Sergio Luzzatto - Giù in mezzo agli uomini
Titolo azzeccato, che descrive una parabola, il punto al culmine di un’esistenza in cui si fanno scelte che cambiano la direzione della vita. Nella biografia di Guido Rossa, vittima a Genova delle Brigate Rosse, ammazzato sotto casa il 24 gennaio del 1979, quella decisione avviene dopo una sciagura in montagna. La decisione cambia la sua vita, ma ancora non lo sa. E’ come se il destino, un daimon come direbbe Hillman si fosse impossessato di lui, portandolo per azioni successive e conseguenti fino all’epilogo tragico: prima gambizzato dal BR Vincenzo Guagliardo – e infine ucciso da due colpi, uno al fegato e uno al cuore, esplosi dall’arma di Riccardo Dura, il capocolonna genovese.
Pol Pot
Nella dinamica feroce del delitto dev’esserci stata una reazione della vittima. Quale? Cosa può aver indotto un uomo deciso, un capo che stava guidando un commando, uno che doveva avere il polso della situazione a perdere la testa? Per quanto la situazione fosse tesa, non dev’essere stato un moto di rabbia a far tornare Dura sui suoi passi e sparare i colpi fatali a bruciapelo. Dura, pare certo, aveva già ucciso. Era noto per la sua intransigenza (oltre al nome di battaglia, il suo soprannome era Pol Pot, quando ancora di Pol Pot e del genocidio cambogiano non si sapeva niente).
Già, ma come era noto Pol Pot all’epoca? Pol Pot era a sua volta lo pseudonimo del leader dei khmer rossi cambogiani, che aveva deciso di eradicare dalla base ogni tipo di sapere o sensibilità perché inquinato da secoli di religione buddista e dalle più recenti influenze occidentali. Il progetto era semplice: le città andavano svuotate e i cittadini dovevano andare a lavorare nei campi. Gli intellettuali, maestri, medici, professori, giornalisti andavano uccisi subito. Chi portava gli occhiali era già passato per le armi. Questo era Pol Pot, prima che si sapesse che due milioni di cambogiani avevano perso la vita per fame, torture e uccisioni nelle campagne cambogiane a seguito di quell’atroce progetto sociale.
Nessuno saprà mai
Se uno come Dura si era meritato quel soprannome, sicuramente aveva le qualità o le intransigenze che lo avvicinavano al leader cambogiano. Quindi, uno così, capace di uccidere a freddo, non avrebbe mai perso la testa, se non per un fondato motivo.
Luzzatto non lo dice, altri autori non lo so, ma nessuno saprà mai con certezza quali fossero quelle parole dette da Rossa, perché resteranno nella memoria di chi era morto poco dopo, ucciso dalle forze dell’ordine nel covo di via Fracchia, poco lontano al luogo in cui lo stesso sindacalista era stato ucciso.
Se un’ipotesi può essere azzardata, è che Rossa avesse riconosciuto i suoi attentatori, forse ne aveva anche fatto il nome. Forse i nomi dei componenti della colonna genovese erano noti negli ambienti operai (Rossa lavorava all’Italsider di Cornigliano), forse erano semplice vox populi, forse Rossa non aveva mai nemmeno visto Dura, ma per far decidere uno come lui a tornare sui suoi passi e freddarlo doveva essere stato qualcosa che metteva in pericolo l’esistenza della stessa colonna genovese.
Compagni che sbagliano
Questa introduzione alla biografia di Rossa non vuole essere un esercizio vuoto su ipotesi non dimostrabili, ma per mettere in luce un tratto dell’uomo, una caratteristica che ci restituisce un ritratto più completo e sfaccettato della semplice memoria dell’eroe civile, freddato per aver denunciato alla magistratura un sospetto brigatista all’interno della fabbrica.
E’ una tendenza che aiuta a ricostruire la vicenda di una vita, una parabola che si conclude quella mattina presto del 29 gennaio 1979, a quasi un anno dal sequestro e uccisione di Aldo Moro (Moro fu rapito il 16 marzo 1978).
Una parabola che per molti segnerà il definitivo distacco di quell’area grigia di simpatizzanti di estrema sinistra e magari più sommessamente all’interno del PCI che guardavano alle BR come ai compagni che sbagliano, dove l’accento era sulla parola compagni, a indicare un legame di comunanza di fede politica, di obiettivi da raggiungere e di stile di vita. Essere compagni significa essere come e più che amici e fratelli, significa avere in comune un’etica di frugalità, amore per la sincerità, lealtà, onestà, altruismo, generosità, assieme alla volontà e al piacere di condividere.
Il distacco degli operai
Nonostante tutto il sangue versato, le BR fino a Rossa erano ancora, a sinistra, compagni che sbagliano; poi, sempre a sinistra, era prevalsa la vulgata (già presente) delle BR come organizzazione di delinquenti come i mafiosi ma peggio, perché collusi con i servizi segreti anticomunisti, da quest’ultimi usati per impedire che il PCI andasse al governo.
