Sandro Veronesi - Il colibrì
Parla a tutti, Il colibrì e riflette l’ottimo stato della narrativa italiana, che ha dato negli ultimi anni capolavori come la tetralogia dell’Amica geniale di Elena Ferrante, oltre all’alto livello de Il matrimonio di mio fratello di Enrico Brizzi e tutta la produzione di Andrea Camilleri.
La vita di Marco Carrera, il protagonista del romanzo, si snoda attraverso una serie di lutti e amare delusioni e lui tira avanti, trova ragioni ogni volta per continuare. Ci sono vite più o meno fortunate, ci sono vite paradigmatiche, che è quella di questo romanzo, ma questa vita è la vita che affrontiamo noi tutti, ogni giorno.
C’è un montaggio sapiente di eventi che vengono anticipati e poi raccontati attraverso flashback e alternanza di punti di vista. Ci sono gli scambi epistolari via lettera o e-mail verso i grandi assenti della vita di Marco, suo fratello Giacomo e la sua amica/amante Luisa Lattes, il cui rapporto platonico e per molti momenti struggente si concreta comunque in un’assenza, dovuta alla distanza (lei vive a Parigi, lui a Roma e Firenze) e all’astrattezza del loro rapporto, in una sorta di idealizzazione dell’amore, che è amore pure quello, ma non vissuto appieno.
Le lettere e le e mail sono quelle in cui il protagonista anticipa o spiega, mentre il resto della narrazione è intercalato da capitoli in cui Veronesi parla del suo protagonista in terza persona.
In questo continuo gioco di agganci e rimandi si snoda l’esistenza di Marco Carrera, oftalmologo, sposato con Marina e padre di Adele.
Parliamo di un’esistenza medio-alto borghese, di una famiglia che trascorre le vacanze estive nella casa-villa di Bolgheri, che si gode il meglio che l’Italia e il periodo storico possano offrire, ma con tutte le ombre dietro a una facciata rispettabile, come avviene in tutte le famiglie.
La borghesia italiana
La vita di Marco Carrera passa da un momento in cui tutti i quadri sono appesi al loro posto, in un ordine raggiunto e tenuto assieme dagli spilli della vita matrimoniale dei genitori Probo e Letizia, lui ingegnere – quindi razionale e costruttivo, solitario e appunto ingegnoso – lei architetto, appartenente all’intellighenzia di sinistra sessantottina che si trascina nelle mode inquiete di frequentazioni d’elite – il cui ambiente Veronesi ci fa intuire – ma che non vengono raccontate perché si discosterebbero troppo dal nucleo del romanzo.
Anche questa è una scelta che indirizza il nostro sguardo, lasciando fuori fuoco altri contesti, che potrebbero essere l’Italia del boom economico, l’ambiente studentesco fiorentino negli anni Settanta riferito alla sorella Irene, ma che sono sottintesi, un sostrato che il lettore dell’età di Veronesi deve conoscere.
Se una critica si può fare a un romanzo che molti (fra cui Alessandro Piperno e Goffredo Fofi e li sottoscrivo) arrischiano a definire capolavoro o quasi è la referenzialità non tanto a una fascia sociale, quanto a più epoche della storia recente che le generazioni più giovani conoscono a stento.
Viene da chiedersi cosa potrà restare della comprensione di un testo come Il colibrì fra venti o trent’anni, così come noi che ci confrontiamo oggi con romanzi di altre epoche, esempio Moravia, quasi del tutto scomparsi dalle librerie dopo la sua morte. Si potrebbe fare una storia delle librerie italiane e fotografare un’epoca sulla base dei classici che si trovano sugli scaffali.
La forza di un gesto
Marco Carrera rivendica il fatto di essere noioso, ma preferisce passare per noioso se quello è il prezzo da pagare per mantenere la rotta, piuttosto che gettare la vita da un cambiamento all’altro, a un altro, a un altro ancora, come è avvenuto per Luisa, perché alla fine tutto questo è privo di senso.
