Roberto Calasso - K.
E’ stato faticoso leggere il saggio di Calasso su K., inteso – a volte anche confondendo il lettore, o forse quella confusione è esattamente quello che voleva lo scrittore praghese – volta a volta come il K. protagonista de Il castello, oppure lo Joseph K. protagonista de Il processo, oppure l’autore Franz Kafka, le cui pagine di diario e lettere intersecano le citazioni dei due suoi più famosi romanzi, e spesso non si comprende dove finisca uno e cominci l’altro – ma forse questo è un effetto che lo stesso Calasso aveva voluto o messo in conto.
Quello che Calasso cerca nei suoi saggi è di arrivare alla radice delle cose, attraverso intuizioni che lancia con la sua scrittura, lasciando al lettore l’ultimo passo verso la comprensione, ma non si spinge mai verso la definizione, non vuole ingabbiare il pensiero, ma lasciare lo spazio al lampo dell’illuminazione. Così ne La folie Baudelaire, il libro cronologicamente più vicino, individua il fondo nero di tazza da caffè del poeta francese, mandandolo a vivere in una terra al di fuori dello spazio comunemente conosciuto, la più remota delle latitudini pensabili a quel tempo, la Kamtchatka (definizione di Gautier). Così ne L’arciere celeste ci accompagna verso lo stadio dell’evoluzione in cui il genere Homo diventa l’umanità che conosciamo, che è il momento in cui assapora il sapore di ferro del sangue e scopre le proteine nobili, la cui mancanza acuta porta a quella ferocia che caratterizzerà la nostra specie. Così ne Il rosa Tiepolo gira attorno alla pittura del maestro veneto, così aerea, così – si direbbe – superficiale, se non fosse per i Capricci e gli Scherzi, quella serie di acqueforti che illuminano il lato oscuro della sua creazione, l’equivalente forse di quelle che per Goya furono le Pinturas Negras.
Giudizio Universale, Purgatorio, Paradiso
Quello che fa Calasso è di farci arrivare sull’orlo dell’abisso, ma il suo sguardo non osa guardare in basso, si ferma prima – e per forza: come si fa a descrivere l’abisso?
Al contrario bisogna arrivare fino alla fine di K. per capire il senso di quello che Calasso ha cercato in tutto il libro, una lettura meditata e intercalata dei due testi, con incursioni nei Racconti, nei Diari e nelle Lettere, tutto evidente nelle note a fine libro, dove ogni virgolettato viene abbinato a uno degli scritti di Kafka.
E’ quindi una lettura, un’esegesi, quella che Calasso propone, ma rivelare quello che Kafka ha cercato di dire è l’impresa ardua che tutti i critici hanno tentato, senza riuscire a dire la parola fine. C’è sempre stato un comune accordo di base sulla metafora divina o religiosa nella scrittura e nei temi di Kafka: il Tribunale nel Processo è il dio giudice imperscrutabile e il Castello è il paradiso il cui accesso è sorvegliato e impedito da una corte di funzionari privilegiati. Allo stesso modo Calasso fin dall’inizio ci dice quello che rappresenta il Processo, cioè un purgatorio avanti al giudizio finale, mentre il Castello è il paradiso, ma inaccessibile.
Tutta la tematica di Kafka può riassumersi nella pretesa di uno stato migliore al nostro terreno, ma non al di là della vita, bensì in questa vita. L’impossibilità di accedere a questo stato deriva dal mancato accesso all’Albero della Vita, che assieme all’Albero della Conoscenza del Bene e del Male si trovava piantato nel centro del Paradiso Terrestre.
Lottare senza speranza
Gli alberi perciò sono due e l’uomo mangia solo i frutti proibiti dell’Albero della Conoscenza e questo lo fa precipitare nel suo stato mortale, oltre che a essere cacciato dal Paradiso Terrestre. Lo dice bene lo stesso Kafka:
Noi siamo peccatori non soltanto per aver assaggiato il frutto dell’albero della conoscenza, ma anche per non aver ancora assaggiato l’albero della vita. Peccaminosa è la condizione in cui ci troviamo, e ciò indipendentemente da ogni colpa (….) Gli uomini non morirono ma divennero mortali, e non diventarono simili a Dio ma acquistarono un’indispensabile facoltà di divenirlo. Non morì l’uomo, ma l’uomo paradisiaco, essi non diventarono Dio ma acquistarono la scienza divina. (Kafka, Quaderni in ottavo 1916-1918)
Fondamentale quell’ancora: in quell’avverbio c’è tutto un mondo di possibilità e aspirazioni, c’è Prometeo e il suo contrario, c’è l’ottimismo della volontà e il pessimismo della ragione, c’è l’entusiasmo dei folli di Dio e la rassegnazione dei sottomessi a lui. C’è, soprattutto, la speranza: siamo ancora e saremo sempre in tempo ad assaggiare l’albero della vita: non è mai troppo tardi. E non solo: anche se abbiamo mangiato i frutti dell’albero della conoscenza, condannandoci a cercare, cercare, cercare di capire e conoscere senza una fine o un fine, siamo diventati peccatori, ma non colpevoli – e non siamo colpevoli perché la ricerca di conoscenza è l’essenza della nostra natura; negare questo sforzo continuo significa annientare l’umanità. Non avrebbe senso – quindi – neanche tornare indietro e fare finta di non aver mai mangiato i frutti di quell’albero proibito, perché non saremmo più in grado di riconoscerci come umanità. Il nodo che non si scioglie per Kafka è tutto qui, ma non è cosa da poco: implica la scelta fra agire o restare fermi, schierarsi o rinunciare. L’unica cosa che resta è lottare, senza speranza, ma lottare; è quello che fanno Joseph K. e la sua continuazione K. nel mondo del Samsara del Castello.
