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Leonardo Sciascia - Il Consiglio d'Egitto

Il Consiglio d’Egitto è la storia di una geniale impostura che ha fruttato al suo autore anni di vita agiata e l’ingresso nell’alta società palermitana alla fine del Settecento, una società apparentemente immobile nei suoi privilegi, mentre fuori spirano i venti dell’Illuminismo prima e della Rivoluzione Francese poi, senza che la Sicilia e Palermo, dove è ambientato il racconto, ne siano lambiti.
L’abate Giuseppe Vella, da povero pretonzolo che arrotonda la sua magra esistenza fornendo ai popolani l’interpretazione dei sogni tradotti in numeri del lotto, ha l’occasione della sua vita quando un ambasciatore del Marocco giunge fortunosamente a Palermo e si scopre che l’unica persona a conoscenza dell’arabo fosse proprio lui.
Dettaglio importante per il prosieguo della storia: il suo è l’arabo imbastardito parlato a Malta, la sua terra di origine. Comunque, fingendo di aver ricevuto da detto ambasciatore un volume preziosissimo risalente all’epoca della dominazione araba della Sicilia, ne imbastisce una finta scrittura in arabo e un’altrettanto finta traduzione, nella quale lascia trapelare che i sovrani musulmani avevano avocato alla corona la proprietà e la gestione delle terre siciliane.
Questo spiffero manda la buona società in subbuglio, perché ogni famiglia teme di vedersi spossessata dei diritti che detenevano sui loro feudi da centinaia d’anni. Ma anziché venire tacciato o soppresso, l’abate Vella viene blandito. Gli portano dolci, lo accolgono nella loro cerchia, ottiene una casa e infine una rendita dal re di Napoli, a cui aveva inviato la traduzione.

Camilleri ha iniziato dal Consiglio d’Egitto

Queste le premesse di una storia gustosa, tutta giocata sul filo dell’ironia, quel mezzo sorriso e mezzo sarcasmo in cui i siciliani e i palermitani sono maestri, prima di tutto a prendersi in giro da soli. E’ una canzonatura fatta in parti indissolubili di autocommiserazione, denuncia delle miserie umane, condite da ossessioni tipicamente siciliane: il sesso delle femmine, le corna, il terrore del disonore.
Senza Il Consiglio d’Egitto non esisterebbe buona parte della produzione di Camilleri. E’ come se la sua opera prendesse spunto da questo romanzo e lo svolgesse, ne aprisse i risvolti, dispiegandone tutte le possibilità presenti in nuce.
Così Camilleri lavora sul linguaggio siciliano, portandone la costruzione a livelli di irrisione crescente, fino al culmine del Birraio di Preston; lavora sui personaggi, trasformandoli in maschere da commedia dell’arte, così come fa Sciascia con il nobile e la nobildonna, il prelato, il popolano ignorante.
Sembra che Il Consiglio di Egitto contenga il suggerimento che ha portato Umberto Eco a concepire Il nome della rosa, e cioè quando il protagonista l’abate Vella accenna alla costruzione di un possibile falso dei diciassette libri mancanti delle Storie di Tito Livio, opera a cui rinuncia per il soverchio impegno che comporterebbe e soprattutto perché si troverebbe di fronte un’infinita platea di giudici pronti a sentenziare e smascherarlo.

Da un libro perduto arriva Il nome della rosa e da un impostore Il cimitero di Praga

Il nome della rosa è costruito – come sappiamo – attorno all’unica copia (che Eco finge esistente) del libro perduto del riso e della commedia, all’interno dei libri sulla Commedia di Aristotele. Lo sviluppo che Eco fa da uno spunto simile è tutt’altro rispetto al Consiglio d’Egitto, ma anche qui è contenuta l’idea di un libro perduto e ritrovato; un libro la cui divulgazione potrebbe sconvolgere le sorti del presente.
E l’idea tanto piacque ad Eco che su questo tema scrisse una seconda storia, questa volta ancor più pertinente rispetto al Consiglio d’Egitto. Parliamo de Il cimitero di Praga, il cui protagonista è anch’egli un falsario, un abietto individuo, spia e assassino, al soldo del miglior offerente per fabbricare falsi, in particolare contro gli ebrei.
Il cimitero di Praga è il racconto romanzato della genesi di un famoso falso storico: i Protocolli dei Savi Anziani di Sion, libello usato dagli antisemiti in tutta Europa per giustificare la persecuzione degli ebrei, perché, secondo i Protocolli che nelle intenzioni degli autori dovrebbe essere un finto documento fortunosamente recuperato da qualche segreta comunità ebraica, in cui viene esplicitata la dottrina che la razza ebraica è destinata a dominare il mondo. E’ un falso Wikileaks di fine Ottocento, pare fabbricato ad arte dai servizi di spionaggio dello zar.

