Roberto Calasso - La folie Baudelaire
Se n’è andato in quest’estate 2021 uno dei pochi che sapevano tutto. Dopo Umberto Eco e lui, ci restano Claudio Magris, Luciano Canfora e pochi altri riferimenti. Non finisce di stupirci nella sua opera la vastità della sua conoscenza, che si esplica in riferimenti puntuali che connettono epoche e diversi luoghi geografici; il continuo riferimento ai Veda e agli altri poemi epici indiani, ai classici greci, alle affinità che hanno fra loro, nello sforzo di costruire un edificio tanto strano quanto imprendibile e indecifrabile. Forse la migliore definizione può essere colta nella speranza espressa da Valery che “un giorno possa esistere una Storia Unificata delle Cose dello Spirito, in grado di sostituire ogni storia della filosofia, dell’arte, della letteratura e delle scienze”, che Calasso fa affiorare nel testo.
Ma la definizione di Valery risulta così ambiziosa e pomposa che richiederebbe l’equivalente di uno sterminato numero di tomi della UTET, della Treccani o dell’Encyclopoedia Britannica per tentare di contenere quel disegno, da cui Calasso, nella sua asistematicità, si è sfilato fin dall’inizio. E non poteva essere che così: meglio farsi guidare dal proprio estro, fiuto, dall’acume della sua intelligenza, dalla curiosità, dal capriccio, dal gioco imprevedibile di connessioni e analogie che si presentano in media res, durante lo studio e la scrittura, senza – pare – una pianificazione preventiva.
Non avendo alcunché da dimostrare, ma solo buchi della serratura attraverso cui mostrare qualcos’altro, un oltre che ci fa intuire una comunanza, è chiaro che nei suoi lavori il filo che connette spesso si spezza: nessuna teoria, nessun teorema con relativa dimostrazione. Questo è il bello della lettura di questi oggetti non identificati; una volta intuito questo, resta solo il piacere di abbandonarsi alle digressioni, senza chiedersi il perché di certe scelte, se non rendersi conto del rimando all’argomento precedente o a un determinato leitmotiv una trentina di pagine dopo, in due righe.
Baudelaire e l’osceno
Baudelaire ha sempre giocato sul doppio significato del termine osceno, quello interpretato dalla morale corrente e quello filtrato dalla sua sensibilità. Le raffigurazioni erotiche, la frequentazione di bordelli e di prostitute, tutto quanto ha a che vedere con il sesso esibito, ma anche la mostra della miseria, della sporcizia delle strade, delle piaghe o di un’umanità sofferente, che può urtare l’animo borghese di ogni secolo, dal XIX al XXI. Tutto questo è osceno secondo l’uso corrente del tempo, ma Baudelaire invece di esecrare lo addita, quasi compiaciuto. Poi, nell’unico sogno trascritto e magistralmente analizzato da Calasso, subentra l’imbarazzo personale che deriva dall’accorgersi di camminare con il pene di fuori, a piedi scalzi, in un edificio che inizialmente appare come un bordello e poi si sviluppa in qualcos’altro: allora saranno l’imbarazzo e il perenne senso di inadeguatezza a risultare osceni, perché ci sarà un giudice interno in B. che lo condannerà per oscenità e per essere rimasto a guardare le cose sfilare, per aver a sua volta giudicato eventi e persone senza esserne stato mai partecipe.
L’impasse di B è tutta qui: osservare e vergognarsi di osservare; studiare un quadro o un fenomeno o un personaggio e rifiutarsi di trarne un sistema finito di pensiero, o profitto come romanzo. B, o dell’incompletezza: i suoi versi saranno un ripiego, forse, a un romanzo sempre promesso e mai iniziato.
Lo spleen
Quello che lui chiama spleen, una forma spuria di depressione, pigrizia e accidia, è un rivoltarsi nella propria impossibilità a vivere una vita normale, ovvero guadagnandosi da vivere con un lavoro regolare, oppure sfondare davvero nel mondo delle lettere; ma per far questo ci volevano i romanzi o i drammi, cose che per B comportavano impegno e fatica soverchianti, inadatti a lui.
C’è un collegamento fisiologico a questo malessere: il significato originario della parola spleen in inglese è milza, poi trasmutato nell’attuale perché l’organo dagli antichi era ritenuto la sede della malinconia. Possiamo sorridere oggi di chi si dica afflitto da spleen o al limite possiamo riconoscere la posa e alimentare il nostro disprezzo, ma non in Baudelaire. Lui riesce – e questo è il seme della sua grandezza – a farci cedere che quel sentimento in lui sia vero e che siamo obbligati a indulgere, così come tutti i suoi contemporanei comprendevano, mentre questa comprensione non è data ad altri. La verità dei versi su l’angoscia sovrana che pianta nel cranio il suo nero vessillo è reale, noi la vediamo, avvolta in un velo nero, sorella gemella della Falciatrice, che impassibile conficca una bandiera nera. Noi crediamo a B. e per quale motivo proprio a lui e non ad altri prima o soprattutto dopo di lui questo è un mistero.
Ammazziamo il generale Aupick!
