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Haruki Murakami - La fine del mondo e il paese delle meraviglie

La fine del mondo e il paese delle meraviglie è forse l’unico romanzo di Murakami ascrivibile al mondo distopico della fantascienza e a quello allucinato di Kafka. Intendiamoci: tutti i romanzi di Murakami sono kafkiani, al punto da giocarci su con il titolo di un altro suo libro (Kafka sulla spiaggia), perché tutti i suoi racconti introducono a dimensioni chiuse, buie e claustrofobiche. Le ossessioni di Murakami sono la sua cifra, il codice di riconoscimento delle sue opere: il passaggio a un’altra dimensione simile al reale ma non reale attraverso il buio: il passaggio può avvenire in un ascensore, in fondo a un pozzo, in un fiume sotterraneo con una cascata, come nel caso di questo romanzo.
Ne La fine del mondo e il paese delle meraviglie quello che cambia è il dato iniziale: nel mondo delle meraviglie il punto di partenza non è reale ed è questo che lo differenzia dalle altre storie di Murakami. Il punto di partenza è un mondo ipertecnologico ma poco definito, come conviene a ogni romanzo di fantascienza, in cui viene data una realtà, una dimensione, un pianeta o un astronave e all’interno di questa cornice spetta al lettore prendere per buono quello che incontra. Nei mondi di Dick ci sono i precog, ad esempio, in grado di leggere il futuro per evitare che qualcuno possa delinquere o nuocere. Sono un dato di realtà del romanzo, non viene spiegato come si formano, come scoprono di esserlo, perché sono una figura socialmente accettata e non considerati poco più che ciarlatani come nella nostra realtà.
Così i Cibermatici e i Semiotici del mondo delle meraviglie sono il punto di partenza più vicino al reale che non è reale e lo studio del professore, raggiunto attraverso la cascata sotterranea rappresenta il primo livello di irrealtà, intesa come una dimensione separata dalla precedente.
Murakami gioca su queste due dimensioni, alternando i capitoli ambientati nel paese delle meraviglie con quelli dentro la città chiusa della fine del mondo. La storia è raccontata in prima persona e in qualche modo si intuisce che il protagonista all’interno dei due mondi è lo stesso e che, attraverso accenni sapientemente calati lungo la narrazione, i due mondi non sono così separati, ma, in qualche modo, uno interno all’altro. Cioè con il proseguimento della lettura, dopo circa duecento pagine, viene il sospetto che la fine del mondo sia una realtà derivata dal paese delle meraviglie, oppure il contrario e cioè che le azioni dentro la fine del mondo influenzino la realtà del paese delle meraviglie.

La fine del mondo è una realtà chiusa

La fine del mondo è una realtà chiusa: il protagonista è intrappolato all’interno di una città dove gli uomini hanno perso la loro ombra e cioè il cuore, inteso come sede dei sentimenti e dell’empatia verso gli altri. Questo non significa che le persone siano monadi isolate, ma che sono incapaci di provare passioni, rabbia, odio o amore verso gli altri. Sono gentili, parlano con qualcuno: Murakami sceglie di far dialogare il protagonista solo con tre persone: la bibliotecaria (che ha una corrispondenza in uno stesso personaggio del paese delle meraviglie), il Guardiano e il Colonnello. Tutti e tre dicono cose sensate, ed è lo stesso Colonnello che spiega al protagonista come stanno le cose. Apparentemente non c’è nulla da nascondere e il dato che da quella città non si può uscire, che le mura attorno sono paurose e invalicabili sono dati di fatto, non c’è alcun mistero, se non che tutti gli abitanti hanno perso la memoria e non riescono a risalire alla loro vita precedente.
La fine del mondo è una specie di purgatorio, dove già però si è immortali, se non si contravviene alle regole. Le ombre, staccate dai corpi, a poco a poco muoiono, dopo aver svolto lavori da schiavi per il Guardiano. Assomiglia in spirito alla città degli immortali di Borges, con la differenza che al caos perpetrato dagli esseri superintelligenti ridottisi alla brutalità della favola borgesiana, si contrappongono esseri subnormali, che vivono in un mondo ordinato e spento. Si potrebbe definire un mondo entropizzato, cioè quello in cui, come la diminuzione degli estremi di temperatura nell’universo porta a insiemi ordinati ma privi di energia, così la diminuzione delle differenze e l’annullamento delle passioni porta a una realtà rassegnata e apatica. Colpisce in questo la passività del protagonista, che in entrambi i mondi subisce gli eventi così come le violenze ai suoi danni. E’ questo un tratto abbastanza simile agli altri romanzi di Murakami, in cui i personaggi sembrano rifuggere da ogni volontarietà. Sono gli eventi e gli altri a trasportare i protagonisti, la cui unica capacità sembra essere quella di non morire, di piegarsi ma non spezzarsi, per arrivare alla fine del viaggio cambiati, in un mondo cambiato grazie alla loro passività. In genere la non reazione dei personaggi trascina le loro vite in un imbuto, dove la concatenazione di eventi negativi porta a situazioni crescentemente insopportabili.

