Marta Barone - La città sommersa
La città sommersa del titolo è Torino, negli anni in cui ancora era la capitale industriale del paese, l’ultima capitale industriale, l’ultima città in cui una sola Fabbrica (in maiuscolo come nel libro) aveva sostituito l’ultima dinastia regnante. E’ un romanzo autobiografico, nel senso di una ricerca di se e su di se, un modo di raccontare se stessi attraverso la vita di un altro, una persona importante e difficile, il padre dell’autrice. E parlare di Leonardo Barone significa attraversare gli anni Settanta, decennio in cui L.B. vive le sue trasformazioni più importanti. Sono anni tumultuosi, con cambi di città, di case, di compagne, il tutto inserito nella vita di un militante della sinistra extraparlamentare. Quella sinistra, per intenderci, che per radicalità di posizioni finirà per diventare la miglior leva per generare una reazione uguale e contraria, attraverso gli anni del riflusso e del ritorno di valori tipici di una società conservatrice.
Ovvero l’importanza della famiglia, dei soldi, del lavoro, nel senso di conservazione di tutto questo e di accumulazione del denaro. Una volta che le priorità sono state ribaltate i valori del decennio precedente vengono irrisi, saranno subito percepiti come antichi, impossibili, naif. Parliamo di rivoluzione (e dopo? chiede Marta Barone), uguaglianza, libero amore in libera coppia e lavoro per la propria autorealizzazione che è la cosa più importante, per cui il lavoro sarà infine una semplice scelta, non un valore in se. E tutto questo implica una relativizzazione dell’importanza del denaro, la cui scarsità poteva essere compensata dalla vita in comune. Quegli anni di esperimenti sociali sono alle spalle e formazioni politiche come il famoso Partito Comunista Italiano Marxista-Leninista sembrano il frutto estremo di una stagione e la cui dissoluzione risulta la testimonianza dell’impossibilità di vivere gli ideali o seguire le regole del fondatore Aldo Brandirali, la cui parabola è esemplificativa di un’epoca.
E’ significativo come, in ogni setta, siano le persone più intelligenti e dotate quelle che più si autoimmolano
E’ significativo come, in ogni setta, siano le persone più intelligenti e dotate quelle che più si autoimmolano per il bene futuro e per la figura carismatica del leader, oppure del guru, o del predicatore. Perché di questo si tratta, di mortificazione di se e delle proprie aspirazioni in favore di un astratto e futuro bene comune, in questo caso di una rivoluzione che – ci avverte l’autrice – sarebbe dovuta arrivare entro sette anni (sette e non più sette; settanta volte sette; che Brandirali usasse già metafore evangeliche prima della conversione?). E automortificazione voleva dire, per chi possedeva beni materiali, vendere la propria eredità (ad esempio la casa in cui si viveva) e donare tutto al partito. Per chi ricco non era, come nel caso di L.B., si trattava di rinunciare a una carriera come quella di medico per cui aveva studiato e stava per laurearsi (doveva solo scrivere la tesi), per andare a vivere assieme al popolo, farsi assumere come operaio, trasferirsi da Roma a Torino, la capitale dell’industria, il cuore della classe operaia.
Ma la città sommersa è in realtà la metafora della vita di L.B. così come percepita da sua figlia, prendendo spunto da una leggenda sulla città di Kertez, vicino a Nizhny Novgorod, nel nord della Russia, inabissatasi nelle acque di un lago per non cadere conquistata dai Tatari. Prima della sua fine, Marta Barone non conosceva suo padre, non sapeva nulla del suo passato, come spesso accade nei rapporti genitori-figli. Anche i genitori sono stati giovani e anche loro hanno avuto relazioni, incontri, amicizie che sono rimaste più o meno sedimentate. Quello che Marta contestava a suo padre era di essere rimasto a compartimenti stagni, per cui tutto quello che gli era successo prima dell’incontro con sua madre era sempre stato messo da parte, oppure appena accennato qualche volta, senza davvero approfondire o raccontare le cose come erano successe. E questo non per volontà deliberata, ma perché aveva voluto proteggere sua figlia dai macigni e dai traumi da lui vissuti, che lo avevano visto coinvolto in maniera pesante in un fatto di cronaca nera.
E’ questo, infine, il nocciolo centrale del racconto e l’origine di una sua chiusura, di una cesura nella sua vita, che dopo quell’evento delittuoso non sarà più lo stesso.
