Seleziona una pagina

Salman Rushdie - La caduta dei Golden

La caduta dei Golden di Salman Rushdie è stato recensito come il ritorno alla realtà di Rushdie, ma non si capisce quando lui l’avesse lasciata, perché tutta l’opera di Rushdie è saldamente ancorata alla realtà, alla cronaca e alla storia.
Dai Figli della mezzanotte, la storia dei bambini nati nella notte in cui India e Pakistan si separarono, allargando i confini di una ferita già aperta che gli anni a venire avrebbero ancora più dilatato, a La Terra sotto i suoi piedi, la storia di una rockstar indiana che, dalla periferia e in una parabola stile U2, arriva a diventare star mondiale, agli stessi Versi satanici, che scava a modo suo i nodi di quella ferita aperta nel mondo indiano prima e occidentale poi, a quella frattura fra Islam e occidente, tutta l’opera di Rushdie parte dalla realtà da cui emerge la poesia e vi si reimmerge nuovamente. Stessa cosa fatta con la storia di Shalimar il clown, che ricostruisce la parabola di un terrorista kashmiro, con tutto il bagaglio di odio e risentimento, delusioni, sconfitte e furori che lo portano all’atto finale. I media vedono solo quel culmine, quell’acme che preso da solo diventa inspiegabile, urta la ragione, mentre è il romanzo che si addentra nel profondo delle biografie e delle biologie, ricostruendo una verità che la sola cronaca o la storia poi non riescono a fare da sole.
Tutto questo per dire che La caduta dei Golden mette in luce la miscela di contraddizioni che vengono alla luce quando si abbandonano la propria città, patria, lingua, e tutte quelle strutture e sovrastrutture che formano quella che si chiama identità, per abbracciare una nuova vita, più libera dai vincoli della tradizione, in cui ognuno può decidere di essere e diventare ciò che vuole.

L’eccesso di libertà…

E’ quello che succede ad Apu, il secondogenito dei tre figli di Nero Golden, il patriarca/imperatore, la figura attorno a cui ruota tutto il romanzo. Apu si fidanza con un’artista americana e diventa artista anche lui, proponendo opere anticonvenzionali e antiestablishment, decisamente dalla parte no global – we are 99 per cent, quindi contro gli interessi di famiglia.
Ma nel mondo nuovo e globale che scelgono e di cui New York è la capitale indiscussa, questo conflitto viene digerito con la stessa facilità di un espresso al mattino. In altre epoche e culture mettersi contro la famiglia significava essere diseredati, radiati dal clan da cui non si riceveva più niente. Il figlio reietto restava in mezzo alla strada, solo e povero, ma Apu continua a essere mantenuto dal padre, che forse ignora o vuole ignorare le opere del figlio, che tanto disturbo non danno, perché niente di sconveniente arriva alle sue orecchie.
Così come non è sconveniente la scoperta dell’androginia di Dionysus, il più giovane dei figli adulti di Nero. Ma questa libertà e rifiuto di appartenere a una qualsiasi fra le molte catalogazioni porterà la crisi di D – Dionysus alle estreme conseguenze.
E’ l’eccesso di libertà, sembra voler dire Rushdie, a determinare l’insensatezza delle vite, dei destini, dei percorsi esistenziali. Oppure prendere la libertà come dogma assoluto che – come scritto da Massimo De Cataldo – si trasforma nel suo rovescio.
I destini dei protagonisti si avvitano in una discesa che descrive l’inarrestabile decadenza di una famiglia ricca, di una dinastia appena nata e subito defunta sotto i colpi di vari eventi.
Ma soprattutto la storia dei Golden è la testimonianza dell’impossibilità di dare un taglio a tutto, di cancellare il passato e le vite che ne hanno fatto parte, inclusa la propria.
E’ una riflessione che coinvolge Rushdie in prima persona, esule dorato nel jet set globale, amico di rockstar, attori e registi, inserito nel milieu culturale – ormai invecchiato e pare senza sostituti – che informa la nostra epoca.

…e la perdita di se stessi

E’ una riflessione che ricorda la grande storia di Philip Roth, La macchia umana.
Anche qui il protagonista Coleman Silk è riuscito a tagliare i ponti con il passato. Nato nero, ripudiata la famiglia, si fa passare per ebreo, fino a quando non viene espulso da scuola a causa di una battuta apparentemente razzista verso uno studente nero.
Il suo problema è che lui, nero in incognito, non può difendersi dicendo che proprio lui arriva dal mondo che gli altri accusano di insultare. Sarebbe a questo punto doppiamente colpevole: in primo luogo per via del fatto scatenante (dare del fantasma “spooky” a un nero, così come lui ha evocato lo studente assente dalle sue lezioni); in secondo luogo perché confessare di aver rinnegato da giovane la propria identità e cultura, il proprio passato, abbandonato la madre in lacrime, diventa in questo caso un macigno enorme sulla sua colpevolezza.
In forme diverse, il passato si ripresenta. Un amico mi ha detto che non si possono abbandonare le radici, bisogna sempre tornare, anche solo per fare il giro del tavolo, visitare le tombe e andarsene via. Ma chi rinnega tutto viene mangiato, risucchiato dal passato, come accade ad Apu e anche a Nero, alla fine di una lotta con la demenza e antichi nemici.

