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Paolo Morando - Eugenio Cefis. Una storia italiana di potere e misteri

Per esaminare una figura come quella di Eugenio Cefis, mi pare utile la definizione che di lui ne aveva dato Mattei, in un dialogo fra loro due – scherzoso fino a un certo punto – sicuramente offensivo per il primo. La frase era:
Tu sei come una limousine senza motore, una bella carrozzeria lucente, con tutto quel che occorre, ma senza il motore che la porterà a destinazione (pag. 153)
Potrebbe essere il suo amaro epitaffio. Dove ha portato la sua scalata alla Montedison? Dove ha portato la sua gestione dell’ENI? Perché, in forza del controllo delle due più grandi aziende italiane, la Montedison privata e l’ENI pubblica, il personaggio Cefis comincia a essere attaccato: troppo potere nelle mani di una sola persona, soprattutto in tempi in cui la paura di un colpo di Stato, un golpe alla cilena, attraversa la società italiana; colpo di Stato che si realizza (il golpe Borghese), ma che viene misteriosamente fermato durante la sua attuazione.
Sono troppe le vicende oscure in cui Eugenio Cefis è stato coinvolto o – nella maggior parte dei casi – sospettato di esservi coinvolto, ma che per molti dietrologi (il nome con cui un tempo erano chiamati i complottisti) erano la stessa cosa.

Le uniche responsabilità di Cefis

Il libro di Morando contribuisce, grazie alla distanza dal tempo in cui si sono verificati i fatti (siamo a circa cinquant’anni), a fare un po’ di chiarezza e a ripulire Cefis dai sospetti di essere il capo della grande macchinazione: ideatore e organizzatore di colpi di Stato autoritari e neofascisti, primo fondatore della loggia P2 e – prima ancora – responsabile dell’attentato a Mattei, della morte del giornalista Mauro De Mauro e di Pier Paolo Pasolini. Una scia di ombre nere e vicende nerissime che hanno attraversato il nostro paese e che vedrebbero lui, sempre lui, da solo o assieme ad altri, come la mente criminale.
Le uniche vere e accertate responsabilità di Cefis, anche se non suffragate da sentenze di tribunale perché era riuscito a dilazionare i processi e a far approvare nel frattempo leggi compiacenti, sono le responsabilità ambientali legate agli stabilimenti Montedison, in particolare le vicende dei “fanghi rossi” scaricati in mare dallo stabilimento di Scarlino (Toscana) e al disastro ambientale del Petrolchimico di Marghera, dalla quale esce assolto per aver ereditato la situazione (anche se non aveva fatto nulla per sanarla durante la sua gestione).
Come detto, l’inizio della fine di Cefis avviene in occasione del suo apparente massimo potere: la presidenza di Montedison, scalata da ENI e altre consociate in una cordata che porterà il malato colosso della chimica italiana in mani pubbliche e Cefis, forse di malavoglia, cede il timone della presidenza ENI per passare a Montedison con la missione di risanare l’azienda chimica (nel suo campo una fra le prime quattro o cinque al mondo).

L’inizio della fine

La campana che suona l’inizio della fine non arriva dal mercato, dalla finanza o dalla concorrenza, ma dalla mancata elezione di Amintore Fanfani alla presidenza della Repubblica, nel 1970. Dopo che l’ennesima votazione in Parlamento a dicembre non raggiunge la maggioranza necessaria, Fanfani – e Cefis con lui – capisce che i giochi sono fatti: c’è una grande parte della DC che non vuole appoggiarlo a nessun costo e questo significherà l’inizio della fine per Cefis, appena approdato a Montedison su richiesta di Cuccia (forse imbeccato dallo stesso Fanfani, ma comunque mosso dall’esigenza di mantenere la chimica italiana in mani italiane, perché questa era la missione di Cuccia, mantenere industria e finanza italiane in mani italiane, possibilmente quelle delle grandi dinastie industriali e bancarie).
Cefis in più relazioni davanti a diverse commissioni parlamentari lo dice chiaro: molti stabilimenti sono obsoleti e non più competitivi, o arrivano gli aiuti di Stato per rimetterli in sesto, oppure sarà costretto a chiuderli e a lasciare a casa gli operai. Incassa di fatto un doppio no a tutte e due le opzioni: alla prima richiesta di aiuti vengono dati indefiniti rinvii, alla seconda secchi dinieghi perché i licenziamenti andrebbero a intaccare preziosi bacini elettorali.
Si consumano così fra attacchi feroci con articoli di giornali ostili, ma soprattutto di libri (Razza padrona di Scalfari e Turani su tutti) e libelli (Questo è Cefis) gli anni del suo mandato in Montedison, dove riesce a fatica a ottenere il bilancio in pareggio, ma non a ridurre il pesante debito pregresso e – del tutto a sorpresa – nel 1976 esce di scena, si dimette dalla presidenza di Montedison e va a vivere in Svizzera, a curare i suoi abbondanti interessi privati.

