Seleziona una pagina

Simon Reynolds - Post Punk 1978 - 1984

I think punk rock itself was not so much of a working-class movement as everyone has made out. I always go on about this liminal class in Britain, this lower-middle class/upper-working class zone. That area is where a lot of music energy comes from. Maybe it’s something about the precariousness of that zone that gives people their impetus or their drive to escape mediocrity.
(Simon Reynolds in un’intervista a Wilson Neate sul sito Joy Press and SR)

E’ un periodo della musica fondamentale, che ha prodotto centinaia se non migliaia di ore di pessime registrazioni, assieme a molte idee e innovazioni che sono state riprese, scartate, dimenticate oppure perdute.
Quello che viene chiamato post punk, ma che in Italia era stato battezzato come new wave è il momento della storia della musica in cui forse si è sperimentato di più. E’ il momento in cui, come nel punk, conta molto di più la voglia di dire qualcosa, a qualsiasi costo che non la conoscenza della musica; conta molto di più l’energia che non la capacità di suonare uno strumento.
La furia iconoclasta del punk aveva mostrato per molti la corda ancora prima che uscisse Anarchy in the UK. Tutto quanto di distruttivo avevano portato Clash, Pistols, Ruts e molti altri era terminato con un esaurimento per mancanza di idoli da distruggere. Quelli venuti dopo, spesso nati dal punk o anche qualche anno prima, si erano proposti di distruggere il rock, così come i punk avevano schifato e rigettato la musica progressive e lo star system del rock ‘n roll, con i grandi nomi che a metà anni ’70, Rolling Stones in testa, riempivano gli stadi.
La new wave nasce con il tentativo di abolire perfino gli strumenti del rock. Molti musicisti si vantavano nelle varie interviste a fanzine e riviste musicali di non saper suonare nessuno strumento. Altri si inventavano gli strumenti, attraverso le percussioni, i primi campionamenti, l’uso dei primi effetti elettronici per riprodurre ritmi ossessivi ottenuti attraverso registrazioni di rumori. Alla base per molti stava una situazione di tipo dadaista, dove l’improvvisazione e l’esplorazione di nuovi modi di fare musica, da ignoranti e autodidatti, era più importante della ricerca del successo.
Era questa la forza di una generazione arrivata troppo tardi per vivere gli anni Sessanta e le varie rivoluzioni culturali. Erano i figli dei Sessanta, arrivati immediatamente dopo la controcultura hippie, che sopravviveva attraverso l’uso di hashish e marijuana, di allucinogeni come l’LSD e la psilocibina contenuta nei funghi allucinogeni. Questa parte di subcultura non era mai venuta meno, anche se il movimento punk aveva rigettato buona parte della musica e della cultura dei Sessanta come strumenti di rincoglionimento che avevano diluito l’energia rivoluzionaria dei Sixties,.

Nuovo inizio

Erano venuti meno i riti, come lo stare seduti in cerchio a passarsi un joint. Ma l’energia risvegliata del punk spesso si contorceva in un nichilismo e soprattutto in una riedizione di vecchi linguaggi. Un amico critico musicale una volta mi aveva chiesto perché io ami questo periodo. La risposta era stata di tipo sentimentale, la stessa che un’altra amica di vent’anni più vecchia aveva detto a proposito di Battisti: “E’ il mio”, aveva detto. E io potrei ripetere al plurale la stessa frase. Quello che io cercavo nella musica di quegli anni, dai sedici ai venti, più o meno, erano le stesse cose che cercavano quelli che la suonavano: qualcosa di nuovo.
In ogni gruppo cercavo di ascoltare la novità, le differenze con quelli di prima (evidenti) e i coetanei.
L’amico critico musicale, di qualche anno più vecchio di me, non era riuscito a entrare nella cosa, perché lui cercava il movimento e non era riuscito a trovarlo, perché non era quello che bisognava cercare. Era l’elefante rosa nel negozio, quello che si doveva cercare, quello che le nostre orecchie sentivano e che erano vergini, perché non avevano mai sentito nulla prima.
Orecchie nutrite alla hit parade di Lelio Luttazzi e qualche nastro di disco music registrato da un vicino di casa di qualche anno più grande.
Era la stessa deprivazione da cui provenivano gli inglesi, cresciuti anche loro con uno o due canali televisivi e radio, con tre settimanali musicali e nient’altro. Con il senno di ora quello era un deserto culturale, ma in realtà esisteva nel Regno Unito un ottimo sistema scolastico e una grande libertà di aggiornamento e insegnamento delle scuole d’arte, che poi erano state il bacino da cui provenivano la maggior parte dei ragazzi che allora si mettevano a suonare.
Molti di loro avevano già un lavoro e avrebbero potuto proseguire con le varie tappe della vita, scandite da matrimonio, figli, serate al pub e cartellino da timbrare in fabbrica o in ufficio.
In quell’epoca, nonostante la deindustrializzazione che stava iniziando il processo di desertificazione produttiva ancora prima dell’era Thatcher, la disoccupazione non era un problema. Gente come Ian Curtis dei Joy Division a poco più di vent’anni era già sposato con una figlia e un lavoro per mantenere la famiglia. La musica non era per forza la possibilità di sbarcare il lunario; non era nemmeno un hobby; era per forza più di una passione, per chi aveva l’urgenza di dire qualcosa.

