta per affogare e da dove parte un lungo flashback: è l’inizio di un racconto che ne genera altri.
Di nuovo la critica ha tirato in ballo Garcia Marquez e Cent’anni di solitudine e questa volta con qualche ragione in più rispetto a La ferrovia sotterranea di Colson Whitehead, che ha avuto il solo torto di uscire nello stesso periodo (poco prima o poco dopo) de Il danzatore dell’acqua, con cui contende lo stesso oggetto: la via di fuga degli schiavi dagli Stati del Sud a quelli del Nord degli Stati Uniti, fino e al Canada.
Entrambi i romanzi si incarnano in un mito tramandato oralmente e ripreso dai libri di storia, quello della Underground Railroad, che in concreto era la rete di strade, sentieri, passaggi e rifugi gestiti da neri liberi e bianchi abolizionisti che permetteva la fuga degli schiavi verso la libertà.
Tutti e due ricorrono al mito in cui la Underground Road è trasfigurata: in Colson Whitehead in una ferrovia sotterranea vera e propria a cui si accede attraverso botole e scale umide nel sottosuolo di case di abolizionisti, mentre in Coates attraverso un dono della mente del protagonista, in grado di trasportare i fuggiaschi.
Affinità e divergenze
In Coates da subito colpisce la qualità e bisognerebbe spendersi in un approfondimento per capire come mai due lavori che affrontano lo stesso tema, frutto di due sensibilità molto simili, ma che provengono da ambienti diversi (la famiglia di Whitehead appartiene alla media borghesia black newyorchese; la famiglia di Coates è parte di quell’ala radical del black movement che ha mantenuto l’impegno anche dopo le lotte degli anni Sessanta) hanno risultati così diversi.
Per usare una parafrasi cara a Hemingway, Whitehead mostra ma non dice: il suo romanzo è una raccolta di tableaux vivant, in cui la protagonista si trova immersa nelle varie tappe verso la libertà. Noi vediamo atrocità, terrore, ingiustizia in una carrellata e alcun i dettagli sono raccapriccianti e ringraziamo mentalmente l’autore a non indugiarvi. Si, la schiavitù era questo, era anche questo. L’ambiente di Cora, una piantagione in Georgia, è particolarmente feroce per il sadismo di padroni e sorveglianti bianchi, ma questa, ci mostra Whitehead, era la vita nelle piantagioni e il corpo e la vita degli schiavi era sottoposta a qualsiasi crudeltà o arbitrio.
Quale differenza nel mondo virginiano di Hiram, il danzatore dell’acqua di Coates, figlio di una schiava (venduta quando lui era in tenera età) e del padrone bianco della piantagione di tabacco, che riconosce in lui un ragazzo intelligente e lo porta in casa sua, sempre da schiavo, a far da valletto al suo fratellastro bianco Maynard, destinato a ereditare casa e proprietà. Eppure in quella che era una condizione privilegiata rispetto agli schiavi che si spaccavano la schiena nei campi, Coates ci introduce alla sua vita con considerazioni prese dall’ambiente, attraverso gli ammonimenti di Thena, la sua madre adottiva, o di altri membri della servitù padronale, che ci dicono e insieme ci mostrano.
Ma soprattutto è il linguaggio e l’irruzione del fantastico fin dalla prima pagina a dare il tono del romanzo, spargendo quella polvere magica che, dispiace dirlo, non si trova ne La ferrovia sotterranea.
La Feccia
Sia in Whitehead che ancora di più in Coates, emerge il ruolo di quella che lo stesso Coates chiama la Feccia, cioè i bianchi di bassa estrazione sociale, ignoranti e criminali, che vivono di cattura e contrabbando di schiavi: riuniti in bande scorrazzano nel Sud come una polizia fuorilegge, taglieggiatrice e torturatrice, mentre nel Nord abolizionista agiscono in maniera più discreta.
Se solo – Coates fa dire ai suoi personaggi – capissero che neri e bianchi poveri stanno dalla stessa parte, allora sarebbe la fine di questa società ingiusta e disuguale.
Sarebbe la fine della Qualità (i ricchi bianchi proprietari di terre e schiavi) come classe sociale. Invece la Feccia lavora per la Qualità, è il suo cane armato e il razzismo è il suo fondamento.