Un militare silenzioso

Questa, a grandi linee, la storia di Cefis così come raccontata da Morando, o almeno quello che se ne trae: la storia di un uomo forte, un leader per molte ragioni, un uomo che prova a mediare ma non è portato ad obbedire a imposizioni che vanno contro la logica e che arrivano da persone che hanno potere e influenza, ma che non sono lì, sul campo, a combattere, come lui.
Non è soltanto una metafora, ma il riferimento al primo o almeno al primo conosciuto fra gli episodi di questo tipo: Cefis era un ufficiale del Regio Esercito diventato capo partigiano in val d’Ossola durante la Resistenza. Durante i due anni di guerra le brigate “bianche” ossolane formate in gran parte da ufficiali smobilitati dopo l’8 settembre riescono a occupare Ossola per 43 giorni, fino a quando la città non viene rioccupata da soverchianti forze nazifasciste. In quei momenti, Cefis è consapevole che la città non può essere tenuta e suggerisce al CLN di ritirare le truppe, ma da Milano arriva l’ordine di resistere. Sarà una resistenza simbolica, ma che termina comunque in una sconfitta e con la perdita di vite che avrebbero potuto essere risparmiate ritirandosi per tempo, perché non c’era la minima possibilità di vittoria.
Questo è stato dunque Cefis, un militare uscito dall’Accademia di Modena e, come recita il motto dei carabinieri, “Usi a obbedir tacendo, e tacendo morir.”

Uno di quelli che “hanno fatto l’Italia”

Morando non vuol fare di Cefis un eroe, perché eroe non era, trovandosi in lui anche l’opportunista, pronto a trarre frutto dalle situazioni, come dalle forniture all’ENI, di cui controllava gli appalti e che in varie occasioni aveva sfruttato per ottenere “commissioni” dai fornitori quando non l’ingresso nella stessa società fornitrice. Insomma, nell’Italia della ricostruzione, era stato uno di quelli che, nel bene e nel male, si dice che “hanno fatto l’Italia” – e non so fino a che punto la frase possa essere una lusinga.
Ecco, quello che si potrebbe imputare a Cefis è proprio il meccanismo perverso di queste pratiche, che generano vassallaggio e dipendenza, ma nelle quali si trova anch’egli legato, ad altri livelli. Non è che qui si voglia fare della morale dicendo che un sistema come questo permette la diffusione della corruzione ovunque: per quale motivo, infatti, quella che può essere definita una normale pratica commerciale, ovvero il ristorno come premio da girare al compratore o all’appaltante, non può essere esteso a livello politico? Lo faceva Mattei e Cefis ha continuato a farlo. Mi serve questa legge: ecco il contributo. Mi serve questo stanziamento, oppure il permesso di perforazione su questi terreni: ecco quel che serve per far le cose veloci.
Paradossalmente, è con Montedison che questo meccanismo si inceppa: i soldi dallo Stato non arrivano, non si riesce a risanare. E nello stesso periodo ecco Cefis protagonista di Petrolio, l’ultimo inedito in vita libro di Pasolini.
Guarda caso, Pasolini muore e aveva scritto contro di lui. In altre occasioni i libelli escono, ma Cefis è così bravo da rastrellarne l’intera edizione e farla sparire, se non a bloccarne preventivamente la pubblicazione.

Grandi dinastie contro boiardi di Stato: qual era la vera “razza padrona”?