Alcune cose importanti

Quello che mi sono sempre chiesto è perché – proprio in quel periodo – siano venuti fuori così tanti gruppi da generare una nuova e più grande invasione di musica britannica. Certo, non mancavano gli americani, ma confinati ad avanguardie in poche grandi città: New York, San Francisco e – agli inizi – il nord deindustrializzato dell’Ohio, con Akron e Pittsburgh in testa; poi, più tardi, sono arrivate Los Angeles, Minneapolis, Philadelphia. Ma il post punk era e resta un fenomeno al novanta per cento britannico.
Provo a elencare una serie di condizioni che hanno permesso la nascita e lo sviluppo del fenomeno:
– come dice Reynolds in un’intervista, la maggior parte dei protagonisti della scena arriva dall’aristocrazia della working class o dalla parte bassa della middle class, cioè da quel substrato liminale che è agitato dalla curiosità e dalla voglia di riscatto
– la scuola britannica e specialmente gli istituti d’arte sono il serbatoio da cui provengono i musicisti. E’ una tradizione inglese, non per forza legata a una sola disciplina, per cui anche una persona portata alle arti figurative o alla poesia può diventare un musicista con un approccio scevro da condizionamenti legati a professionismo, capacità o talento
– la presenza sul territorio di numerosi edifici abbandonati o sottoutilizzati, che vengono concessi dalle autorità oppure occupati per diventare centri di attrazione per artisti di vario genere e un pubblico giovane affamato di novità
– il momento di rottura del punk, da cui la scena post punk prende le mosse, che in parte ne porta avanti l’energia, in parte vuole superarlo, senza entrare in aperta opposizione, come ad esempio il punk con il prog. Però il punk ha fatto ripartire le cose da zero, ha aperto ad esempio orizzonti verso la musica reggae o caraibica
– l’attitudine a considerare la musica come un mestiere con il quale si possa vivere dignitosamente, questo grazie alle precedenti ondate beat, rock e prog che avevano scosso il panorama negli anni precedenti. Si comincia da meravigliosi dilettanti e si può finire lì, oppure si può diventare professionisti dopo qualche anno e anche passare dall’altro lato, cioè diventare produttori. In quegli anni c’è un’osmosi fra queste posizioni.
– la presenza di una serie di etichette indipendenti, piccole e non, in competizione con le majors. Alcune nate prima o in contemporanea al punk, ma l’ondata arriva con l’avvento del post punk o della new wave. Nel Regno Unito nasce e si diffonde una classifica della musica editata dalle produzioni indipendenti, spesso figlie degli stessi gruppi che suonano (autoproduzione) o comunque provenienti dallo stesso ambiente. La diffusione è locale, con ogni città media o grande al di fuori di Londra con le proprie etichette che promuovono la musica dell’area
– il ruolo di promozione svolto dalle radio pubbliche (Radio One per tutta la nazione e Radio Capital per Londra) e da John Peel che ha contribuito al lancio e notorietà di numerosi gruppi che mandavano le cassette demo con i loro pezzi. Poi i settimanali Sounds, New Musical Express e Melody Maker, ognuno con i giornalisti attenti alla nuova ondata. Infine, alla base, il ruolo delle fanzine, che faceva sempre parte dell’autoproduzione, ma che erano veicoli di idee e progetti; qualcosa di simile agli attuali blog, costruiti però collettivamente, non atomizzati.
– La scoperta e la nascita di nuovi strumenti e nuovi modi di fare musica, il rifiuto per molti di seguire sia l’estetica che il modo di fare musica rock, fino al rifiuto dell’uso della chitarra, in alcuni casi. La ricerca di suoni e modi di fare musica che sfociavano in antimusica e rumore, ma che sono tutti tentativi di evadere dalla gabbia del rock ’n roll. Fear of Music, avevano fatto uscire i Talking Heads.
– Come corollario alla ricerca di nuove sonorità e al rifiuto del rock arriva anche la scoperta di altri generi e musiche del mondo, reggae e ska in primis. Avevano già iniziato i Clash e i Ruts e su quella scia si è innestato un genere. Ma non mancano le incursioni nelle musiche del Terzo Mondo, prima come curiosità intellettuale (Byrne, Eno) e poi via via allargando sempre di più gli orizzonti (The Creatures, Siouxsie e Budgie), con gruppi che utilizzano registrazioni oppure usano strumenti di altre tradizioni
E’ stata l’unione di tutti questi fattori sociali, educativi, culturali, geografici e topografici a creare un movimento unico, che nel giro di pochi anni (Reynolds mette i paletti dal 1978 al 1984, ma si potrebbe anticipare o ritardare seguendo le carriere dei maggiori protagonisti, alcuni dei quali ancora in attività) ha rivoltato la musica popolare e lo stesso rock and roll, per cui niente è stato più come prima. E ancora oggi i fondamenti e i suoni sono gli stessi di quegli anni, per cui è finita l’epoca dello stupore e dell’entusiasmo. Non credo che sia un problema di età anagrafica.

