Silvia Ferrara - Il salto
L’indagine sulle origini della scrittura e sul cosiddetto salto, ovvero quando l’uomo ha cominciato a ragionare in astratto, va avanti in maniera appassionante, un anno dopo l’altro, con l’accumulazione di ritrovamenti, datazioni, studi e ipotesi ed è un bellissimo gioco che potrebbe non avere fine; anzi, l’aspirazione di tutti gli studiosi è quella di poter continuare a fare ipotesi sempre più plausibili, cercando di avvicinarsi a un passaggio cruciale (che forse non si troverà mai) che i millenni hanno cancellato.
Perpetuarsi, attraverso un ricordo che superi i confini biologici delle nostre esistenze, lasciare un segno per quelli che verranno, perché tutto quello che hanno visto i loro occhi non vada perduto, è questo forse il primo salto: l’autocoscienza di se come specie e la trasmissione del sapere, da una generazione a un’altra, da un luogo all’altro. Questo salto cognitivo lo abbiamo avuto solo noi, che in ogni epoca ci siamo impegnati a trovare i modi per passare ai figli e ai nipoti quanto avevamo visto e imparato. Oralmente siamo arrivati alla Bibbia, all’Iliade e all’Odissea – che pure a un certo punto hanno dovuto essere scritte per arrivare fino a noi – ma pure la memoria resta importante, perché alcuni libri, la stessa Bibbia, il Corano, i Vangeli, vengono ricordati a memoria. E ancora esistono – si, esistono! – gli anziani autodidatti che imparano a memoria la Divina Commedia. Lo fanno perché un angolo del loro cervello, l’amigdala, legata alle funzioni motorie di base, gli suggerisce che – se un giorno un regime alla Fahrenheit 451 imponesse di bruciare tutti i libri,-la memoria di Dante sarà pronta a essere dettata in tempi migliori.
Le meraviglie della preistoria
Nel primo salto cognitivo verso l’astrazione l’uomo si ingegna: deve trovare un supporto durevole e le rocce serviranno a questo. Non tutte le rocce vanno bene: oltre che avere superfici disegnabili e incidibili, devono trovarsi in luoghi riparati, per proteggere i ricordi dalle intemperie. E non solo: molte di quelle rocce avranno caratteristiche particolari, una protuberanza che suggerisce l’addome di un cavallo, una bugnatura che è già il muso di un bufalo, basta solo disegnarne il contorno per renderla evidente. Anche Michelangelo diceva che la statua era già pronta, bastava soltanto togliere il superfluo attorno, sbozzando il blocco di marmo; tanto per dire che il cervello nostro è lo stesso che avevano i nostri progenitori cinquantamila anni fa.
Lo scopo di Silvia Ferrara, docente di Civiltà Egee all’Università di Bologna è rintracciare quando e dove è avvenuto un altro salto, cioè quali sono stati i passaggi e i tentativi che hanno portato alla scrittura e il viaggio inizia nei luoghi più affascinanti, che ci hanno fatto sognare: la grotta di Chauvet, in Ardeche, che ha tanto colpito l’immaginazione di tutti da essere filmata da Herzog e quella di Lascaux, nel Perigord, dove immagini di bufali, cavalli selvaggi, leoni si inseguono da una camera all’altra. Sono scene di caccia propiziatorie alla caccia vera? Sono tentativi di comunicare con un altro mondo, al di là della parete e gli stencil delle mani sono gli altri noi che ci assorbono attraverso la membrana di roccia, portandoci in volo ci mostrano dall’alto i sentieri degli animali in transumanza: sapremo dove andarli a colpire una volta rientrati dal viaggio. Sono tutte ipotesi che purtroppo o per fortuna non riusciremo mai a provare e passeremo il tempo a confrontare le recenti teorie sui neuroni specchio per trovare la chiave universale, in grado di darci l’accesso a quel mondo di cui abbiamo perduto la chiave.
