Nino Haratishvili - L'ottava vita (per Brilka)
Preceduta da lodi, premi e recensioni entusiastiche, L’ottava vita (per Brilka), romanzo scritto in tedesco da parte della georgiana Nino Haratishwili, emigrata ad Amburgo a vent’ anni (ora ne ha trentatre), ha tutti gli ingredienti per trascinare il lettore: grande storia di famiglia, epica che attraversa le vicende grandiose e terribili di un secolo, intersecando le due figure più famose o famigerate nate in Georgia: Josif Vissarionovic Dzugashvili detto Stalin e Laurentii Beria, il capo e boia dell’NKVD (poi divenuto KGB).
Solo questi nomi – peraltro mai esplicitati – e la promessa di una storia centenaria vissuta in gran parte all’interno dell’Unione Sovietica da più di una generazione della famiglia Jashi solleticano la curiosità, perché ci mancano disperatamente le cronache di ciò che è stato, cosa ha significato vivere per lunghi decenni sotto un regime nato per l’emancipazione dell’umanità e che si è sviluppato come il suo tragico rovescio.
L’uomo nuovo senza dubbi o tristezze, l’uomo con una sola faccia, rivolta verso il sole radioso del futuro in una società di liberi, uguali e in pace si è infranto sul nascere, forse non è mai nato. La necessità della crudeltà, la determinazione della durezza, a dispetto di qualunque idea di giustizia sono gli ideali riconvertiti negli uomini e donne che hanno partecipato all’edificazione della patria socialista. Personaggi come Alla, spietata torturatrice dell’NKVD, o come Kostja, il figlio di Stasia e fratello combattente di Kitty (entrambi nipoti dell’altra protagonista Christine), sono il tipo di persone che costituiscono l’ossatura del regime staliniano, fedeli fino in fondo, a dispetto di tutto (Kostja), assieme a chi esercita questa fedeltà con superbia e violenza (Alla).
Persone incomplete e sole
In ogni caso, sono queste le persone a cui mancano i pezzi, forse lasciati da parte durante la crescita, forse mai posseduti, perché di questo un regime o un’ideologia ha bisogno: di persone disposte a obbedire senza chiedersi mai nulla, senza avere dubbi, abituate a perpetrare atrocità in nome di uno sconosciuto fine superiore. In una parola, il fanatismo, la comune malattia di religioni o qualunque idea che disprezza la vita umana in nome di un qualche disegno superiore, la cui eventuale giustezza perde di senso proprio per il modo in cui viene perseguito.
Così Nino Haratishwili ci fa respirare la vita ai tempi di Stalin – e a mia modesta esperienza non avevo mai letto un libro capace di parlare della gente comune che ha avuto vite straordinarie perché ha attraversato momenti straordinari e terribili. A cosa riduce la violenza e la sopraffazione? Al silenzio, a una cappa di piombo che pesa sulla testa di ognuno e impedisce di vedere il cielo, di respirare, uno stato che in tempi normali può assomigliare a una pre-depressione, caratterizzato da apatia, svogliatezza e mancanza di entusiasmo, paura e terrore nei momenti bui, durante una guerra, una deportazione o una purga staliniana.
Caratteristica di un regime totalitario è quello di fondarsi sulla paura di quello che può fare ai suoi cittadini e contemporaneamente giustificare quello che fa in nome della stabilità e sicurezza, del futuro migliore di generazioni non ancora nate. Il seme della violenza è rendere l’uomo isolato e docile, inerme di fronte alla storia, pronto a essere usato contro i suoi simili, anche contro la propria famiglia o contro chi ama. Il meccanismo è quello di creare instabilità laddove la propaganda vende stabilità e in questo conflitto creare confusione, fino ad ergersi come unica soluzione ai guasti creati da quello stesso regime. L’autoreferenzialità di questi regimi è la loro condanna: finiranno dissolti, ma nel frattempo quanti disastri, quante vite distrutte o perse.
Un artificio inutile
Ecco, con tutto questo si può dire che la realtà ha già fatto abbastanza e anche qui, come ne La ferrovia sotterranea di Colson Whitehead, non si capisce il perché bisogna ricorrere a un artificio furbo per far girare una trama, che di per se non ha bisogno di alcun catalizzatore. Quello della cioccolata calda che porta grandi sfighe a coloro che la bevono è un espediente che non serve, perché è già la realtà vera che pensa a intervenire nelle vite dei protagonisti e la storia della cioccolata calda, della ricetta segreta e di tutto quell’inutile armamentario di finto mistero che tanto affascina la lettrice borghese (anche se il lettore fosse un uomo) sembra frutto del suggerimento di qualche agente letterario, o di qualche lettore avvertito delle mode.
Per inciso, la lettrice borghese attraversa i drammi seduta su una poltrona in lunghi pomeriggi, come Madame Bovary, a sognare mondi altri, diversi e inevitabilmente affascinanti ed evocativi che a lei non sono dati e la cioccolata è davvero l’espediente più scemo per richiamare questi mondi. E poi perché la lettrice borghese è una figura che non esiste, se non nella testa di qualche agente letterario o direttore editoriale, convinto che il successo di un libro poggi su questi mezzi.
Il marketing esigeva il suo gancio per attirare l’attenzione del pubblico e infatti non c’è una recensione in cui il cioccolato e la famosa ricetta segreta non venga tirato in ballo. Ma prescindendo dal cioccolato, l’intero romanzo fiume è scritto in modo magistrale, capace di tenere il lettore agganciato per la fluidità delle parole, per la forza dei personaggi e la naturalezza dei dialoghi.