La Sicilia sud orientale

Ma quello che più mi preme è cercare di capire il perché negli ultimi due secoli i più grandi scrittori siciliani – e gran parte dei grandi scrittori italiani – provengono tutti dalla Sicilia e dalla stessa parte orientale e meridionale.
Prendo i primi che vengono in mente:
– Giovanni Verga – nato a Vizzini, nella piana di Catania
– Luigi Capuana – nato a Mineo, nella piana di Catania
– Federico De Roberto – nato a Napoli, ma catanese dall’età di sei anni (e i Viceré è ambientato a Catania)
– Salvatore Quasimodo, nato a Modica (Ragusa)
– Luigi Pirandello – nato ad Agrigento
– Vitaliano Brancati – nato a Pachino (Ragusa) e maestro di Leonardo Sciascia
– Leonardo Sciascia – nato a Racalmuto (Agrigento)
– Elio Vittorini – nato a Siracusa
– Gesualdo Bufalino – nato a Comiso (Ragusa)
– Andrea Camilleri – nato a Porto Empedocle (Agrigento)
E’ impressionante e sarebbe interessante in una ricerca trovare i temi che accomunano questi scrittori e poeti, cosa li accomuna in gruppi e sottogruppi. O forse più che i temi, il tono.
E se si segnano con un puntino rosso su una carta geografica si ottiene lo spicchio sud est dell’isola, con una concentrazione sui due vertici di Catania ed Agrigento della base del triangolo rovesciato, porzione sud – est della Trinacria.  Quali sono le condizioni che hanno permesso la crescita di così tante menti acute, nell’arco di due secoli? La Sicilia nel frattempo era passata dal dominio feudale dei baroni, che abbiamo visto ne Il Consiglio di Egitto, attraverso il regno distante dei Borboni di Napoli, gli anni turbolenti del Regno d’Italia, fra brigantaggio, tasse e nascita dell’Onorata Società, il fascismo e il pugno di ferro del prefetto Mori (avversato dal garantista Sciascia assieme ai “professionisti dell’antimafia”), fino agli anni repubblicani, con l’ascesa e attuale declino del fenomeno mafioso.
Quindi le stagioni storiche si avvicendano ma in quell’angolo di terra continuano a nascere personalità fuori dal comune, come – nella musica – Battiato, i Denovo o Carmen Consoli.
Tolto Giuseppe Tomasi di Lampedusa, palermitano, tutti gli altri provengono da quell’angolo sud orientale di Sicilia interessato dal terremoto del 1693.
Quell’evento catastrofico fu una frattura, che determinò il crollo di quasi tutte le città e la loro ricostruzione, che si trasformò per i sopravvissuti in un’occasione di rilancio economico. Molti furono i fattori sociali che contribuirono a quella rinascita, a partire dal fatto che le tasse furono impiegate in loco e che i nobili stipularono con i contadini contratti di affitto delle loro terre, permettendone un miglior impiego e la creazione di eccedenze che alimentavano i mercati e i commerci.
Esisteva poi una borghesia cittadina, tutta legata alle confraternite religiose, che esprimeva interessi e produceva abbastanza eccedenze da finanziare la costruzione di chiese pagando i migliori architetti.
Da queste brevi e superficiali osservazioni emerge il quadro di una società dinamica, non certo in espansione, ma non quella statica imperniata sullo sfruttamento del latifondo feudale, forse ancora in voga nella capitale Palermo, almeno a quanto risulta dal racconto di Sciascia.

Palermo capitale

A Palermo vivono i nobili dell’isola, che godono delle rendite delle loro terre, mentre loro conducono una vita da disoccupati, fra granite, sorbetti, passeggiate al tramonto e orchestrine.
Il terremoto del 1693 decimò circa la metà della popolazione della Sicilia sud orientale, modificando il rapporto fra popolazione e risorse a vantaggio dei sopravvissuti.
Parliamo di una regione che era già ricca e appetita dai tempi dei Greci e dei cartaginesi, che aveva espresso geni come Archimede o Empedocle, che in epoca normanna aveva dato i natali ai due più grandi poeti della scuola siciliana: Jacopo da Lentini e Cielo d’Alcamo.
Quindi il perché proprio questa parte di Sicilia abbia espresso le menti migliori non solo dell’isola, ma di tutta l’Italia, è certamente intuibile da questi fattori, ma necessita di ricerche più approfondite, che dovrebbero mettere in luce la diffusione della cultura, la libertà e qualità dell’insegnamento.
Ma quello che Sciascia vuole mostrare con Il Consiglio d’Egitto è la vuotezza della vanità. L’abate Giuseppe Vella si innamora della sua opera, come a dire che si innamora di se stesso. Infatti non prova empatia per alcuno: non ha relazioni con donne (a differenza di tutti i prelati dell’epoca), non ha amici e nutre solo disprezzo per tutta l’umanità, tolto l’avvocato Di Blasi, che non è proprio suo amico, ma che è l’unico che non dispregia, per i suoi ideali repubblicani e democratici.
Sarà infatti proprio la vicenda dell’avvocato Di Blasi a chiudere la parabola de Il Consiglio d’Egitto, con una diversione verso il tragico della parabola che si presentava come parodia. Il cambio di protagonista però non spiazza più di tanto.