La Feccia, trasposta ai giorni nostri, è l’elettorato di Trump: bianchi che vivono negli Stati interni, nelle campagne, in regioni montuose, con scarsa istruzione (non-graduate, secondo i canoni statistici), che costituiscono circa il quaranta per cento dell’elettorato attivo degli Stati Uniti. Li accomuna l’odio per i neri, l’amore per le armi e la fede nella Bibbia; sono antiabortitsti e hanno un reddito medio basso, che spesso scivola nella povertà. Un tempo era l’industria a impiegare queste persone, ora vivono di lavoretti part-time, di sussidi che spendono in alcool e sempre più massicce dosi di Fentanyl.
La feccia, pare dirci Coates, c’è sempre stata; i grandi che appartengono alla Qualità non si sporcano le mani, se non per infliggere punizioni o supplizi esemplari, in un crescendo senza limiti all’atrocità.
Quello che ci mostrano sia Coates che Whitehead è la crudeltà del sistema schiavistico, in grado di tenere assoggettata una maggioranza con la forza del ricatto famigliare.
La separazione delle famiglie
La separazione dei genitori dai figli, o la sua semplice minaccia è il deterrente più grande per tenere gli schiavi assoggettati. Non è la paura della punizione, per quanto sempre presente, il vero deterrente nella vita di uno schiavo, ma la precarietà perenne delle sua condizione: può essere venduto da un giorno all’altro e passare dalla comunità in cui è cresciuto a una nuova, lasciare moglie, figli, affetti verso l’ignoto e contro la sua volontà.
E questo è il grande fardello che per tutta la vita ogni nato schiavo si porterà dietro: il rimpianto della vecchia comunità dalla quale è stato separato e le sue aspirazioni saranno sempre spezzate a metà, fra l’anelito a una sconosciuta libertà e la nostalgia della vecchia piantagione dove ha trascorso l’infanzia.
Basta la morte del vecchio proprietario e già il passaggio di generazione, senza cambio di proprietà, è spesso un trauma. I figli non sono uguali ai padri e le promesse dei padri (ad esempio di emancipazione permettendo ai loro schiavi di comprarsi la libertà) vengono disattese. Oppure non ci sono eredi e la terra con tutte le sue proprietà, schiavi compresi, viene ceduta a un nuovo padrone, che non esiterà a imporre nuove regole. Adattarsi a questa vita, per uno schiavo, significa vendere la propria anima al padrone, diventarne il confidente, l’infame che tradisce la sua comunità.
Il veleno del razzismo di oggi è il frutto marcio dello schiavismo di ieri. La disponibilità dei neri a perdonare, comprendere, giustificare e- peggio di ogni altra cosa – la rassegnazione, l’accettazione dello stato di cose presenti come un dato di natura è il lascito delle storie di generazioni nate in cattività, dove il colore è uno stigma più forte che in altri stati del continente americano dove lo schiavismo era legale.
Ancora oggi non è possibile per un nero americano non pensarsi come un discendente di schiavi e questo genera un rancore che viene spesso confermato una volta affacciato alla vita adulta, con i vari tetti di cristallo che la società americana, specialmente al sud, gli ha messo sulla testa.
I motivi del rancore
In primo luogo la zona: la segregazione come dato di fatto nasce dalla separazione; in un quartiere nero le case valgono molto meno che in uno bianco e solo i bianchi poveri o poverissimi accetteranno di abitare in un quartiere nero, dove si sentiranno circondati e svilupperanno le caratteristiche più tipiche della Feccia. Per tutti gli altri vale la paura del ghetto, anche se vivono in aree rurali popolate quasi solo da bianchi.
In secondo luogo la polizia, che per loro ha un occhio di riguardo uccidendo neri più facilmente dei bianchi, fornendo l’ultima, estrema riprova, che la vita di un nero vale meno di quella di un bianco, così come i neri negli Stati del Sud valevano tre quinti di un bianco, la misura stabilita dai legislatori per rimpinguare la rappresentanza di Stati del Sud spopolati rispetto a quelli del Nord.