La storia dell’ultimo secolo
Il romanzo ha anche un suo equilibrio: considerando le circa millecento pagine, i fatti di Praga del Sessantotto di cinquant’anni fa sono evocati fra la cinquecentesima e la seicentesima pagina, cioè a metà di una narrazione che dall’inizio del secolo si sviluppa fino ai giorni nostri.
E così avviene per tutta la tormentata storia della Georgia, devastata negli anni successivi al crollo dell’Unione Sovietica da nazionalismi dannosi e spinte centrifughe delle regioni dell’Ossezia e dell’Abcazia, non a caso fomentate e appoggiate dalla Russia, che non perde occasione per destabilizzare tutte le regioni e gli Stati dell’ex impero, nel tentativo di rimettere assieme i frammenti di un’esplosione.
Eravamo stati abituati a scuola a considerare l’Unione Sovietica come uno stato federale dove l’organizzazione in Stati era pura facciata di un potere monolitico, che non faceva differenze nel suo esercizio nel territorio russo propriamente detto o nelle Repubbliche baltiche, caucasiche o dell’Asia centrale, mentre dopo l’implosione dell’Unione Sovietica abbiamo scoperto quello che già esisteva ma covava sotto la cenere.
Viene da chiedersi perché la Russia non sia riuscita a mantenere la presa sulle altre quattordici Repubbliche sorelle (come ai tempi si chiamavano) alla stessa maniera in cui, ad esempio ancora oggi il Regno Unito è legato al Commonwealth e gli Stati anglofoni ancora riconoscono la monarchia britannica come capo di stato. Sarebbe stata immaginabile una simile soluzione per l’ex Unione Sovietica? La storia ha detto di no, perché la contiguità territoriale con la Russia avrebbe implicato ben più che un’influenza formale – come nel caso di Australia, Canada e Nuova Zelanda – e quell’influenza avrebbe significato perdita dell’indipendenza. Non a caso Putin ha fondato la sua carriera politica su questo: il ritorno alla vecchia sovranità transnazionale dell’Impero russo e lo ha fatto a partire da un minuscolo lembo di terra dimenticato: la Cecenia, schiacciata in ripetute guerre a monito di quello che sarebbe potuto accadere a chi si fosse opposto a violare l’integrità territoriale della Russia e in secondo ad avvertire le ex Repubbliche sorelle che l’esercito russo sarebbe sempre stato pronto all’intervento per fomentare o destabilizzare la loro sovranità, per annettersi parte dei loro territori, nel caso i loro interessi divergano da quelli di Mosca, che sono principalmente quelli di avere per vicini Stati fedeli e uniti con patti personali allo zar in carica al Cremlino.
Letteratura e Storia
Non è possibile parlare della letteratura russa senza fare riferimento alla pars magna che sovrasta i destini individuali e li forgia, ne determina i comportamenti. Se è vero che ogni storia individuale è immersa nella Storia dei popoli, delle nazioni, dei continenti, possiamo non sapere chi è il primo ministro in carica durante le vicende degli Uzeda, la famiglia il cui affresco di De Roberto compone I Vicerè, ma non possiamo prescindere dal fatto che Stalin e Beria, i due demoni burattinai del romanzo erano georgiani e che hanno influenzato per quasi un secolo le vite dei protagonisti di questa storia, così come quelle di milioni di altri.
Non possiamo prescindere dalla storia quando affrontiamo Guerra e Pace, anche perché Guerra e pace è anche un libro di storia oltre che di molto altro. Non possiamo non pensare che una storia fantastica come Il Maestro e Margherita di Bulgakov sia stata scritta negli anni dell’oppressione staliniana e che abbia circolato clandestina per anni.
Anche se è della Georgia che parliamo e non della Russia, non è possibile pensare alla storia di Nino Haratishwili senza accomunarla a quella grande della Russia e dell’Unione Sovietica, perché di questa ne è stata parte, al punto da esprimerne il suo leader più terribile, che tuttavia ne ha forgiato lo sviluppo e le cui conseguenze di stermini e deportazioni stanno pagando ancora oggi i popoli che vivono nei suoi confini. E tutto questo, la fedeltà cieca di Kostja all’impero che serve, per cui rischia la vita, le torture e mutilazioni di cui è cosparsa la narrazione sono parte di un potere soverchiante che influenza e determina le vite dei protagonisti nelle varie generazioni.
Una storia al femminile
Cos’ha da dirci Haratishwili in più su tutto quanto già ampiamente denunciato e condannato? I capitoli di questa saga sono tutti dedicati alle donne delle diverse generazioni della famiglia Jashi, con l’unica eccezione di Kostja, la cui presenza ostinata fa da contraltare alle vicende delle donne di famiglia, in cui l’autrice fa risaltare l’eroismo – si l’eroismo – della resistenza e dell’abnegazione, della forza di mandare avanti tutto a dispetto della storia. Le donne sono un ancoraggio all’umanità, gli uomini, come al solito, sono incomprensibili e questo è forse un limite di molta letteratura scritta da donne: quello cioè di rappresentare gli uomini come una galleria di ritratti di inetti, alcoolizzati, irresponsabili, criminali, insensibili, egoisti. In tutti questi aggettivi sono racchiusi i personaggi maschili de L’ottava vita: non se ne salva uno.
La novità è che autrici femminili riescono a raccontare storie femminili anche quando parlano di uomini, come nel meraviglioso e crudele Una vita come tante, di Hanya Yanagihara, oppure quando parlano di donne come nella quadrilogia de L’amica geniale di Elena Ferrante, o in quel romanzo straordinario che è L’arte della gioia, di Goliarda Sapienza, non a caso riscoperto (o scoperto) in questi anni.
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