L’albero della vita
Attenzione ai nomi: il paradiso è terrestre, non ultramondano, non situato in una dimensione al di là della sensibilità o al disopra dell’esistenza umana. Il paradiso è terrestre perché è qui, su questa terra e questa è la notizia consolante che ci da Kafka; quella sconsolata (parola sua che Calasso più volte ripete in vari passaggi) è che l’uomo, nel suo tentativo perenne di conoscere, non fa altro che separare e allontanare il paradiso terrestre dall’umanità. Kafka lo dice chiaramente:
Noi siamo separati doppiamente da Dio: il peccato originale ci separa da lui, l’albero della vita separa lui da noi. (Kafka, Quaderni in ottavo 1916-1918)
Questi aforismi implicano l’esistenza così come viene detto nella Genesi, di due alberi all’interno del paradiso terrestre e l’uomo – appunto – ha scelto l’albero della conoscenza, e non ha toccato l’albero della vita.
Ma il punto è che questo albero della vita, che forse è un tutt’uno con lo stesso paradiso terrestre, non sappiamo cos’è, ed il dramma è tutto qui. Per questo motivo K. non arriverà mai al Castello, per questo motivo frequenterà funzionari del Castello, cercherà di scoprirne il funzionamento e i segreti attraverso i rapporti con le donne, ma non arriverà mai a scorgere nemmeno l’ingresso. Il Castello è vicino al Villaggio, eppure è uno sfondo, al di là sembra di una lastra di vetro invisibile; apparentemente non vi è vita, non ci sono segni che sia abitato, non si vede nessuno muoversi al suo interno, eppure K. fa di tutto per arrivare là, perché il Signore del Castello dovrà assegnargli il compito per il quale è stato mandato fino a laggiù, quello di agrimensore. Sarebbe così facile: io so fare una cosa, sono nato per questo eppure, nonostante tutti i miei sforzi, il risultato non arriva; non c’è modo di entrare nel Castello e senza questo accesso non potrò mai esercitare la mia professione. Cosa, perché mi viene impedito di fare questo, nonostante tutti i miei sforzi, tutta la mia – parolaccia di moda – pro-attività? Il Castello si allontana in forza di questo mio desiderio di conoscenza, perché voglio carpirne i segreti e in questo tentativo non faccio che allontanarmene, come dall’Albero della Vita.
L’indistruttibile
Ma allora meglio non conoscere, restare ebeti, di fronte al rotolare delle cose su se stesse, in balia degli eventi? Sarebbe troppo facile, perché scivoleremmo nell’ignavia.
Esistono due peccati capitali, nell’uomo, dai quali derivano tutti gli altri: impazienza e ignavia. E’ l’impazienza che li ha fatti cacciare dal paradiso, è per colpa dell’ignavia che non ci tornano. Ma forse non esiste che un unico peccato capitale: l’impazienza. È a causa dell’impazienza che sono stati cacciati, a causa dell’impazienza che non ci tornano (Kafka, Quaderni in ottavo 1916-1918)
Qui Kafka per ignavia non intende ignoranza del reale, ma ignoranza di uno stato migliore e possibile, qui, intorno, vicino a noi, quello del paradiso in terra, quello del paradiso dell’uomo, che niente ha a che vedere con Dio o la fede, perché sarà anche stato Dio a crearlo, ma una volta creato obbedisce alle sue leggi, non a quelle divine.
E’ un’impasse da cui non si esce e l’aforisma qui sotto, che suggerisce una possibile via di uscita, sembra un suggerimento detto in un orecchio e pronto a essere ritrattato:
In teoria vi è una perfetta possibilità di felicità: credere all’indistruttibile in noi e non aspirare a raggiungerlo. (Kafka, Aforismi di Zurau 1917-1918)
Kafka ci torna spesso, all’indistruttibile, segno che crede davvero nell’esistenza di quel nocciolo duro e inconoscibile che è installato al centro di ognuno di noi, fonte di energia e attrattore di energie. Ma il nocciolo non appartiene al mondo degli spiriti, ma a quello del divenire
L’uomo non può vivere senza una perenne fiducia in qualcosa d’indistruttibile in sé, la qual cosa non esclude che, sia tale fiducia, sia quell’elemento indistruttibile, gli possano restare perennemente nascosti. (Kafka, Quaderni in ottavo 1916-1918)
Qualcosa, quindi rimane, nelle vite apparentemente senza senso dei suoi protagonisti-alter ego e sono veramente indistruttibili, così come lo è l’umanità che li circonda; è la loro essenza.
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