Vanità

Colpisce la vanità dell’azione. In un caso, con il falso di Vella ci si potrebbe aspettare – dopo la dimostrazione dell’infondatezza dei diritti feudali – il crollo di un’intera classe sociale, che non avviene. Questo perché i rapporti sociali non cambiano: da un lato c’è chi ha le terre e la forza e dall’altro chi è debole e non ha niente. Lo Stato non si serve della finta opera di Vella per mettere in un angolo la nobiltà, perché quella classe è il fondamento, fornisce il consenso su cui si regge il regno: Il Consiglio d’Egitto viene tenuto da parte, pronto per essere usato a rintuzzare pretese. Un deterrente per future alzate di testa.
Vella tutto questo lo sa; non vuole la rovina della nobiltà, perché è da questa che lui trae i suoi vantaggi più immediati. La rovina di Vella è la sua stessa vanità, il fatto di non poter sbandierare al mondo che il vero autore de Il Consiglio d’Egitto è lui. Lo farà fuori tempo massimo, dopo aver vinto i suoi detrattori e accusatori in un dibattito pubblico. Potrebbe tacere, ma non lo fa. Non sappiamo la sorte dell’abate Vella, offuscata dal supplizio di Di Blasi, ma sappiamo quanto il falsario si senta sollevato ad aver rivelato il suo inganno. E non per aver dato sollievo al rimorso, quanto perché finalmente tutti sanno che lui è il solo autore di quel falso, della cui fama si illude che sopravviverà dopo la sua morte.
Ma sarà tutto vano, lo sappiamo già, così come vana e abortita sarà l’insurrezione repubblicana e democratica tentata da Di Blasi, accecato dalle idee dei libri, degli illuministi, dei rivoluzionari francesi, della storia che si stava dispiegando attorno all’isola e a Palermo, senza lambirle. Dal pensiero all’effetto: qui si consuma tutta l’illusione degli uomini di lettere sia per chi non fa nulla, come l’abate Vella, sia per chi tenta di fare, come l’avvocato Di Blasi.

Cagliostro, Casanova, Barry Lyndon e Giuseppe Vella

Per entrambi è un percorso solitario, fatto di comunione con i poeti del passato per l’uno e di autocompiacimento per la propria opera truffaldina per l’altro. E in questa solitudine sta la vanità e il pessimismo. Che poi per passare per lucidi bisogna essere pessimisti e presentare personaggi negativi è la specialità della letteratura e dei critici italiani che la promuovono.
A tentare di dare un altro senso al Consiglio d’Egitto si può considerare il fatto che tutto quello che ha fatto l’abate Vella è stato di cercare di viver meglio, di migliorare la propria condizione. Se questo ha poi significato prendersi gioco degli altri e della società del suo tempo, i suoi atti diventano eversivi, come eversive potevano essere considerate le vite di altri italiani coevi, come il concittadino Giuseppe Balsamo o conte di Cagliostro, oppure Giacomo Casanova, gran seduttore e raggiratore di uomini e donne.
Sono tutti inseriti saldamente nella società del loro tempo; hanno abbastanza visione da capire quale maschera indossare in ogni occasione per rendersi inafferrabili.
Alla fine resta solo la superficie, rappresentata dal raggiro e – come il titolo di un film – sotto il vestito niente.
Ogni epoca ha i suoi figli e i ribelli nell’Europa del Lumi erano questi: Cagliostro, Casanova, Barry Lyndon, Giuseppe Vella. Sono loro le avanguardie e quelle che si troveranno peggio nell’epoca rivoluzionaria, come dandy stizziti dall’essere stati raggiunti e superati dalle masse, dal vedere popolani – che sarebbero rimasti sconosciuti e negletti in altre epoche – che compiono atti da loro nemmeno pensati: bruciare chiese, saccheggiare palazzi nobiliari, tagliare teste, sputare addosso alle vecchie autorità, irridere le vecchie mode.
Sciascia descrive l’inizio di una fuga e di uno slancio che l’Italia ha avuto poche volte nella sua storia: durante la Repubblica Romana, nella spedizione dei Mille, nella Resistenza.
Altri descriveranno quelle epoche; da Nievo a Vittorini al primo Calvino, soprattutto Pratolini e Fenoglio.
A ricondurre tutto ab ovo ci penserà un siciliano adottato, Federico De Roberto, con la storia della rapace famiglia degli Uzeda raccontata ne I viceré, che ha avuto nuova vita grazie al successo di un suo epigono, Giuseppe Tomasi di Lampedusa (l’unico nato e vissuto a ponente della linea di faglia del terremoto del 1693):, che fa agire i suoi protagonisti all’interno o contro il Risorgimento, salvando privilegi vecchi e creandone di nuovi, mantenendo il possesso della roba e dell’onore.