Mappe e leggende
Bella ipotesi, molto affascinante, commenterebbe Silvia Ferrara, ma non arriviamo all’oggetto della sua ricerca e cioè: quando ci avviciniamo alla scrittura?
In tutte le grotte, in tutte le incisioni rupestri del paleo e neolitico trovate in tutti i continenti, sono stati trovati dei segni comuni: croci, cerchi, linee, spirali, cancelletti, asterischi, classificati da Genevieve von Petzinger che potrebbero far pensare a un comune alfabeto, ma di cui non si riescono a ricostruire quegli elementi di ordine e ripetitività propri di una sintassi. Ma se questi segni non sono scrittura, perché li troviamo a fianco di disegni elaborati? Non è stata trovata una risposta a questo enigma.
Con l’incoscienza dell’ignorante tento un collegamento. Nel suo miglior libro (a mio parere) Le vie dei canti Bruce Chatwin collega i quadri astratti degli aborigeni australiani – fatti di punti colorati, linee curve che come serpenti collegano cerchi concentrici, nelle tinte dell’ocra, del bianco e del nero – con i canti tramandati in segreto dalla tradizione indigena. I canti contengono i miti della creazione e al loro interno si trovano le indicazioni dei punti salienti del territorio, necessari per orientarsi e sopravvivere durante il walkabout . In sostanza quei quadri sono mappe stilizzate e presuppongono la notevole capacità di astrazione di immaginarsi di osservare il territorio dall’alto, riducendo le emergenze a pochi segni. Nel nostro caso potrebbero essere i segni disegnati o incisi sulle rocce, che stavano a indicare sentieri di caccia, di migrazioni, o di collegamento fra grotte dipinte o punti salienti, come montagne sacre, che non a caso si trovano in punti dominanti , dove la vista spazia su altre cime e su altre ancora e ognuna è collegata visivamente con una o più altre.
Uscite di sicurezza
Certo, risponderebbe Silvia Ferrara, così arriviamo alla famosa rete e siccome questa è l’epoca di internet, la moda del momento è pensare i fenomeni in questo modo: tutto il mondo conosciuto è una enorme ragnatela che i nostri antenati hanno descritto e disegnato nelle caverne affinché non andassero perdute le vie, i passaggi da un territorio all’altro.
Quindi se così fosse, i segni accanto ai pittogrammi e incisioni sono simboli, astrazioni geometriche di emergenze nel territorio: fiumi, laghi, montagne, etc.. Non sono un alfabeto, ma un insieme di segnali per descrivere un territorio, a ricordare una mappa, a trasmettere nella mente degli antenati viaggiatori le successive tappe di un percorso noto e che allungandosi nei millenni su tutte le terre conosciute è giunto fino in Australia, dopo aver attraversato uno stretto braccio di mare che separava due protocontinenti. Laggiù l’isolamento dovuto al distacco progressivo delle terre formate da Australia e Nuova Guinea dal resto dell’enorme massa euro-indo-afro asiatica ha determinato la sopravvivenza di abiti mentali che sono scomparsi nel resto dell’umanità.
Se un sistema di segni del genere ha davvero favorito la trasmissione della conoscenza ai popoli migranti, allora ci troviamo di fronte a un salto rivoluzionario. Sarà vero? Come si può provare una cosa del genere? E se si individuassero le corrispondenze fra segni e punti salienti del territorio e se questi segni fossero noti a tutti i viaggiatori, al punto da usare le grotte come stazioni di posta, dove scoprire la direzione e il percorso verso la tappa successiva?
Tanto sono solo ipotesi che suggeriscono una via di fuga sicura, verso altri luoghi dove sarà possibile ricominciare – ed è talmente facile farsi suggestionare e innamorarsi dell’idea di popoli in movimento, parte di un’umanità così lungimirante da lasciare migliaia di segni e disegni in luoghi protetti ma noti, per facilitare gli spostamenti delle generazioni future, perché gli antichi ben sapevano che il nostro mondo è soggetto a terremoti, eruzioni, epidemie, eventi catastrofici che possono rendere inabitabile una terra prima feconda.