Se si dovesse guardare al cui prodest, Cefis sarebbe il colpevole perfetto: succeduto a Di Dio (dopo tanto tempo i sospetti della sua presenza sul luogo della morte di Di Dio sono stati smontati) come comandante delle truppe partigiane della val d’Ossola; succeduto a Mattei dopo l’attentato al suo aereo che ne ha causato la morte e tante altre occasioni minori in cui l’altrui disgrazia è stata occasione di vantaggio e promozione.
E’ il tempo giusto per tratteggiare un bilancio di questa figura, ma sempre in bianco e nero. I tempi sono maturi perché il pendolo della storia economica sta tornando verso il polo pubblico, dopo che per anni lo Stato si era spoliato di industrie, beni e servizi, nella convinzione che la gestione in mani private fosse più economica e virtuosa. Ora questo ciclo è arrivato alla sua fine; nessuno parla più di privatizzazioni e in Italia questo discorso si è fermato con il referendum del 12 e 13 giugno 2011 quando ventisei milioni di elettori avevano detto no alla possibilità di trarre profitto dalla captazione e distribuzione dell’acqua.
Non bisogna dimenticare che erano stati proprio i discorsi fatti intorno alla figura di Cefis uno dei capisaldi di una campagna che, parteggiando per la grande imprenditoria privata (Agnelli e Pirelli su tutti), aveva combattuto l’industria pubblica e le partecipazioni statali, così come da Wikipedia a proposito di Razza padrona:

Il libro, infine, caldeggia «una convergenza di vertice» tra il PCI «e le grosse famiglie dell’imprenditoria privata italiana: gli Agnelli, gli Olivetti, i Pirelli» e una «riscossa da parte del mondo degli Agnelli per sconfiggere e ridimensionare il mondo dei Cefis e della borghesia di Stato». Tesi riprese e diffuse da Paolo Sylos Labini nel Saggio sulle classi sociali, pubblicato da Laterza nel 1975, dove verrà definitivamente sancita la formula della «alleanza dei ceti produttivi contro i ceti parassitari»[3]

Si sa come quella campagna si rivelasse confusa fin dagli inizi, come molte delle posizioni di Scalfari, tutte mirate alla convergenza del PCI e del mondo variegato della sinistra verso un grande centro indistinto (non scordiamo il tifo per il governo De Mita e altre campagne che miravano ad ammorbidire l’opposizione delle sinistre, a creare una sinistra “borghese” e “di governo”). Ma quello non era che l’inizio dell’idea di Scalfari di addomesticare il PCI e renderlo presentabile alla vera razza padrona, che non erano i “boiardi di Stato”, ma le grandi dinastie industriali.
In questo senso Scalfari si trovava nel giusto crocevia, considerando le parentele che legano i veri editori del gruppo L’Espresso, la nobile famiglia dei Caracciolo, in maniera diretta alla famiglia Agnelli (Carlo Caracciolo fondatore ed editore del gruppo Repubblica – L’Espresso, nonché fratello di Marella Caracciolo, moglie di Gianni Agnelli) e il maldestro in apparenza tentativo di accomunare il PCI, allora in ascesa, con le loro controparti e in opposizione allo Stato, con cui proprio il PCI per propria cultura avrebbe dovuto parteggiare.

