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Julio Cortazar - Rayuela. Il gioco del mondo

In un famoso racconto di Borges, L’immortale, il console romano Flaminio Rufo arriva dopo peripezie e avventure alla città degli Immortali e al di fuori di essa trova uno strano gruppo di umani apparentemente ebeti:

Vidi mura, archi, frontoni e fori: la base era un altipiano di pietra. Un centinaio di nicchie irregolari, uguali alla mia, foravano la montagna e la valle. Nell’arena erano pozzi di poca profondità; da quelle misere buche, e dalle nicchie, emergevano uomini dalla pelle grigia, dalla barba negletta, ignudi. Credetti di riconoscerli; appartenevano alla stirpe bestiale dei trogloditi, che infestano le rive del Golfo Arabico e le grotte d’Etiopia; non mi meravigliò che non parlassero e che mangiassero serpenti.

Dopo aver trascorso anni a trovare l’entrata attraverso un labirinto, scopre una città vuota e senza senso, che ricorda le geometrie impossibili di Escher:

Cautamente al principio, poi con indifferenza, infine con disperazione, errai per scale e pavimenti dell’inestricabile palazzo. (In seguito comprovai che l’estensione e l’altezza dei gradini erano incostanti, fatto che spiegava la singolare stanchezza che mi produssero.) Questo palazzo è opera degli dèi, pensai in un primo momento. Esplorai gl’inabitati recinti e corressi: Gli dèi che lo edificarono son morti. Notai le sue stranezze e dissi: Gli dèi che l’edificarono erano pazzi(…) Nel palazzo che imperfettamente esplorai, l’architettura mancava di ogni fine. Abbondavano il corridoio senza sbocco, l’alta finestra irraggiungibile, la vistosa porta che s’apriva su una cella o su un pozzo, le incredibili scale rovesciate, coi gradini e la balaustra all’ingiù. Altre aereamente aderenti al fianco d’un muro monumentale, morivano senza giungere ad alcun luogo, dopo due o tre giri, nelle tenebre superiori delle cupole.(…) Questa Città (pensai) è cosí orribile che il suo solo esistere e perdurare, sia pure al centro di un deserto segreto, contamina il passato e il futuro e in qualche modo coinvolge gli astri. Finché durerà, nessuno al mondo potrà essere prode o felice.

Dopo aver esplorato quella città disabitata e senza senso e impiegato altri anni per uscire da quelle mura attraverso lo stesso labirinto, il protagonista finalmente capisce:

Tutto mi fu chiarito, quel giorno. I trogloditi erano gl’Immortali; il fiumiciattolo dalle acque sabbiose, il Fiume che cercava il cavaliere. Quanto alla città la cui fama era giunta fino al Gange, da nove secoli gl’Immortali l’avevano rasa al suolo. Coi suoi resti avevano eretto, nello stesso luogo, l’insensata città che avevo percorsa; sorta di parodia o d’inverso e anche tempio degli dèi irrazionali che governano il mondo e dei quali nulla sappiamo, se non che non somigliano all’uomo. Quella fondazione fu l’ultimo simbolo cui accondiscesero gl’Immortali; essa segna una tappa nella quale, giudicando vana ogni impresa, essi stabilirono di vivere nel pensiero, nella pura speculazione. Eressero la fabbrica, la dimenticarono e andarono ad abitare nelle grotte. Assorti, non avvertivano quasi il mondo fisico.

Rayuela

Questa lunga introduzione spiega bene il senso di un’opera come Rayuela e forse potrebbe indicare la fonte nascosta di Cortazar: il suo romanzo potrebbe essere il tentativo di fare una versione di 579 pagine (edizioni Einaudi) dello stesso tema affrontato dal suo conterraneo Borges quasi vent’anni prima. L’Immortale è del 1949, la prima edizione di Rayuela è del 1963.
Gli Immortali avevano prima costruito una città perfetta e poi per noia l’avevano demolita per decostruirla, assemblando i pezzi a caso, sfidando la statica, la geometria, la funzionalità e la comprensione. Così, in quello che all’epoca si definiva antiromanzo, Cortazar smonta la trama, confonde i pensieri dei personaggi, ricostruisce dialoghi inframmezzati da flussi di coscienza in cui a volte è impossibile capire chi stia parlando e anche a cosa stia pensando, cioè quale sia il riferimento immediato che il lettore può capire. In altri capitoli, quelli dal 57 in avanti, ovvero quelli inclusi nel consiglio di lettura dell’autore, le digressioni dei vecchi romanzi, diventano frammenti di auto-critica, cioè un tentativo di spiegare al lettore quello che il romanzo vuole dire. Con tutto questo il romanzo si fa seguire, ma il legame che stabilisce non è fondato sulla tensione drammatica, ma sulla meccanica di divisione dei capitoli, che obbliga il lettore ad andare avanti e indietro con le pagine, secondo uno schema stabilito che Cortazar mette all’inizio del libro.
C’è però un libro “normale”, avverte Cortazar, i cui capitoli possono essere letti di seguito, dal primo al cinquantaseiesimo, ma è chiaro che con un totale di 155 capitoli pochi lettori accetterebbero un’esperienza monca e perciò decidono di affidarsi al gran gioco messo in piedi dall’autore.