Principio di identità

Per molti di noi in quegli anni la musica era un principio di identità. Se uno ascoltava la nostra musica faceva parte della nostra tribù, sentiva quello che sentivamo noi. Chi non lo faceva, semplicemente non era degno. Certe scene di Alta fedeltà descritte da Nick Hornby erano tutte vere, rappresentavano esattamente quello che tutti sentivamo. Mi riferisco alla cacciata dal negozio di dischi dei clienti che cercavano i Duran Duran. In quell’episodio esilarante c’è tutto quello che serve per capire.
Se bisogna trovare un limite nel lavoro documentatissimo di Reynolds è quello di soffermarsi troppo su personalità e gruppi tutto sommato minori a scapito di altri. Sappiamo moltissimo o tutto su gruppi come i Fall, i Wire, gli Scritti Politti, gli Human League. Leggiamo capitoli interi sulle malefatte di Malcolm Mac Laren e carriere come quelle di Simple Minds e Cure, tanto per fare un esempio, vengono appena accennate. Degli Stranglers, ad esempio, non si fa neanche menzione. Gli U2 vengono presentati come un gruppo di impostori, cristiani radicali (e su quello non ha torto), il cui scopo era quello di accaparrarsi il pubblico dei Joy Division dopo la morte di Ian Curtis.
Cioè i gruppi che alla fine di questo processo sono usciti dal Regno Unito e sono diventati star mondiali senza per questo rinunciare a quanto avevano da dire, gruppi che arrivano da quello stesso humus, che hanno fatto parte di quel movimento di idee, sono lasciati da parte.
Forse perché su di loro troppo è già stato detto o scritto.
In ogni caso non meritavano un accenno ai margini, specialmente dopo le descrizioni dettagliate dei vari modi di fare musica precedenti, basati su rumori e registrazioni di battiti o sfregamenti di vari oggetti, sperimentazioni sui primi sintetizzatori e altro ancora, tutte registrazioni spesso andate perdute perché riversate su cassette, prodotte in maniera artigianale, spesso utilizzando apparecchi mono a una sola traccia che obbliga a registrare assieme tutti gli strumenti.
Reynolds si sofferma sulla nascita e circoscrive quello che per lui è l’apice della produzione dell’epoca, rappresentato dall’LP Metal Box dei PiL.
Ora che autoprodursi è ancora più facile, non si trova più la varietà di quei tempi, persone che se ne fregano del risultato, ma semplicemente cercano, provano, senza l’obiettivo del successo a ogni costo. Erano persone che prima di tutto stavano assieme e i gruppi erano spesso intesi come collettivi in cui si divideva tutto; una dimensione che in larga parte è andata perduta.
Ora il problema è l’assenza di un’industria, di una struttura di supporto con le professionalità – dai produttori ai tecnici del suono – con le capacità e il gusto di discernere le gemme dalla spazzatura, i talenti dalla volgarità.
Non c’è più un’industria che possa permettersi di scommettere su una persona o un gruppo, dandogli mezzi e professionisti per tempi lunghi in modo da sperimentare i suoni e i modi di suonare. Usare lo studio di registrazione come uno strumento dalle infinite possibilità.
Oggi manca una classe media di musicisti o gruppi che possano vivere di quello che suonano. Per i più resta la marginalità, mentre poche grandi star riconosciute guadagnano somme enormi. Un sottoproletariato che non riesce as fondare un soffitto di cristallo che schiaccia e un’elite irraggiungibile: nella musica forse prima che da altre parti si possono valutare i danni fatti dai disruptors della Silicon Valley.