E’ solo biologia
Possiamo considerare questa ipotesi come l’inizio di una scrittura? No, ma è un linguaggio che dovremo sforzarci di capire. Non è una scrittura perché caratteristica di un alfabeto, fonetico o pittografico, è la sua versatilità, ovvero un insieme di attrezzi fatto di segni che permettono di comunicare qualsiasi concetto e la loro continua ricombinazione da origine a pensieri nuovi.
I segni però sono un linguaggio comune perché, come spiega l’autrice, la percezione delle forme a livello neurale e la riproduzione astratta del reale in forma di simboli è comune a tutti gli uomini, ma oltre a questo non si può o non si è riusciti ancora ad arrivare; non sono ancora stati definiti con esattezza i motivi che hanno portato a lasciare segni simbolici nelle caverne, così astratti rispetto ai meravigliosi disegni di animali da sembrare completamente staccati da quel mondo di immagini; eppure se compaiono all’interno degli stessi spazi una funzione la dovevano pur avere. Forse è questo, il mistero della nascita della scrittura? E dobbiamo forse indagare per contiguità grafica in questa direzione per individuare il tassello mancante? Ci sono voluti millenni ma l’origine principale dei segni che sono stati sistematizzati in scritture è da individuare in quei simboli comuni, nati come notazioni di territorio? Al momento non possiamo saperlo e di sicuro quello che un tempo veniva definito in maniera suggestiva come legame psichico con la terra non ha alcunché di spirituale, ma è solo biologia.
Così come, dall’altro lato, è sempre biologia la reazione al buio e alle immagini di animali che entrano in movimento alla luce delle torce e l’esposizione prolungata a queste immagini genera reazioni che portano a esplicitare in forma di sogni o visioni quello che è già presente nella nostra mente, ovvero la capacità di vedere le cose, dall’alto o da un piano orizzontale, e di riprodurle su una superficie piatta, a due dimensioni. In questo senso segni e disegni si sono liberati dalla mente dei loro artefici e una volta trasferiti sulle pareti hanno preso vita propria, al di là della volontà degli autori. E in più sono belli, e questo non ha una convenienza pratica ne un’utilità biologica – questo è proprio un mistero.
Pensiamo come loro
E’ curioso che Il salto si concluda nelle cavità di Onkalo, in Finlandia, dove vengono seppellite le scorie delle centrali nucleari, destinate a smaltirsi in migliaia e migliaia di anni. E’ lo stesso finale di Underland, il libro di Robert Macfarlane dedicato all’esplorazione del sottosuolo, fatto con la passione del viaggiatore a piedi curioso. Per tutti e due l’oggetto della loro visita è il linguaggio, fatto di segni e immagini, destinato agli eventuali scopritori di quel deposito pericoloso, scavato nel granito a cinquecento metri di profondità e che, una volta riempito, verrà chiuso, mentre sopra continueranno a crescere gli stessi boschi che circondano il luogo. Onkalo non dovrà essere trovato e se per caso lo sarà, i segni al suo interno serviranno a far capire che si tratta di un luogo pericoloso ed è per questo che tutti i segnali sono stati inventati nella previsione che i posteri non saranno più in grado di comprendere il nostro alfabeto. E se – si domanda Silvia Ferrari – anche i nostri antenati avessero avuto la stessa preoccupazione, cioè quella di comunicare qualcosa a quelli che sarebbero arrivati tanto dopo di loro, così in là nel tempo che non potevano immaginare, così come noi non sappiamo come potrà essere il mondo fra diecimila anni? In fondo siamo uguali a loro, il nostro cervello è come il loro e loro pensavano come pensiamo noi.
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