Marco Carrera, abbattuto da lutti e tradimenti, il suo senso lo trova nell’accompagnare una nuova vita alla scoperta del mondo e a darle tutto quello che può e che sa per cambiare le cose, per migliorare l’esistenza delle persone che verranno dopo di noi.
Lo scopo di Marco arriva dalla gestione di una serie di dolori che hanno soverchiato la sua, di vita. Il bello di tutto questo è che viene illuminato nel momento in cui è al massimo della sua forza perché non ha più niente a cui aggrapparsi, se non la forza di una neonata in una culla improvvisata (un’amaca smontabile, che tanta parte avrà nella narrazione).
Nell’evento cruciale del romanzo gli altri considerano Marco al massimo della sua debolezza, mentre al contrario sarà con un atto di forza che si afferma sui suoi avversari e ribalta due volte il tavolo: la prima con una vittoria materiale al tavolo da gioco e la seconda con il rifiuto di quella stessa vittoria, in nome di un ideale più alto e imprescindibile. Si realizza il sogno morale di poter dire “no grazie” dopo aver ottenuto quello che Marco voleva e per cui ha rischiato tutto in pochi minuti. E’ in questo episodio di grandezza che trova senso una vita, che fornisce una spiegazione per tutto il prima e il senso di tutto il dopo.
Una solitudine attiva
Non si sa se Marco Carrera ha raccontato a qualcuno il suo gesto, non fosse altro che per essere ricordato come esempio. Veronesi non ci da indizi, tendiamo a credere che il protagonista non lo abbia detto a nessuno, perché dispiace che la nipote Miraijin possa non sapere quello che lui ha fatto, il lascito di una vita degna e memorabile. Queste sono le cose importanti, tutto il resto viene dopo, comprese le vite e gli affetti suoi, di Marco, anche perché la sua vita è una progressione verso la solitudine.
Una solitudine rumorosa di tante altre vite e facce, ma che non scalfiscono le impalcature costruite dopo le ripetute assenze: della sorella Irene, dei genitori, della moglie e infine della figlia.
Marco Carrera crede infine a un mito creato da sua figlia Adele, si fa vestale maschile (prete non è la parola giusta), levatore di una creatura che Adele chiama l’Uomo Nuovo, l’uomo del futuro, che poi sarà una femmina e sarà proprio a Adele appena dopo il parto a dire: “Cominciamo bene”.
Dopo essere sopravvissuto a una vita di lutti e tradimenti Marco Carrera trova la sua storia, capisce perché è al mondo e la sua vita trova senso, non tanto per allevare sua nipote, ma per farle capire che lei è e sarà una creatura speciale, in grado di cambiare il mondo futuro, anche grazie ad altre persone come lei.
Ma nessuno è davvero solo, anche se i fatti della vita portano alla solitudine e Veronesi ha ben presente Cent’anni di solitudine di Marquez e lo sconvolgente significato di questo processo
La solitudine del titolo è dunque la condizione di ogni uomo all’interno di questo microcosmo: i vivi si agitano e combattono senza tuttavia muoversi da uno stesso punto e i morti ritornano sulla terra come sagome, così solitarie e affrante che finiscono per diventare amiche di quelli che erano stati in vita i loro peggiori nemici (Prudencio Aguilar).
Il messaggio finale, che dà tutto il senso della tragedia umana, mostra come infine tutte le vicende attraversate dai personaggi portino l’ultimo della stirpe a comprendere l’entità dell’incapacità di evolversi. Troppo tardi, perché nel momento stesso in cui egli arriva alla scoperta che ha valso cent’anni di solitudine (la decifrazione delle pergamene di Melquíades), scatta la punizione “divina” sotto forma di un biblico vento che spazzerà via ogni traccia del villaggio, ormai quasi una cittadina, e dei suoi abitanti. Insomma, in definitiva la storia corale della famiglia Buendía, affollato crocevia di speranze, desideri e sogni… una famiglia così densa ed impregnata di forti sentimenti ma così chiusa nelle sue effimere illusioni da sprofondare nella più sconsolante e più irrimediabile delle solitudini. (da Wikipedia)
Quello che Veronesi vuole invece dire, in contrapposizione al tragico significato di estinzione come cifra dell’opera di Marquez, è invece la solitudine attiva, battere le ali velocemente per restare nello stesso punto. C’è uno scopo, in tutto questo agitarsi? C’è, ed è la cura degli altri, proprio nel senso così bene descritto ne La cura di Battiato, là dove recita:
Ti porterò soprattutto il silenzio e la pazienza
Percorreremo assieme le vie che portano all’essenza
….