Ma se questa è la storia così come si è consumata, ovvero di come quell’evento, l’uccisione da parte delle BR di un operaio comunista e delegato CGIL in una delle fabbriche simbolo di Genova e delle partecipazioni statali, abbia sancito il distacco e la progressiva distanza dall’organizzazione terroristica (che diventerà un’organizzazione sempre più militarizzata e autoreferenziale, sganciata da una realtà che nel frattempo era mutata), la storia personale di Guido Rossa è quella di una vita a cui la sola quotidianità è sempre andata stretta.
Quello storto
Scritto come risarcimento di un debito di coscienza da parte dell’autore, a cui per un contrattempo era stato impedito di uscire dal liceo d’Oria di Genova, la vita di Rossa sembra una continua e tormentosa ricerca dell’oltre, segno di curiosità e insoddisfazione che avrebbero caratterizzato la sua vita.
Così è fin dall’infanzia: descritto come attaccabrighe se non manesco da chi gli era più vicino. Secondo di due fratelli, lui sembra quello storto: l’uno entra come operaio nella fabbrica dove entrambi i genitori lavoravano, la Chiumino & C. e dopo una carriera tutta interna alla fabbrica diventa dirigente della RIV, che nel frattempo aveva assorbito la Chiumino; l’altro entra anche lui alla Chiumino, poi parte al militare, va negli alpini perché è già un alpinista riconosciuto, una promessa. La montagna e l’arrampicata sportiva sono il primo sguardo verso l’oltre: non gli bastava più la vita di fabbrica e di città, su nei monti gli era sembrato di respirare la vera libertà e tutta la sua vita sarà caratterizzata dalla tensione fra la pienezza delle vette e il novanta per cento che era il resto della sua vita.
Un inquieto e un curioso
Guido Rossa era stato catturato dal demone della montagna: come tutti quelli che si appassionano, diventa totalmente dipendente, ma non riesce a far diventare la montagna il suo mestiere. Sembra, anzi, che la vita faccia di tutto per farlo allontanare. Con la fine del servizio militare, dove era stato addestrato anche come paracadutista, e il ritorno a Torino arriva l’assunzione in Fiat, alle presse; poi il fidanzamento con Silvia, genovese, che lo porterà nella sua città.
Rossa deve rinunciare alla montagna, perché ogni trasferta da Genova alle Alpi diventa un sacrificio e una fatica, lo obbliga lasciare la moglie a casa con il figlio piccolo (le tensioni sono immaginabili) ma resta quell’insopprimibile bisogno a guardare oltre, che lo porta comunque a inventarsi passeggiate sull’Appennino attorno alla città, ad essere uno dei primi pionieri dell’arrampicata sulle pareti di Finale, a dedicarsi con discreti risultati alla fotografia.
Rossa è un inquieto e un curioso, e la sua voglia di esplorare sembra premiarlo quando finalmente riesce a prendere parte a una spedizione del CAI di Torino sull’Himalaya, ma una tragedia stravolgerà completamente il senso di tutta quella spedizione: due compagni di scalata muoiono in un crepaccio, seppelliti da una valanga. Rimangono le foto lungo il tragitto, le facce di donne e bambini, le impressioni di viaggio a contatto con un popolo poverissimo e saranno innegabili i confronti e i sensi di colpa di chi, come loro, sono venuti in Nepal per divertirsi – e questo che è uno svago da abitanti di paesi ricchi, poggia sullo sfruttamento e la povertà del paese che stanno attraversando.
Giù in mezzo agli uomini
Qui è il senso completo della frase che scrive a un amico, il bisogno di tornare giù in mezzo agli uomini, che da il titolo al libro.
Ma la tragedia nepalese è solo purtroppo l’annuncio di un’altra: la morte del figlio Fabio in un incidente domestico, soffocato dal gas inodore sprigionato da una perdita mentre era in casa con la nonna.
A questo punto, la montagna sarà l’ultimo dei pensieri. La vita ha fatto di tutto per distoglierlo. Si butterà nel lavoro in fabbrica, nella vita di partito e di sindacato, si dedicherà alla figlia Sabina, con cui condividerà passeggiate sulle colline attorno a Genova. Sarà, insomma, giù in mezzo agli uomini.
Quelle grida di dolore, al mattino del 24 gennaio 1979, quelle grida di minaccia avevano risvegliato in un ultimo disperato sussulto quello che lui era stato, quello che credeva di essersi lasciato alle spalle, quello che la vita lo aveva obbligato a rinunciare, quello che avrebbe sempre voluto riprendersi, in un modo o nell’altro, andando sempre oltre: una volta, da giovane, scalando la vetta più alta, quest’ultima volta, sfidando l’isolamento e l’accusa di infamia che lui aveva di sicuro messo in conto, lasciandolo solo di fronte al suo assassino.
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