In terzo luogo la difficoltà a esercitare il diritto di voto, da quando nel 2013 la Corte Suprema (a maggioranza repubblicana-conservatrice) ha abolito la cosiddetta Sezione 5 della legislazione federale sui diritti civili, concedendo a ogni Stato o contea la facoltà di imporre restrizioni sul diritto di voto con la scusa dell’autonomia organizzativa.
Ci sarebbero tanti altri fattori che messi assieme a questi infine generano una comunità separata, le cui possibilità di accesso al benessere e alla stabilità economica sono inferiori rispetto al resto della popolazione.
Arriviamo al paradosso che i neri sono di sicuro, assieme alla minoranza bianca WASP, la fascia di popolazione che risiede da più tempo negli Stati Uniti e che si vedono sistematicamente sopravanzati da tutte le ondate migratorie le quali – pur colpite dal razzismo, riescono in un paio di generazioni a integrarsi nello stile di vita americano.
E questo genera inevitabilmente altro rancore nella comunità nera, portando alla chiusura delle comunità verso l’esterno e degenerando in povertà, violenza, criminalità a tassi più alti della media del paese, fornendo una giustificazione al comportamento della polizia.
L’organizzazione
Dei tanti modi in cui gli autori afroamericani hanno affrontato la schiavitù, l’approccio di Coates risulta fra i più incisivi.
C’è chi ha visto influenze della sua attività di saggista e polemista che incidono negativamente sull’andamento del romanzo (vedi Roberto Festa su Il Venerdì di Repubblica del 30 ottobre 2020), ma la lettura non ha intoppi e la storia prosegue avvincente con le azioni della Sotterranea, una società segreta come altre nella storia, con i suoi agenti, i suoi obiettivi (liberare gli schiavi e portarli di nascosto negli Stati liberi), i suoi codici.
Quelle che potrebbero sembrare digressioni e che Coates mette in bocca ai suoi personaggi, spesso sono elementi che arricchiscono la narrazione, come quando Mr Bland racconta ad Hiram che le case lussuose di un quartiere bianco di Filadelfia, sono state costruite sulle ossa di migliaia di schiavi seppelliti in quella zona, un tempo periferica, dove i neri erano stati messi in isolamento a morire durante un’epidemia di febbre (pag. 228).
Ma tutto questo non colpirebbe se non fossimo informati della premessa, e cioè che gli schiavi erano stati importati a Filadelfia (allora era ancora schiavista) a seguito della teoria di un apprendista stregone secondo cui, per il colore della pelle, avrebbero attirato la febbre su di loro, guarendone i bianchi colpiti. Il risultato fu un inutile e feroce tributo di vite umane che avrebbero potuto continuare a vivere da un’altra parte.
Questo è un episodio descritto in mezza pagina di libro, che ci viene narrato mentre i due sono appostati fuori da una di queste case, in missione per conto della Sotterranea.
La Sotterranea è unita dalla fratellanza dei suoi membri, i cui eventuali contrasti sono composti in nome degli ideali che li riunisce. Non esito a credere che la vera Ferrovia Sotterranea fosse organizzata nel modo indicato da Coates, come un partito politico clandestino, un partito la cui militanza significava una promessa di fede per tutta la vita.
Questo in fondo è il vero messaggio de Il danzatore dell’acqua: senza organizzazione, devozione alla causa e militanza attiva le cose non si cambiano. Ed è questa la vera differenza con La ferrovia sotterranea di Whitehead, che ci porta in un’immaginaria rete di gallerie scavate sotto gli Stati schiavisti da non si sa chi, non si sa quando. Cioè, per quanto ci muoviamo in una dimensione immaginaria, i tunnel, le stazioni, l’organizzazione sono qualcosa di dato, che percepiamo come piovuto dall’alto senza poterne cogliere i meccanismi. In Coates i poteri della Conduzione sono ben inseriti all’interno di un’organizzazione clandestina e rappresentano la parte di crescita del personaggio. In Whitehead è l’intera struttura che è immaginaria e assomiglia più a una mano piovuta dal cielo, a una divina provvidenza, diremmo noi, laddove è stata solo la ribellione e la volontà di fuga e di riscatto a permettere la fuga verso la libertà.
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