Il lettore senza empatia

Ma la cosa che colpisce è che, nonostante l’empatia che Murakami ci fa provare nei confronti dei suoi protagonisti, non ci troviamo a soffrire con loro, restiamo spettatori, grazie all’uso di una prosa distaccata e a un continuo rimescolamento di prospettive, dove la descrizione fredda di ambienti e dialoghi superficiali sviano dall’azione, in qualche modo addormentano la tensione. In questo facilitano il distacco del lettore, che osserva le vicende e le parole dei personaggi con la sicurezza che tutto quello che accade è così distante che non potrà accadere a lui.
Però Murakami colpisce e va a fondo in un secondo livello, e scava. Ed è questo che rende le storie di Murakami devastanti. E’ per questo motivo che riesce a creare un suo universo inimitabile, dove ognuno ci trova Kafka, Borges, l’atteggiamento giapponese, buddista o zen verso il mondo, la relativizzazione del male e del bene, l’esaltazione dell’antieroe, in Murakami sempre l’uomo comune e privo di qualità particolari o interessi. Oppure, come il protagonista nel paese delle meraviglie, definito solo dalla sua professione.
E’ un uomo solo e ne ignoriamo il nome. Il suo ideale è fare abbastanza soldi in pochi anni grazie al suo lavoro ben pagato di informatico, ma sui generis, cioè un informatico in grado di manipolare i dati con la mente, in questo simile all’indimenticato Case, il protagonista di Neuromante di William Gibson.
Non è un caso che i due romanzi siano coevi, ma è Neuromante il primo ad aver visto la luce nel 1984, seguito dal romanzo di Murakami l’anno successivo. E’ suggestivo vedere come in quel periodo l’avvento di Internet venisse idealizzato e gli artisti preveggenti collegassero la comunicazione iperveloce con la telepatia e la connessione uomo – macchina attraverso la mente.
E’ un atteggiamento che trasmette spavento e speranza al tempo stesso. Spavento per un mondo in cui il controllo viene esercitato dalle macchine, dalle multinazionali, dal Sistema (in M.), e speranza attraverso l’uso della mente umana in simbiosi con la macchina, che permette all’uomo di esercitare ancora un controllo attraverso la manipolazione dei dati. E’ una visione romantica, del tutto cancellata dalla realtà come si è andata affermando, in cui la connettività e l’hardware fatto di cablaggi sempre più veloci, di enormi magazzini costruiti nel nulla per custodire i dati generati da tutta l’umanità.
Dati che parlano ai pochi in grado di comprarli e che determinano azioni, investimenti e contraccolpi in grado di cambiare la vita delle persone al di fuori del loro controllo.

Il futuro vero è molto più materiale e prosaico, meno magico e affascinante di quello immaginato nelle distopie delle avanguardie.

