Raffaele Oriani / Riccardo Staglianò - I cinesi non muoiono mai
E’ un po’ tardi per leggere questa fotografia istantanea della comunità cinese in Italia, scattata intorno al 2008, quando ancora l’attuale segretario del PCC Xi Jinping era in predicato per diventare il leader supremo e lo capiamo da alcuni accenni. Potrebbe essere utile se non si è mai affrontato l’argomento, ma è comunque un buon modo, come dicono gli autori, per guardarci allo specchio.
Scopriamo che la comunità cinese in Italia è la più numerosa e ricca in Europa, punto di riferimento delle altre comunità presenti negli altri paesi del continente. Scopriamo che gli importatori / esportatori cinesi, con sede a Roma, sono un punto nodale e fondamentale di una rete che collega tutti i grossisti presenti soprattutto a Roma, Prato e Milano, con gli spedizionieri di Napoli e con i produttori in Cina, ma che le merci fatte arrivare a loro dalla madrepatria, poi ripartono per Grecia, Spagna, Turchia e altri paesi del Mediterraneo. Scopriamo che la comunità italiana è sì radicata in tre centri: Milano, Prato e Roma, ma che la mobilità si estende capillare ovunque ci sia la possibilità di concludere affari e di partire con vecchie attività abbandonate dagli italiani o far ripartire aziende defunte. Scopriamo la capacità di lavoro fuori dalla norma: da dieci a sedici ore al giorno, senza ferie, senza sabati o domeniche, dormendo sui soppalchi sopra le macchine da cucire, con i bambini spesso messi a lavorare a fianco ai genitori.
Non sarà per sempre
Chi glielo fa fare, ci chiediamo noi e la risposta non enunciata dai due giornalisti, ma che viene fuori dalle diverse interviste, è la certezza che non sarà per sempre, che tutto quel tempo passato in schiavitù, per pagare il viaggio o per mandare soldi a casa, tutti quegli inverni trascorsi al freddo, in case senza riscaldamento, mangiando il riso comprato all’ingrosso in sacchi da venticinque chili, sono solo una parentesi, che può durare dai cinque ai dieci anni, dopodiché, con l’accumulazione originaria di capitale, si passa ad altro: aprire un’attività in proprio, il ristorante, il negozio, l’ingrosso, l’azienda di taglio e cucito in conto terzi, le agenzie matrimoniali e ogni attività dove sia possibile far saltar fuori soldi. E se questa vita agra non sarà solo una parentesi per la prima generazione di immigrati che non parlano italiano, servirà per dare opportunità di una vita migliore ai figli nati in Italia, studiare nelle scuole italiane, laurearsi, accedere a una professione: medico, avvocato, architetto. In ogni caso è la certezza incrollabile che le cose possano solo andare per il meglio grazie all’impegno costante e al lavoro duro, uniti all’istinto degli affari, ad approfittare di ogni opportunità di guadagno, anche minimo, ma arrivare assieme ad altri connazionali ad occupare una nicchia, e da lì rendersi indispensabili.
Occupare gli interstizi
Pensiamo ai lavori di piccola sartoria: ancora negli anni Sessanta e Settanta questa occupazione in Italia rappresentava l’occasione di piccole entrate nel bilancio famigliare dove a lavorare ufficialmente era solo il marito. Per anni abbiamo rinunciato ai jeans con la cerniera rotta, oggi possiamo ancora portarli per qualche tempo, sborsando cinque euro in nero al piccolo laboratorio cinese che, con un’insegna quasi invisibile, una vetrina dimessa e poco invitante, si occupa di queste piccole riparazioni, interstizi lasciati aperti anni prima da noi italiani. O al taglio della pietra luserna (usata nei tetti e per i selciati cittadini), in Piemonte, un lavoro faticoso e usurante che i figli dei vecchi scalpellini non vogliono più fare. E allora chi arriva? Gli abitanti di un villaggio fra i monti dello Zhejiang (provincia cinese di circa 47 milioni di abitanti da cui proviene circa il settanta per cento dell’emigrazione cinese in Italia) abituati al lavoro in cave di pietra; ora sono loro la manodopera ben pagata nei paesi di Barge e Bagnolo e con gli anni qualcuno è pure riuscito a rilevare le aziende dagli italiani.
D’altronde questa evidenza, quella della certezza del progresso, della fiducia verso un miglioramento, è la foto in piccolo del più grande movimento che avviene nella madrepatria, dove, come ha osservato Loretta Napoleoni in un convegno, la manodopera di riserva della campagna, di fatto clandestina in patria perché per legge il trasferimento di residenza dev’essere autorizzato – obbligata ad accettare qualsiasi paga pur di lavorare – ha comunque una prospettiva ed è questa la forza del sogno cinese: sapere che anche lavorando duro, subendo ingiustizie e condizioni degradanti, mettendo la salute a rischio, potrò un giorno vivere meglio e se non ce la farò io, saranno i miei figli a godere dei frutti delle mie fatiche.
Imparare in silenzio
E’ una prospettiva di lungo periodo e questo è tipico della mentalità di chi abita nell’Impero di mezzo, ovvero la terra al centro del mondo, perché così i cinesi si sono sempre considerati in cinque millenni di storia, con una parentesi negli ultimi cinque secoli, come ammette una ragazza intervistata da Oriani e Staglianò.
Parliamo di una terra che comprende la maggior parte delle ricchezze del sottosuolo, che ha così tanta terra e tanta acqua da sfamare il popolo più numeroso del mondo che oggi grazie alla sua industriosità e iniziativa è in grado di pagarsi quanto gli manca che deve importare. E’ un paese che ha ripreso in mano le sue ambizioni, che ha trovato il suo posto al mondo con la stessa modalità con cui gli immigrati cinesi hanno trovato la loro posizione in Italia: cominciando in silenzio, con umiltà, curiosità e voglia di apprendere. Ora siamo allo stadio di maturità; la Cina è la superpotenza emergente, la sua rincorsa al primato ha fissato l’asticella in cui supererà gli Stati Uniti come nazione più ricca del mondo in un anno compreso fra il 2025 e il 2040 e tutti gli indici sono a suo favore. Non solo: è sopravvissuta e si è rafforzata riuscendo ad attraversare quasi indenne le varie crisi che si sono abbattute sul suo popolo: dall’epidemia di SARS a quella attuale del Covid – 19, dalla crisi delle Borse asiatiche del 1997/98, alla crisi post attentati del 2001, a quella del 2008 dei mutui subprime che ha travolto tutto il mondo. Ogni volta i giornali gongolano non appena i suoi indici di crescita sono in momentanea flessione, solo perché la crescita si “arresterà” al sei per cento invece che al dodici, ma sempre di crescita si tratta, mentre gli indici degli stati occidentali scivolano nei numeri negativi.
La Cina e noi
Ci sarebbe bisogno di un ritorno dei due giornalisti negli stessi luoghi e a rintracciare le stesse persone intervistate una quindicina di anni prima. Ora sarà tutto diverso, i figli dei primi immigrati stanno per andare all’università o sono già laureati, il distretto industriale del tessile di Prato è in mani cinesi, l’Inter, in mano a una cordata di finanziatori cinesi ha vinto il campionato 2020/21 e la crisi del 2008 ha registrato un’impennata di export di macchinari dall’Italia alla Cina: non si trattava di nuova tecnologia, ma degli impianti dismessi delle fabbriche chiuse in seguito alla crisi, che hanno preso la via dell’oriente.
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