Rebecca West - La famiglia Aubrey
Magari riuscire a scrivere come lei. A sentire i critici è stata la migliore scrittrice donna del Novecento e nessun altro meglio di lei è riuscita a illuminare con il dono della scrittura la profondità e l’essenza, attraverso l’uso del linguaggio e di un cervello affilato per trovare la frase giusta che resta impressa sulla pagina e nella mente del lettore.
Come esempio si potrebbe citare quel passaggio alla fine di un capitolo, dove Rebecca West racconta la condizione femminile, l’arrivo dei figli e i rapporti con gli uomini nell’Inghilterra edoardiana, fra la fine dell’Ottocento e gli inizi del nuovo secolo. Visti dagli occhi di Rose, la bambina che è l’io narrante – e suo alter ego– i bambini si trovano dentro le gabbie di uno zoo, già formati e pronti per essere presi, ma le madri sono fuori dalle sbarre e per poterli prendere devono passare dal cancello, dove si trova il guardiano – e alle donne conviene essere gentili con il guardiano, chiunque esso sia.
L’ultima frase è praticamente la stessa del libro – e mette i brividi. Con quel chiunque esso sia si aprono abissi di sofferenza, di prigionia, di vite sprecate, di milioni di figli attaccati a gonnoni e altrettanti milioni di uomini che recitavano la loro parte di uomini così come erano stati abituati a fare, senza chiedersi se era giusto picchiare mogli o figli, oppure usare il tempo a proprio piacere, lasciando lavoro, cura dei figli e della casa sulle spalle di mogli, figlie, zie, convinti anzi della loro stessa felicità in queste occupazioni e in questo mondo dove rifiutavano di mettere piede.
Cose come lavare i panni sporchi ai trogoli, cucinare, cambiare i pannolini ai figli e altro ancora erano compiti che snaturavano il senso di virilità, la pigrizia mascherata da maschiezza, l’indolenza come testimonianza di un superiore disinteresse a fatti di poco conto, come la merda dei propri figli.
Una vita tormentata
Rebecca West possiede quello che si può definire il tocco, quella bacchetta magica che si muove in una stanza in penombra, illuminando alla vista e al significato dettagli come le tazze da tè, i fermagli della signora Beevor, i suoni del violino di Rebecca.
Ma non è un romanzo contro gli uomini. Rebecca West è stata una campionessa del libero pensiero, capace di tenere assieme posizioni di sinistra (ha sempre votato Labour), di essere femminista e amica di Virginia Woolf, eppure anticomunista e antisovietica fino ad accettare le operazioni di McCarthy in America contro il mondo della cultura progressista di quel paese. Nel corso della sua vita ha avuto crisi religiose, da cui è uscita rinforzata nel suo scetticismo, ma questo senza rinnegare le opere ispirate dalla religione nei secoli.
Si è attirata negli anni critiche da destra e da sinistra, non ultime, le più amare, provenienti dal proprio figlio, avuto insieme ad H.G. Wells. Ma questi sono casi personali, che ancora non hanno intaccato la felicità con cui si scorrono le righe e le pagine de La famiglia Aubrey. Non ci si riesce a fermare, si va avanti senza staccare l’attenzione, facendosi cullare e trasportare dove vuole lei, facendoci vedere dove arriva il suo sguardo e negandoci quello che non vuole che vediamo. Non sappiamo nulla del momento storico se non alcuni cenni all’epoca edoardiana e alla guerra anglo boera, che ci fanno intendere come lei scrivesse di quegli anni dalla posterità, come un racconto parzialmente autobiografico.
Una famiglia senza padre
Non ci sono accenni a quanto avviene al di fuori di casa Aubrey, nonostante il padre renda spesso partecipe tutta la famiglia degli scritti e delle sue posizioni. E’ un opinionista famoso e riconosciuto nella sua epoca, noto per le sue posizioni, che capiamo progressiste e liberali, e per il suo assoluto disinteresse nelle battaglie che combatte con i suoi editoriali.
E’ un polemista, una penna e una mente brillante. Ma le sue idee sull’uno o l’altro dei temi che formano l’opinione pubblica dell’epoca ci sono oscuri, vengono menzionati a margine, se non quando coinvolgono direttamente la famiglia.
Gli aspetti con cui Rebecca West ci fa capire qual è l’epoca dei fatti sono le descrizioni dei vestiti, oppure l’episodio in cui lei e la cugina Rosamund vengono portate a casa dal chiassoso vicino di quartiere a bordo di una delle prime automobili.