L’arrivo del Joker

In tutto questo tema si svolge la politica americana come su un fondale posticcio, con gli otto anni dell’era Obama, la cui presidenza coincide con l’inizio di questa storia, mentre si conclude con l’arrivo del Joker (così lo chiama Rushdie senza mai nominarlo), di Trump.
La storia della caduta dei Golden può essere letta come avulso dagli anni in cui si svolge, anche se Rushdie si sforza – e questo è il limite del romanzo – di appiccicare a tutti i costi gli eventi della politica americana a quelli della famiglia Golden, in un tentativo non riuscito di parva componere magnis, ma le cose e i piani sono così diversi, non si toccano, non si influenzano.
La cosa sorprendente è che la maggior parte delle critiche lette metta l’accento proprio su quest’ultimo, marginale aspetto per affermare che Rushdie ritorna alla realtà, anche se Rushdie non l’ha mai abbandonata, nemmeno nei suoi romanzi più immaginifici, come I figli della mezzanotte oppure L’ultimo sospiro del Moro.
Perché è quando Rushdie si confronta con il reale, ovvero la cruda verità che sottende gli avvenimenti, che da il meglio di sé, come in Shalimar il clown, oppure Furia, o anche La terra sotto i suoi piedi, mentre le prove meno convincenti sono quando il realismo smette di essere tale per lasciare il posto al solo magico, o immaginario, come ne L’incantatrice di Firenze, una storia che sembra fatta a corredo delle guide americane sull’Italia, da assaporare all’interno dell’immagine della bella Italia edulcorata, quella del calice di vino in mano, al tramonto a contemplare una distesa di colline oppure il mare, con lo sguardo rapito.

Un mondo alto borghese

Se si vuole trovare un limite in tutta l’opera di Rushdie è l’insopprimibile punto di vista dal quale vede le cose e costruisce i suoi personaggi, che è quello del mondo alto borghese da cui proviene, che si perpetua attraverso l’India e i party di NyLon.
In fin dei conti niente sembra toccare davvero quel fantastico mondo di Oz che noi percepiamo di ricchi e belli che si drogano, scopano e si alcoolizzano come tutti ma più di tutti. Dalle vetrate dei piani alti dei grattacieli si è isolati dal mondo, come nei Gardens dove vivono i Golden e il protagonista narrante.
Anche in quell’ambiente vince l’ultimo arrivato, il più bastardo, la più spietata, cioè la russa Vasilissa, che è nata in Siberia, giovane e bellissima e non ha niente da perdere, ma solo da prendere. Si prende tutto, alla fine, perché muore Golden di vecchiaia e demenza, straziato negli ultimi anni dalla morte dei tre figli, mentre il più piccolo, che ha avuto Vasilissa all’interno del loro matrimonio, non è nemmeno suo, anche se porta il suo cognome.
Ma tant’è: Golden è un cognome inventato, non ha passato, non ha lignaggio, non ha una storia da raccontare e quella vera del precedente nome indiano che non viene mai detto si viene a sapere in punto di morte da Nero Golden, che l’ha sempre tenuta nascosta.
Golden l’imprenditore, Golden il costruttore di città e sontuose residenze, in realtà è stato un paria che prendeva ordini dai mafiosi e puliva i loro soldi sporchi.

Solo il denaro conta

Non c’è onore, solo denaro – e nemmeno potere, se non quello procurato dalla leva economica di comprarsi una nuova identità e cittadinanza in esilio in un paese straniero.
Gli sgherri del boss lo chiamavano lavandaia, quelle che piegano la schiena sui ghat, lungo le rive dei fiumi indiani ed è soprattutto per levarsi quel marchio che decide di diventare Nero Golden l’americano, assumendo un nome e un cognome da imperatore-gangster che non è mai stato, ma che ha sempre cercato di far credere di essere.
Vasilissa non eredita un cognome e una storia, ma acquista un brand, un marchio che riuscirà a perpetuare grazie a un figlio frutto della sua volontà e del seme di René, il narratore osservante di tutta la storia. Alla fine vincono i barbari, non quelli arrivati dalle periferie africane o da metropoli asiatiche, ma i bianchi istruiti, scaltri e spietati che arrivano dallo sconfitto impero del male, che continua a produrre l’esercito di riserva delle elite mondiali, capace di tenere assieme il mondo di sotto dei mafiosi formato da ex agenti del Kgb e il mondo di sopra della politica formato da ex agenti del Kgb e da queste basi partire alla conquista degli ultimi piani dell’impero del bene e da lassù godersi la vista del mondo.
Rushdie/René è una pedina, osserva e racconta e alla fine riesce a uscire dal mondo di Oz dei Gardens ed entrare nella vita vera. Un altro mondo – normale, pieno di problemi pratici fatti di mutui, medicine, carrelli della spesa – si apre davanti a lui che ha sempre vissuto protetto, al riparo del mondo chiuso dei Gardens, dove ha deciso di diventare l’amico e confidente dei Golden, con lo scopo di scrivere una sceneggiatura su di loro.
La storia dei Golden alla fine rientra nel filone alle storie di decadenza descritte da Thomas Mann ne I Buddenbrook, o da Musil, ne L’uomo senza qualità, storie di fine secolo dove gli autori sono bravi a far presagire l’odore della fine di un certo mondo. In Rushdie pare che un nuovo mondo fondato su prepotenza, egoismo e violenza, si sia già formato e che tenderà a perpetuarsi.