Dei due mondi con cui la storia avanza specularmente, la fine del mondo è la parte più murakamiana, cioè la descrizione di una condizione di insensibilità, anestesia alla realtà e al mondo circostante. E’ anche la parte più difficile da portare avanti, narrativamente parlando. Nella città della fine del mondo succedono poche cose, si incontrano poche persone e a volte sembra che la storia giri a vuoto, cioè che debba reggere il ritmo della storia del paese delle meraviglie, che ha una trama da thriller più serrato, ma senza aver nulla da proporre, ma fare solo da contraltare, nell’attesa che la realtà del paese delle meraviglie si sviluppi e i due livelli alla fine si intreccino. Perché quello che M. ci fa intuire dopo i primi capitoli è che i due mondi non siano in realtà così separati, ma che le azioni dell’uno ricadano sull’altro, in un gioco di rimandi.
Quello che colpisce nella narrazione del paese delle meraviglie è il continuo ricorso al buio, al passaggio attraverso gallerie, cunicoli, grotte, abitate da esseri oscuri e minacciosi, subumani, semiumani, adattati all’oscurità che divorano gli uomini. E’ la paura dell’invisibile (si chiamano così, infatti) di un nemico oscuro e inconoscibile, che non ha motivi per essere tale, ma la cui esistenza getta nel panico il protagonista. Non si vedono, gli Invisibili, e non si vedranno durante tutta la narrazione. Non ci sarà una battaglia finale con gli Invisibili, né con i Semiotici. Non ci sarà la prevalenza del Sistema. Sono tutti simulacri di un mondo interiore attraverso cui si sposta il protagonista, saltando da un mondo all’altro.
Il passaggio da un mondo all’altro avviene sempre in luoghi oscuri.

I luoghi oscuri

Ecco quanto ha detto M. in un’intervista al New Yorker a questo proposito:

D. – L’altra parte di solito è un luogo oscuro?
M. – Non necessariamente. Penso che abbia più a che fare con la curiosità. Se c’è una porta e la puoi aprire e puoi entrare in quel luogo, allora lo fai. E’ solo curiosità. Cosa c’è là dentro? Cosa c’è oltre? Questo è quello che faccio tutti i giorni. Quando scrivo un romanzo, mi sveglio intorno alle quattro del mattino, vado alla scrivania e inizio a lavorare. Questo accade nel mondo reale. Bevo un vero caffè. Ma, una volta che ho iniziato a scrivere, vado da qualche altra parte. Apro la porta, entro dentro e vedo cosa sta succedendo. Non so – o non mi interessa (sapere) – se è un mondo reale o irreale. Quando mi concentro sulla scrittura vado sempre più in profondità, in una specie di sotterraneo. Mentre sono là, incontro cose strane. Ma mentre le guardo, ai miei occhi, sembrano naturali. E se laggiù c’è buio, allora il buio raggiunge anche me e può darsi che ci sia un messaggio, che cerco di afferrare. Così mi guardo attorno e descrivo quello che vedo, poi torno indietro. Se non puoi tornare indietro, allora diventa pauroso. Ma sono un professionista, così torno indietro.

In queste parole penso ci sia l’essenza della sua scrittura. In La fine del mondo e il paese delle meraviglie c’è il tentativo di teorizzazione della conoscenza, attraverso l’analisi che fa il Professore fra la coscienza diciamo esperienziale, cioè legata agli eventi e alle reazioni diverse che abbiamo agli eventi nel tempo e la coscienza potremmo dire eterna, quella che non cambia, che custodisce i valori di fondo. In questo esperimento il Professore riesce a scindere queste due coscienze e a conservare quella eterna in un luogo esterno al cervello, e sottoponendola a visualizzazioni ripetute attraverso il computer riesce a isolare alcuni fattori, quelli che messi assieme forniscono l’immagine della coscienza.
Sarebbe curioso sapere se queste idee M. le ha trovate da qualche parte oppure siano sue. Oppure se, oggi, ci sia qualcuno che si occupi di verificarle. Se ci sia stata costruita una teoria. Certo è che la visualizzazione della coscienza e dei sogni non può che rimandare a un’opera successiva, e cioè Fino alla fine del mondo, di Wim Wenders, dove i protagonisti finiscono prigionieri come monadi, a fissare i propri sogni nei dispositivi che riescono a leggerne il mondo onirico.
Nel film, come spesso accade nella realtà, le innovazioni hanno bisogno di una giustificazione morale per essere accettate. Così nella storia di Wenders quei dispositivi così tanto simili a telefonini o tablet (il film è del 1991) vengono inventati per consentire alla madre cieca del protagonista (rispettivamente Jeanne Moreau e William Hurt) di innestare i ricordi registrati dal figlio durante il suo giro del mondo. Dall’uso di questa invenzione si scopre che è possibile registrare non solo i ricordi, ma pure i sogni e questo getta i protagonisti in possesso delle macchine in un loop autoreferenziale, che li porta a lasciarsi morire, privati di sonno e cibo, di cui non hanno più bisogno perché la mente è diventa dipendente dai propri sogni.
I sogni e i ricordi: la droga più potente che il nostro cervello somministra, il cui flusso è gestito da filtri e barriere, per impedire che dilaghino e condannino l’uomo alla morte per autoreferenzialità. Non è vero che bastiamo a noi stessi. A parte il fatto che sarebbe davvero noioso, ma il protagonista senza nome del romanzo, nel momento di maggior pericolo, desidera cose comuni: alzarsi al mattino, prendere un caffè, leggere un giornale al bar per capire cosa sta succedendo al mondo. Insomma, prendere contatto con la realtà e gli altri.