Ci sono episodi all’interno del romanzo che potrebbero essere materia di tensione in altri racconti, ma che ne La famiglia Aubrey finiscono per scorrere – come dice Baricco – come barche lungo un fiume tranquillo, entrando ed uscendo dal campo visuale. C’è un omicidio a pochi passi da casa. Viene ucciso il padre di una compagna di scuola di Rose e Mary, le due gemelle. La moglie verrà riconosciuta colpevole – prima in fuga, poi arrestata – e la famiglia Aubrey entra nella cronaca di un fatto di sangue che aveva sconvolto il paese all’epoca, offrendo ospitalità alla figlia e alla zia (sorella della moglie).
E’ un momento commovente: gli Aubrey – tutti gli Aubrey, marito compreso – capiscono in quali difficoltà saranno la zia e la figlia e offrono loro ospitalità, pur non avendo in precedenza particolari legami con loro. Qualcuno dice anche che forse altri – parenti o amici – potrebbero fare la stessa cosa, ma la madre Clare risponde che in questi casi anche le persone più strette si dileguano, per paura di sporcarsi. Ed è proprio per questo che la famiglia Aubrey non ha dubbi nell’offerta che fa alla zia Lily e alla figlia: un aiuto che si protrarrà per una vita, durante il processo e le visite in carcere di zia Lily alla sorella. Poi, il padre brillante opinionista, sparisce, come un fondale rimosso dal palcoscenico. Non se ne parla più, era già poco presente, ma viene ricordato con affetto da Rose. Tutto sommato, viste le lunghe assenze, la famiglia Aubrey aveva già imparato a fare a meno di lui.
La felicità nella musica
L’acutezza dello sguardo e della comprensione da parte delle bambine, la conoscenza esatta della loro situazione potrebbe farle chiudere nel rancore, nella chiusura verso il modo esterno, nell’odio verso gli altri. Invece la famiglia Aubrey vive nella musica, nella prospettiva infusa dalla madre alle tre figlie Cordelia, Mary, Rose e al fratellino Anthony Quin di diventare un giorno musicisti di professione che avranno successo dando concerti in giro per il mondo.
Clara era una pianista all’inizio di una luminosa carriera, da lei stessa interrotta alla notizia della morte del fratello, che l’aveva prostrata in un periodo di lutto e depressione, da cui si era ripresa con il matrimonio.
I ragazzi crescono nella musica, la loro vita è scandita dagli esercizi al piano e al violino per Cordelia e la famiglia Aubrey vive in una bolla felice, anche se spiantati e perseguitati dai creditori. Il responsabile della loro rovina è il padre (quando ancora c’era), un uomo con il vizio del gioco, sempre pronto a lanciarsi in speculazioni che finiscono tutte male. Il risultato è che i figli non possono comprarsi vestiti nuovi o decenti, a scuola sono isolati e derisi – bullizzati si direbbe ora.
Ma non è un problema, non per le due gemelle e nemmeno per il piccolo, la cui gioia di vivere conquista tutti. Lo è per la prima, Cordelia, l’unica che non accetta di vivere in quelle condizioni, che vorrebbe essere disperatamente come gli altri, si sobbarca di responsabilità non sue e soprattutto si autoconvince – aiutata dalla zitella signora Beevor, che le farà da maestra/istitutrice/procacciatrice di serate in vari circoli dove suonare – di avere predisposizione, mentre la madre Clare da subito capisce la sua irrimediabile mancanza di talento.
Una famiglia diversa
In una famiglia altrimenti unita, Cordelia è sola, si vergogna di appartenervi, vuole andarsene. In un romanzo dove manca un vero antagonista è lei la linea d’ombra, ancora più del padre, che pure è responsabile delle loro vite e delle difficoltà che passano. Il padre è comunque adorato: nn c’è mai, ma quando c’è diventa presente usando tutta l’inventiva e la maestria nel lavoro manuale per preparare doni bellissimi a Natale: case per le bambole, interni, fortini per Anthony Quin.
Di tutti i problemi che le ragazze incontrano fuori, a scuola, non si fa cenno. La vita scorre lieve ma difficile, felice ma povera, nella coscienza della diversità di questa famiglia da tutte le altre: è questa diversità che viene respinta da Cordelia – ma anche le due vipere gemelle Mary e Rose contribuiscono a isolarla dal gruppo.
Ci sono due storie che crescono in parallelo lungo tutto il romanzo: quella del padre brillante dalle mani bucate che scivolerà in uno stato di depressione acuta, che terminerà con l’abbandono della famiglia; e quella di Cordelia, che per anni vive nell’illusione alimentata dalla signora Beevor di diventare una grande musicista, fino a quando non si scontra con la realtà, da cui la madre aveva cercato di proteggere.