Tesserò i tuoi capelli come trame di un canto
Conosco le leggi del mondo, e te ne farò dono
……
Ti salverò da ogni malinconia
Perché sei un essere speciale
La vera libertà
A questo scopo Veronesi da un senso morale, laddove Marco Carrera nella sua illuminazione intuisce che occuparsi della nipote sia la sua personale affermazione della verità, che è quella ultima, biologica e contrapposta alla libertà svilita da decenni di manipolazione populista, secondo cui la libertà è diventata libertà di dire e fare ciò che si vuole, libertà assoluta e totale di nuocere agli altri senza limiti perché qualsiasi limite è un intollerabile ostacolo o divieto all’estrinsecarsi di un concetto astratto, usato per coprire le peggiori posizioni e dargli una verniciata morale, un inesistente principio superiore. E delle critiche e condanne lagnarsi da vittime o mettere in ridicolo, a seconda di tempi e convenienze.
Veronesi denuncia la scomparsa di un termine, che ha ispirato e ispira lotte ideali e materiali (vedi Hong Kong, ma anche Cile, Iran, Iraq, Libano, Cile, Egitto e le mille altre rivolte che seguiranno); una scomparsa per consunzione e disuso, per svuotamento di significato, perché tutti i discorsi di libertà dei populismi sono sempre le libertà dei più forti sui più deboli e chiamano libertà quello che è il suo rovescio, cioè oppressione, violenza e fascismo.
Quello che ci dice Veronesi in una pagina memorabile è quanto viene esplicitato da Massimo De Carolis nell’illuminante saggio Il rovescio della libertà. Tramonto del neoliberalismo e disagio della civiltà:
L’intuizione più profonda del neoliberalismo è che una grande società, pluralista e virtualmente globale, possa tenersi unita solo a una precisa condizione: che il valore delle performance sociali, delle iniziative imprenditoriali e delle scelte di vita sia misurato sulla scala dell’ordine cosmico, e non dell’ordine semplicemente vigente o di quello fissato da una qualche autorità sovrana. È da questa intuizione che discende anche il passo più scabroso del neoliberalismo, quello che ne ha diretto a suo tempo la marcia trionfale e che oggi ne detta il declino. L’idea, cioè, che, a determinate condizioni, il sistema di valori generato dal mercato possa appunto svelare l’ordine cosmico ed esprimerlo in forma immediata. Oggi sappiamo per esperienza diretta (e non per un qualche pregiudizio ideologico) che i meccanismi del mercato sono intrinsecamente inadeguati a un tale compito. Tendono anzi regolarmente a produrne il rovescio. Quanto più a fondo le tecnologie di calcolo, misurazione e valutazione penetrano nella vita sociale, tanto più questa “vita” è messa al servizio delle relazioni di potere, schiacciando così l’ordine cosmico sull’ordine costituito.
…….
È il paradigma etichettato come neoliberalismo, basato sull’assunto antropologico che vivere, in una grande società, debba significare essenzialmente stare sul mercato: partecipare allo scambio collettivo e concorrere, così, alla genesi di un ordine spontaneo, troppo complesso e imprevedibile per essere ingabbiato in un progetto disegnato dagli esperti o nei decreti di un’autorità sovrana.
Laddove quello che per De Carolis è l’ordine cosmico, per Veronesi è verità biologica ed etica, e curando questa forse potremo riabilitare anche la negletta libertà e spogliarla da tutte le falsità di cui è stata ricoperta.
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