La realtà virtuale

E’ curioso che nell’epoca in cui la rete è nata si parlasse di realtà virtuale e il problema fosse quello di ridursi a un muto dialogo uomo-macchina, dove la macchina veniva usata come rimando di noi stessi. A pensarci ora, nella rete è successo l’opposto. La dipendenza non è da noi stessi, se non per l’esibizione della nostra immagine nei nostri profili, ma dagli altri. La molla che spinge a non staccarci è sapere cosa stanno dicendo gli altri, anche quando ci rendiamo conto che, in quasi tutti i casi, stiamo solo perdendo tempo e le frasi, battute, faccine, video o immagini non sono che un surrogato dell’umorismo, della profondità di un dialogo vero fra persone in carne ed ossa. In due parole, sono inquinamento e perdita di tempo.
A leggere o guardare le opere di quei tempi, del decennio 85/95 del secolo scorso, non riesco a decidere se tenere da parte quelle intuizioni nell’armadio dei bei ricordi e considerarli come deliziosi anacronismi, oppure rendere attuali, considerarle moniti cui dare ascolto. Ci sono elementi in comune con quello che sta avvenendo, come la necessità del controllo.
In queste opere come nella più recente Il Cerchio di Dave Eggers, viene confermata l’intuizione espressa da Michel Foucault in Sorvegliare e punire e cioè che l’aumento dei meccanismi di coercizione fa da contrappeso e svuota l’affermazione delle libertà democratiche.
Pensiamo a come è avanzata la società negli ultimi quarant’anni. In poco tempo il mondo occidentale ha normalizzato – cioè accettato e inserito nella norma intesa sia come legge che come vissuto quotidiano – il divorzio, l’aborto, l’obiezione di coscienza, le manifestazioni di piazza, gli scioperi, le provocazioni socio culturali come il fenomeno del punk, l’omosessualità. Ha piantato steccati e costruito barriere su pedofilia, immigrazione, narcotraffico e terrorismo islamico. Questi sono i nuovi confini, oltre i quali si entra nell’illegalità o si scatenano i conflitti.
Quindi l’idea del controllo nasce con gli intenti moralmente accettati di prevenire fenomeni disgregativi o violenti, ma si estende – ed è stato accettato con facilità – a tutta la società. Controllo che svuota di senso le conquiste sociali. Tu hai il diritto di proclamare di essere omosessuale, transgender, queer – anzi, lo devi rendere noto. Però sappi che chiunque ti può trovare in qualsiasi momento. Per cui gli spazi dove puoi esercitare la tua sessualità sono le camere di casa tua, ma con le tapparelle abbassate, lontano dalle finestre, dove potresti essere ripreso.
Il risultato è che chiunque, di qualsiasi razza, tribù o genere andrà in ufficio al mattino vestito con gli abiti accettati. Chiunque dovrà avere il volto scoperto per essere visto dalle telecamere e identificato dai software di riconoscimento facciale. Chiunque dovrà pagare a tempo le tasse, le bollette, le rate di condominio, il mutuo perché ogni devianza ha la sua immediata sanzione. Chiunque dovrà guidare nei limiti, non bere prima di guidare, non fumare in nessun luogo pubblico.
Questa è la rete di controlli a cui siamo soggetti, del tutto sconosciuta ai tempi in cui M. scrisse La fine del mondo e il paese delle meraviglie, o fu girato Fino alla fine del mondo (curiosa l’uguaglianza dei due titoli; davvero Wim Wenders ha un grande debito con Murakami). Ma il controllo psichico nel romanzo di M. e la rintracciabilità delle persone nel film di Wenders sono entrambe presenti.