Un fatto di cronaca nera
Marta Barone è brava a tenere il lettore sulle spine, a girare attorno a questo fatto e a raccontarcelo compiutamente solo a metà libro. E’ un fatto in cui la storia dell’epoca si intreccia con le storie personali e tutti ne escono vittime, anche chi come L.B. è sopravvissuto agli eventi, di cui non riuscirà mai a liberarsi dal senso di colpa. Ma quel delitto è simbolico: un vecchio militante, di venti/trent’anni più vecchio degli altri, militanti del Pcim-l, una figura simbolo del partito, esaltato dal leader Brandirali come un esempio di rivoluzionario duro e puro si macchia di omicidio e tentato omicidio con infierimento sui corpi.
Risultato di quella notte è una donna, giovane madre del figlio suo e del vecchio minatore sardo che aveva abbandonato per violenze con matrimonio organizzato dal partito e risolto dallo stesso partito con l’allontanamento del padre. Il padre che chiede di rivedere il figlio arriva a Torino e la madre chiede a due compagni (uno è L.B.) di stare assieme a lei e di dormire in casa sua per paura di quell’uomo. Nella notte l’uomo – che dormiva in una pensione – riesce a entrare in casa e prende la donna a coltellate. Infierisce sugli arti e su punti non vitali, ma non riesce a ucciderla. La donna urla e dall’altra stanza arrivano i due compagni. Il primo si scaglia sull’uomo, ma quello si gira e lo pugnala al cuore. L.B. guarda impietrito la scena e scappa a cercare aiuto. Corre solo, in pigiama, nella notte, sporco di sangue e va in casa di due compagni e chiamano la polizia.
La polizia troverà il minatore ancora sul luogo del delitto (si voleva far catturare) e prenderà ventotto anni. La donna riesce a sopravvivere, il ragazzo corso a difenderla muore poco dopo la pugnalata e L.B. sopravvive ma non si darà pace perché per tutta la vita si era tormentato per non essere intervenuto, perché l’istinto di sopravvivenza aveva vinto l’altruismo e il coraggio, anche se intervenire avrebbe significato la morte.
La dissoluzione di un partito extraparlamentare
Oltre ai traumi personali di ognuno, questo delitto orrendo vale come perfetta metafora della dissoluzione di un gruppo organizzato di persone, un partito che non riusciva a far combaciare il programma con l’idea. Un partito che voleva la rivoluzione senza sapere che fare dopo e agli operai, alle masse, il dopo e il prima interessavano eccome, ma su quello non veniva detto nulla e intanto per arrivare al momento catartico (la rivolta degli oppressi, le rivoluzione!) il partito si strutturava per controllare sia l’attività che l’intimità dei suoi iscritti. Il partito combinava matrimoni, il partito imponeva di lasciare gli studi per proletarizzarsi, il partito imponeva di scopare solo nella posizione canonica uomo sopra – donna sotto, perché qualunque altra concessione alla fantasia diventava simbolo di mollezza borghese e soprattutto il partito processava i suoi quadri, alla perenne ricerca di un capro espiatorio che per qualche ragione doveva uscire dalle riunioni.
Non stupisce che, pieno di queste pulsioni all’autodistruzione, di questo anelito alla non vita, al controllo totale, all’assolutezza, lo stesso partito si fosse dissolto a pochi anni dalla sua fondazione. Qualcuno, racconta Marta Barone, era davvero scappato nel cuore della notte, dopo l’ennesima nauseante riunione. E i fatti del delitto di via degli Artisti a Torino ben rappresentano la metafora di Saturno che divora i suoi figli e i figli che scappano via, lontano da chi li vuole morti e che li ricatta con la trappola dell’amore filiale. E per restare in quel mito, saranno i figli a uccidere il padre per non soccombere. In questo caso l’uccisione del padre è un processo doloroso, perché il Pcim-l si autoscioglie nel 1974, ma c’è chi, come L.B. da quell’esperienza esce con gli stessi bisogni che aveva prima, maggiormente acuiti dopo il delitto: quelli di aiutare gli altri, organizzarsi per ottenere cose fondamentali come la casa, la sicurezza sul lavoro, per portare pasti decenti ai detenuti, per battersi contro la repressione nelle carceri e fuori, per le strade dove il controllo dello Stato si era fatto opprimente e gli arresti arbitrari e le carcerazioni preventive venivano usati come armi per decapitare i movimenti di protesta.