La caduta di Cordelia
Cordelia viene respinta con ignominia dal più bravo maestro di violino londinese e cade anche lei in depressione, smette di suonare, respinge la signorina Beevor e si ammala per molto tempo. Clare e la cugina Rosamund restano accanto a lei a cucire, in silenzio, consolandola con la loro presenza, ma l’unità della famiglia è rotta: il padre è già andato via, Cordelia vuole fare lo stesso.
Ma non è una tragedia. C’è dolore in tutto questo, ma ancora di più c’è partecipazione, c’è la volontà delle figlie di proteggere la madre, c’è un’abilità manipolatoria per salvare le apparenze anche ricorrendo a piccole menzogne. In due parole: empatia e presenza. Quel modo di capire la situazione e trarne le giuste conclusioni, anche se si è ancora bambini.
Della famiglia Aubrey ignoriamo alcuni dati fondamentali: l’età dei figli all’inizio della storia e alla fine, quali scuole frequentano, cosa imparano.
Anzi, la scuola secondo Rose è così distaccata dalla vita che il fatto di avere buoni voti, cioè essere bene integrati nella vita scolastica sarà un handicap per il futuro, quando si arriverà nella vita reale. Questo non vuol dire fregarsene e abbandonare la scuola, ma dare alla scuola il giusto peso.
Ma non sarà che con la scuola o con altro sia sempre tutto così relativo e che alla fine non vi sia nulla di importante? E’ un dubbio che può venire. E viene quando le cose sono lette con estrema intelligenza, perché l’analisi delle cose implica uno straniamento dal divenire: bisogna chiamarsi fuori e guardare le cose e le persone passare, senza giudicare.
O almeno i giudizi filtrano dai particolari, che servono a farci capire che tipi siano i vari personaggi. Sono descritti a tic: la spilla della signora Beevor, la chiassosità del giocatore di borsa poi ammazzato, lo sprezzo della zia ricca che li viene a trovare e sputa sentenze, il mondo di oggetti legati al mare della domestica, che arriva dalla costa e fa parte di una famiglia di marinai.
Scrittori bambini felici
Ma non sentiamo il bisogno di saperne di più, La famiglia Aubrey ci basta per quello che è.
E’ il corrispettivo femminile di quello che La mia famiglia e altri animali è per l’infanzia vissuta dai figli maschi. Anche in questo caso i protagonisti sono una madre sola con i figli, che si stabiliscono a Corfù, dove la vita costa meno che in patria, nell’intento di far durare di più le finanze della famiglia.
Ma il libro di Durrell, per quanto magnifico, è più evocativo della vita sull’isola greca, che diventa spesso un incontro con l’incanto della vita, della campagna e del mare Ionio. In Rebecca West il paesaggio è assente, ma siamo dentro alle cose, alle persone, attraverso descrizioni e dialoghi.
Il parallelo fra questi due romanzi sulla propria famiglia può davvero essere il paradigma di un modo di raccontare maschile e femminile. Fra l’altro sono entrambi della stessa epoca.
Il che ci rimanda a una felicità precedente alle guerre mondiali, a un’età dell’oro cancellata dal ferro e dall’acciaio, dallo sterminio e dalla bomba atomica di due guerre mondiali. Sembra che dopo l’umanità non abbia più provato la stessa spensieratezza, neanche nella nuova età dell’oro dopo l’ultima guerra, con la ricostruzione e lo sviluppo. Sia Durrell che Rebecca West sono immersi in quel mondo felicemente descritto e rimpianto da Arthur Schnitzler, quando raccontava da ebreo esiliato quanto fosse facile la vita in un mondo – l’Europa alla fine dell’Ottocento – in cui si poteva girare senza passaporto, stabilirsi in un luogo per quanto tempo si voleva, coltivare amori e amicizie scrivendo tante lettere, molte destinate a essere testimonianze che ancora oggi si fanno leggere. La famiglia Aubrey è il racconto dell’apertura di un cassetto da dove escono foto in bianco e nero, con bambine dai volti imbronciati che guardano l’obiettivo con gli occhi stretti perché la luce colpisce le pupille, con il piccolo Anthony Quin che tanta importanza avrà nell’episodio successivo (che non sarà all’altezza del primo episodio) che guarda da un’altra parte e la madre Clara che sostiene tutto ed è – assieme a loro – tutto sommato felice.
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