Il nemico giusto

In tutto questo gioco rientra Cefis, come un simbolo costruito a simulacro di nemico, laddove proprio lui, per propria cultura (militare e cattolica) rientrava più nella definizione data da Mattei – la limousine senza motore – che non in nell’incarnazione del grande capo del complotto. Quello che Mattei rimproverava a Cefis era forse la mancanza di una visione, o perlomeno, alla fine del loro rapporto, di avere una visione in contrasto con la sua, al punto da insultarlo volutamente, giudicandolo come un mero esecutore.
Dopo essersi difeso nei modi che sapeva: il ritiro e il divieto a suon di denaro delle pubblicazioni a lui ostili, il controllo dei giornali (Il Giorno e Il Messaggero), Cefis non si rivelerà il combattente che si pensava e Cuccia, in un colloquio riprodotto nel libro di Morando, riconoscerà che proprio il suo cavallo era un perdente, al punto da decidere il ritiro dalle cariche e dall’Italia quando ancora avrebbe avuto tempo e modo di combattere. Ma la sua scalata a Montedison assomigliava tanto, sei anni dopo la sua ascesa a presidente, a un’operazione di promoveatur ut amoveatur, in cui l’allora classe dirigente DC era maestra.
Qui stava il cortocircuito: Cefis aveva obbedito da bravo soldato, ma per qualcuno o per molti la poltrona di presidente dell’ENI era ben più importante di quella della Montedison, ma questa operazione aveva scatenato la feroce opposizione delle dinastie industriali, Agnelli in testa, che inizia contro Cefis una guerra senza quartiere. Allora la paura era che lo Stato entrasse a nazionalizzare anche la FIAT, cosa che forse mai era stata pensata; al punto che la stessa FIAT, in piena crisi, aveva venduto il dieci per cento delle sue quote alla Libia di Gheddafi nel 1976. Insomma, se la Montedison era il grande malato dell’industria privata italiana, le altre aziende, FIAT in testa, non se la cavavano bene. Mi pare anche indicativa la mossa della FIAT di sganciarsi sia dalle cure di Cuccia (che per missione avrebbe preferito una partecipazione italiana) sia da quelle dello Stato; ma forse in quei tempi l’influenza della politica anche in una quota di minoranza sarebbe stata determinante in molte decisioni e la proprietà – così come il management – non avrebbero avuto mani libere ad esempio per decidere i licenziamenti dei primi anni Ottanta.

Isolato 

Anche in termini personali, Agnelli e Cefis pare si detestassero, e l’accordo che aveva consegnato la presidenza di Confindustria a Gianni Agnelli e la vicepresidenza ad Eugenio Cefis era stato una tregua armata, tuttavia contestata dagli alfieri della libertà d’impresa. Cosa c’entrassero in tutto questo i comunisti e perché dovessero correre in soccorso al capitale sarebbe bello che Scalfari lo spiegasse. Probabilmente aveva visto gli accordi sullo Statuto dei lavoratori e sulla scala mobile come un momento di pacificazione, ma si trattava comunque di controparti, anche se era stato il PCI a mediare l’accordo fra FIAT e URSS già da molti anni.
Tornando a Cefis: la sua uscita di scena a meno di sessant’anni indica certamente uno stato d’animo di stanchezza personale, unito a paura vera e propria. Non dimentichiamo che in quegli anni siamo nel pieno della stagione dei sequestri di persona e che altre dinastie industriali (vedi Alberto Bruni Tedeschi, padre di Valeria e Carla, che sempre in quel periodo vende la sua azienda, la CEAT, seconda produttrice di pneumatici in Italia e si ritira con la famiglia a Parigi) hanno deciso di uscire dalla scena.
Ma Cefis, oltre all’amarezza di sentirsi isolato, sente il peso della sua posizione di amministratore, che avrebbe potuto decadere dalla carica, se non finire in prigione, così come era successo, senza un vero motivo, a Felice Ippolito, a capo del Centro Nazionale per l’Energia Nucleare (CNEN), arrestato nel 1964 per presunte irregolarità, rivelatesi inesistenti. Come ben documenta Morando, fu scarcerato anni dopo dal suo stesso persecutore, Giuseppe Saragat, nel frattempo diventato presidente della Repubblica. Questo episodio aveva fatto sentire Cefis più volte in pericolo per il solo fatto di esercitare le sue funzioni. E fra le sue funzioni c’era qualcosa di cui poteva disporre per mandare avanti le missioni dell’ENI: l’uso di fondi neri per corrompere politici e funzionari esteri, responsabili delle licenze di esplorazione e perforazione di giacimenti petroliferi. Non si capisce altrimenti per quale motivo l’ENI riuscisse ad accaparrarsi sostanziosi contratti offrendo una tecnologia alla pari di altri concorrenti, se non riuscendo a trovare la persona giusta e ricompensarla adeguatamente. Il tutto, si intende, ai fini dell’indipendenza energetica nazionale.
A tutte queste tensioni, per Cefis, si aggiunge il dolore per la perdita del figlio, scomparso per malattia in giovane età. E’ come se in questo gesto delle dimissioni riconoscesse i suoi limiti e prendesse atto del suo isolamento; per cui le sue dimissioni e il ritiro in Svizzera furono cosa relativamente facile e per lui costituirono la presa d’atto che le cose non potevano sempre andare come avrebbe desiderato lui, neanche provandoci fino allo sfinimento.