Ma quello che accade è che, a cavallo fra anni Settanta e Ottanta, per molti la lotta armata diventa l’unica soluzione, ma si tratta di frange e bande sganciate con il movimento, in gran parte contro l’uso della violenza. Si genererà una spirale di autoreferenzialità, già ben delineata da Rossana Rossanda a proposito delle BR, per cui le rivendicazioni non sono un invito alla sollevazione delle masse, alla rivoluzione, ma a liberare i compagni in carcere. Allo stesso modo le pratiche di Prima Linea, il gruppo di cui L.B. è accusato di far parte e per questo condannato ingiustamente, ben presto degenerano nella violenza per la violenza.
L.B. fa vedere a sua figlia il luogo dove due guardie giurate erano state uccise, al solo scopo di far trovare sopra i loro cadaveri un biglietto di minaccia al vero destinatario, un pentito o presunto tale che doveva morire secondo Prima Linea. Due cadaveri di sconosciuti, usati solo per un biglietto. E’ questo che fa notare L.B. a sua figlia e in quelle poche parole si percepisce la distanza della sua vita, dei suoi valori, dalle pratiche di fanatismo e violenza in cui la lotta armata era degenerata.
L’Italia di quegli anni era un paese che ancora credeva al futuro, ma devastato da un decennio di bombe, stragi di Stato, attentati, rapimenti, estorsioni e omicidi politici. Come fa notare Malcolm Gladwell in The Tipping Point e – più vicino e puntuale alla nostra storia – Paolo Morando in Dancing Days, ci sono momenti limite nei processi storici, momenti in cui non è più possibile andare oltre, in cui qualunque pulsione all’anarchia si rivela inutile e insensata (la violenza di strada e il degrado di New York dei Settanta, la violenza politica in Italia nello stesso periodo). Nel nostro paese, fa notare Paolo Morando, il momento viene creato attraverso una sapiente manipolazione dei media da parte dei grandi gruppi editoriali. Non è proprio un complotto, ma gli anni del riflusso nascono assieme alla diffusione delle discoteche e della musica dance, abilmente propagata da giornali, riviste e radio. Si sposta l’attenzione, si creano nuovi punti di interesse, si parla solo di una cosa, ossessivamente, si inventano fenomeni, un po’ come ha fatto Salvini con l’immigrazione.
Una vita contro
L.B. come molti di quelli che hanno attraversato il periodo, hanno fatto il salto e sono stati catapultati a loro insaputa nella società dello spettacolo. E’ stato questo, ritengo, il vero salto. La spinta verso l’edonismo individuale contro la solidarietà, il cinismo contro il senso civico, la violenza insita nella potenza di fuoco dei media, andata sempre più aumentando con l’avvento di internet e dei social media, contro la violenza vera, da cui siamo castrati con le maglie del politicamente corretto. Non possiamo più permetterci di fare film come Delitto al ristorante cinese o Delitto al Blu Gay, lavori che oggi sono accettati solo per essere considerati vintage, innocui oggetti d’arredamento, soprammobili, vecchi quadri che non danno più emozioni, tantomeno il riso.
E nelle diverse reazioni nostre o dei nostri figli a film di quegli anni, come Fantozzi ad esempio, che ritraggono un mondo che non è più, che si misura la distanza antropologica e il razzismo delle giovani generazioni verso le vecchie, perché rifiutano di vedere e sentire quello che un tempo sentivano gli attuali cinquantenni.
Oggi L.B. sarebbe un sessanta/settantenne che probabilmente andrebbe a fare il volontario nelle ambulanze o farebbe il vigile alle strisce pedonali per i bambini fuori da scuola, sarebbe uno che non si perde un raduno dell’ANPI e forse anche degli alpini. Sicuramente farebbe con coscienza la raccolta differenziata e accompagnerebbe i nipoti ai vari impegni che riempiono la vita senza lasciare spazi per se: calcio, danza, ripetizioni, lezioni di chitarra, nuoto eccetera. Ma non sarebbe per niente pacificato, dentro di se avrebbe sempre quella lava sotterranea e incandescente che ruggisce e si manifesterebbe in uno sguardo, un tic, un certo modo di alzare la testa quando qualcosa non va, quando ci fosse un’ingiustizia. Sarebbe consapevole di vivere in un mondo fondato sulla diseguaglianza e quindi l’ingiustizia, ma non si rassegnerà mai ad accettarla.
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