In realtà non c’è un prima perché le cose che dice non erano note, mentre per il dopo chiunque proverà a dire le stesse cose passerà per pagliaccio, millantatore, alla meglio impostore. Quello che colpisce in B. è la forza della frase, l’uso della parola che scava o spalanca finestre verso panorami visti con altri occhi, con lo sguardo, si potrebbe dire, di un’altra specie. Forse quello che chiamiamo l’Uomo 2.0 è nato con lui, con la debolezza esibita, la fragilità indomita, la povertà noncurante ma patita, il rancore sempre e comunque verso l’autorità (il patrigno Aupick e il notaio Ancelle) che lo mantiene per tutta la vita, ma che farà sempre pesare questa superiorità borghese, al punto da spingere lui, il dandy, l’esteta, il fine critico d’arte che si aggira nei Salons, ad aderire alla rivoluzione del 1848, un ribelle in guanti rosa. Non gli sarà sembrato vero, poterlo avere in suo potere; per una volta i sogni di rivalsa covati dagli adolescenti possono diventare realtà, quale prodigio!
Per un breve momento storico B. ha intravisto la possibilità di demolire la borghesia, di farla sparire come classe, in un furore simile a quello di Robespierre, che non a caso lui amava. In realtà il secolo, di cui i contemporanei andavano fieri per la sua straordinarietà, andava avanti per conto suo e la lotta di B., schiacciato per la vita fra i debiti e l’elemosina del patrigno e della madre, può sembrare una battaglia di retroguardia e invece la scelta dei temi, l’immersione nella vita brulicante della Parigi del XIX secolo e l’immediatezza del pensiero così come la sua asistematicità ne fanno un’avanguardia compresa soltanto – lo vedremo – dai suoi migliori detrattori.
Omologazione e horror vacui
Per arrivare a circoscrivere il malessere verso la modernità di B. bisognerà arrivare a Pasolini e alla sua ossessione per l’omologazione Basta pensare alla radice della parola: dare lo stesso nome a tutte le cose, appiattire tutto verso il volgare e verso il basso, la moneta cattiva che scaccia quella buona; non è sempre stato così? Questa è anche l’ossessione di Baudelaire, anzi, è il problema di Pasolini che comincia con lui.
E’ la tecnologia a trasformare i costumi: di questo ne B. ne Pasolini sembrano rendersi conto: loro denunciano, ma non riescono a capire la forza dirompente delle città che si espandono, della produzione che si serializza, dei processi produttivi che si smontano in piccole funzioni che producono piccoli pezzi, in se insignificanti, così come insignificante diventa il lavoro che serve a costruirli.
Nel 1851 a Londra si tiene la prima esposizione universale e tutti hanno compreso lo spirito dell’epoca. In un tempo in cui l’Europa era ancora profondamente diversa e divisa, con due stati, Italia e Germania, che ancora non esistevano, il progresso, vero dio laico dell’epoca, avanzava al rombo di locomotive e si cominciava a riprodurre in immagini con un procedimento meccanico-chimico: le macchine e le immagini, infinitamente riproducibili, il mondo dalle distanze accorciate dall’uso del vapore, in terra e in mare: quale salto dal 1815, da Waterloo e quei cannoni trainati da cavalli e buoi, da quegli eserciti che marciavano a piedi.
Sono tutti meravigliati da quanto è accaduto in soli trent’anni: sono anni di pace in Europa, una pace che a parte brevi scontri di carattere tutto sommato circoscritto a pochi interessi (le guerre d’Indipendenza italiane, quella di Crimea, le guerre balcaniche), attraverserà il secolo fino al 1914 e a metà di quel periodo in un paese ricco ci si poteva permettere l’ennui, di provare il rovescio dell’entusiasmo, di disprezzare il piatto da cui si mangia, avrebbe detto un borghese.
Guardare e annotare, non giudicare
Ma B. riesce dove nessun altro ha osato perché nessuno ci aveva mai pensato; è questo il suo grande risultato: l’originalità in un secolo che erge la riproducibilità a feticcio. E’ l’origine della nostra malattia, quella della ricerca continua della propria unicità. Baudelaire è anche questo e molto altro; ogni sua frase apre orizzonti che altri esploreranno perché a lui, indolente e consapevole della propria visione, toccherà soltanto indicare; ogni possibile tentativo di definizione per lui significa la fine. In fondo è lo spirito dandy: quello di attraversare la festa ed andarsene; farsi vedere quel che basta e notare tutto e tutti – e infine andarsene.
Attenzione: Baudelaire nota, ma non giudica; c’è un abisso fra le due azioni. Nella prima bisogna essere talmente lucidi che ogni morale dovrà essere sgombrata per osservare le cose, gli eventi e gli scopi; nella seconda sarà proprio la morale a determinare la sentenza, ma per B. quello significherà fermarsi – e questo, per un dandy, non è possibile.
Il libro di Calasso parte da B. e torna a B., ma parlare di lui è anche l’occasione per una cavalcata nella pittura del Gran Secolo, che si dilunga su Ingres e Manet. E’ sul primo in particolare, inviso a B. in favore di Delacroix, che si concentra l’attenzione del poeta nella sua visita ai Salons e la sua critica arriva a vedere in quei quadri cose che il pittore non aveva mai inteso; ma in questo modo B. riesce nell’intento di tramandare ai posteri gli elementi di modernità della sua pittura.