La fine del mondo e il paese delle meraviglie è una storia di disgregazione psichica e del suo tentativo di ricomporla

Ho paura di capire che la fine del romanzo di M. sarà un ritorno al cuore, alla terra, intesa come completezza del se. Perché La fine del mondo e il paese delle meraviglie è una storia di disgregazione psichica e del suo tentativo di ricomporla. Può anche darsi che tutti gli altri romanzi di M. riguardino questo tema, perché i suoi personaggi deragliano facilmente, tendono a scivolare in mondi paralleli e da quei mondi riescono a influire sull’andamento del nostro.
Rispetto alle altre storie di M., La fine del mondo e il paese delle meraviglie è come mettere la puntina a metà del disco, come se fosse stata tagliata la prima parte e vedessimo già il protagonista all’interno di un altrove e da questo mondo altamente simbolico e dinamico (non ci sono nomi propri, tutti i protagonisti sono identificati dalla loro funzione e scritti in maiuscolo) si passa a un’altra dimensione, ugualmente simbolica, ma statica. E’ la fine del mondo. Il protagonista senza nome scrive in prima persona, in ambedue le realtà. E’ una persona definita dal suo lavoro, potremmo definirlo un informatico psichico, ovvero che lavora con i dati attraverso l’uso della mente.
La sua professione lo porta all’isolamento. Non sappiamo nulla di amicizie, genitori, famiglia. All’inizio ci dice che è stato sposato, qualche anno prima, ma della moglie non sappiamo nulla. Da solitario è un consumatore di sesso occasionale, con prostitute, e un discreto bevitore, specialmente di whisky e di birra. Queste sono le poche notizie che abbiamo di lui, tutto il resto lo conosciamo attraverso lo sviluppo della storia.
La capacità di M è quella di descrivere come si sente il protagonista attraverso le persone che incontra e la successione degli eventi. Come nelle storie meglio riuscite, è il protagonista che racconta la storia, non l’autore che inventa, ma lo scrittore che trascrive una storia al cui interno il personaggio è autonomo. E’ il solo modo di far funzionare la narrazione, quello di far raccontare ai personaggi. Bisogna diffidare di qualunque autore dica di aver progettato con cura il proprio testo, perché il prodotto sarà un falso e i protagonisti degli impostori.
Lo spiega bene M, durante la stessa intervista rilasciata al New Yorker online il 10 febbraio 2019 a Deborah Treisman:

M – Molti scrittori scrivono cose minori e superficiali in uno stile difficile e complicato. Quello che voglio fare è scrivere di cose serie, complicate e difficili in uno stile facile da leggere e da comprendere. Per scrivere di cose difficili, bisogna scavare sempre più in profondità. Nei miei quarant’anni di scrittura ho trovato una tecnica per questo. E’ come una tecnica fisica, non intellettuale. Penso che se sei un narratore e sei troppo intelligente, non puoi scrivere. Ma anche se sei stupido non puoi scrivere. Devi trovare una posizione nel mezzo e questo è difficile.

Più avanti aggiunge:

M. – Una volta che ho creato un personaggio, lui o lei si muove automaticamente e tutto quello che devo fare è guardarlo muoversi, parlare e fare cose. Sono uno scrittore e sto scrivendo, ma nello stesso tempo mi sento come se stessi leggendo un libro coinvolgente, interessante. Ed è così che mi diverto a scrivere.

Questo spiega quanto M. voleva dire prima a proposito dello scrittore che non dev’essere troppo intelligente o troppo stupido. Se fosse troppo intelligente, sarebbe il primo a non credere alla situazione e al personaggio che ha inventato. Diventerebbe ipercritico fino alla paralisi. Se fosse stupido sarebbe convinto che il modo migliore per scrivere una storia sia quello di progettarla a tavolino e il risultato sarà un falso e il lettore lo riconoscerà, pensando: come può essere così scemo questo da pensare che io possa credere a quello che scrive? Lo stupido penserà di essere nel giusto e non si correggerà.
Come aveva detto Rebecca West a proposito di Henri Miller in una lettera a un’amica, l’autore diventa un impostore. Non è il caso di Murakami; lui ha sviluppato un meccanismo, un clic che scatta ogni volta che, alle quattro del mattino, si siede alla scrivania, nel buio, e comincia a scrivere.