Chi di lancia ferisce..
E’ un’arma, quella della critica, che nello sforzo di essere impietosa, arriva a definire l’essenza dell’avversario meglio di ogni adulatore entusiasta. Lo stesso B. si vedrà ripagato della stessa moneta da Sainte-Beuve, in maniera molto più drastica e con le peggiori intenzioni. Sainte-Beuve era il re dei critici nella Francia dell’epoca: la sua colonna sul Constitutionel del lunedì era un appuntamento imperdibile per il pubblico così come per il mondo delle lettere. Ma, ci avverte Calasso, per invidia lo stesso Sainte-Beuve non aveva mai accolto con favore i lavori di quelli che potevano diventare (come in effetti fu) più grandi di lui, come i precedenti casi di Stendhal e Flaubert – da lui stroncati in varie forme – stavano a dimostrare. Per evitare di esprimersi, con B. e i suoi Fleurs du Mal Sainte-Beuve fu reticente a oltranza e non recensì mai la raccolta di versi dell’amico(?) nonostante le sue richieste, come si può leggere nelle sue lettere.
B. abbandona il suo sprezzo e si abbassa a chiedere, ricorrendo perfino alla piaggeria e questo ce lo rende molto umano, distante dall’immagine del dandy e flaneur che aveva dato di se, forse in tempi di gioventù. Con il passare degli anni la sua condizione si fa sempre più precaria ed è amaro forse constatare che quello che era boheme in gioventù può diventare perdita di dignità. B. come tutti deve mangiare e la dipendenza dal vitalizio del generale Aupick, elargito dal notaio Ancelle è sempre più insostenibile e così arriva a candidarsi per un posto vacante all’Academie Francaise.
La candidatura all’Academie
Potrebbe sembrare strano che B., un personaggio che noi percepiamo ai margini della vita in società della sua epoca, o che rifiuti le facilità e le posizioni a cui si accede con le giuste frequentazioni, osasse candidarsi all’empireo della cultura francese, al novero dei quaranta stipendiati dall’Imperatore, che dai tempi di Richelieu (fondatore dell’accademia) si definivano immortali.
Credo che ai tempi di Luigi Filippo e del Secondo Impero non esistessero le nozioni di sistema e di persone o gruppi in lotta con il sistema, a parte anarchici e socialisti, le cui rivendicazioni ricadevano in ambito sociale. Intediamo quello che oggi chiamiamo sistema, il blocco di potere che, in ogni epoca, si ergeva a difesa dello stato attuale delle cose, intendendosi come mainstream in senso conservativo e in opposizione alle avanguardie e all’innovazioni.
Quindi considerare B. fuori o contro il sistema è un errore di prospettiva, perché schiaccia i nostri schemi sulla realtà della Parigi dell’Ottocento, in cui bohemiennes e borghesi erano sì contrapposti, ma dove i primi non avevano probabilmente la coscienza di porsi come alternativa. Per questo motivo non dovrebbe per forza meravigliarci la scelta di B. di candidarsi all’Academie.
La Kamtchatka
Sainte-Beuve fa parte dell’Academie, e in un articolo del lunedì sul Contitutionel, finge di appoggiare la sua candidatura, ma rispondendosi da se afferma che fra gli altri membri dell’Academie nessuno conosce il suo nome. Baudelaire è bohemienne, dice lui, non è dentro alle cose. Addirittura nell’introdurre il suo nome – somma carognata – fa credere che la sua candidatura possa essere un escamotage per favorire il “suo maestro Gautier”.
Insomma, non solo non recensirà mai Le Fleurs du Mal, ma liquida la sua stessa esistenza come uomo di lettere, ma nella chiusa di quelle argomentazioni, fornisce la chiave che meglio di chiunque definisce le latitudini raggiunte da B.: secondo Saint-Beuve, il poeta ha oltrepassato i confini del romanticismo e si è installato in una posizione remota, la Kamchatka delle lettere, all’interno di un chiosco da dove possa riverberare la sua follia.
Averne di condanne per ottenere medaglie così: Sainte Beuve la battezza la folie Baudelaire, che è non a caso il titolo del libro di Calasso.
Il chiosco di cui parla il critico non è da intendere come quelli attuali, ma come quelli concepiti dall’imperatore Napoleone III, che aveva fatto costruire nei dintorni della capitale una rete di casini di caccia, poi trasformati in residenze per le prostitute del demi-monde.
I casini sono fuori dalla città, ma per Sainte-Beuve quello di B. sarebbe troppo vicino, deve allontanarlo, perché è pericoloso e lui l’ha capito, quindi lo mette in Kamtchatka, nella Siberia estrema, quasi staccata dal continente asiatico delle lettere e del romanticismo; una terra formata da centoventi vulcani, molti dei quali attivi; una penisola dove nelle generazioni successive, scrive Calasso, anche Rimbaud e Proust costruiranno i loro chioschi, a fianco di quello di Baudelaire.
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