L’antiromanzo

L’antiromanzo, secondo Wikipedia, tende a frammentare e distorcere l’esperienza e la percezione dei personaggi, obbligando il lettore a ricostruire la fabula attraverso una narrazione non-lineare, contraddittoria o incompleta. Visto in questo modo, anche i montaggi di alcuni film come Pulp Fiction o 21 grammi (anche se non sono storie incomplete) potrebbero rispondere a questa definizione, ma in realtà l’antiromanzo è una completa esplosione di ambienti, personaggi, storie e situazioni che ha il suo culmine nel metodo del cut-up di Burroughs, il cui risultato – illeggibile – è il risultato della ricomposizione di ritagli di giornale scelti dall’autore inframmezzati a storie deliranti.
Rayuela si situa in quello stesso periodo, a metà degli anni Sessanta, e questo fa pensare davvero al fatto che, come accade ai protagonisti di Rayuela, in quell’epoca non ci fosse davvero più nulla da dire o raccontare e quindi l’unico modo per cercare di dire qualcosa di nuovo fosse fare a pezzi tutto quello che c’era prima. Di certo l’intento è riuscito, ma da quelle ceneri non sono cresciute nuove piante e gli altri grandi arrivati dopo, Marquez e Amado, torneranno alle storie e ai personaggi, anche se avvolti spesso nel flusso di coscienza (come Nessuno scrive al colonnello e Il generale nel suo labirinto), che comunque arriva da Joyce e Woolf.
Ma le ascendenze di Rayuela sono soprattutto da cercare nei due Tropici di Henry Miller, in cui si racconta il girovagare di bohemienne internazionali per le case e le boites di Parigi, ad ascoltare jazz e inebriarsi di conversazioni dove è sempre difficile arrivare a una conclusione, come in ogni discussione che dura una notte intera, che si beva o meno.
Quello che fanno i personaggi di Cortazar nella loro vita parigina (che costituisce la gran parte del racconto) sono le stesse cose che fanno i personaggi di Miller negli anni Trenta; accecati dal mito di una città, sono convinti che il solo vivervi e godere dell’altrui compagnia trasformino qualunque cosa in poesia: le rive della Senna, i boulevard, i cafès, le sale concerto, i clochard. Cosa rappresenterebbero le stesse cose trasportate in qualunque altro luogo?
I personaggi di Rayuela sono avvolti nella foschia di un gigantesco abbaglio e l’impressione è che siano arrivati tardi, che la festa vera ci sia già stata e il centro del mondo si sia già spostato. Perciò tutto quello che fanno o dicono sembra già visto, sembra lo stesso mondo degli esuli americani della Lost Generation degli anni Trenta, che forse è più vero, ma anche quello era intriso di un mito che risaliva alla seconda metà del diciannovesimo secolo, in cui Parigi passava da un movimento all’altro e le straordinarie generazioni di poeti, scrittori, intellettuali, artisti che si erano susseguite avevano attirato le avanguardie da tutto il mondo durante la prima metà del diciannovesimo secolo.

I resti di un mito

Quello che la cultura di tutto il mondo considera come un mito, l’epoca in cui tutti avrebbero voluto vivere, è una realtà ben diversa ed è quella esecrata, disprezzata, odiata da Charles Baudelaire: è quel trionfo dell’economia che vince su tutto, sulle aspirazioni e gli ideali annacquati e cancellati dal miraggio del benessere appena conquistato dalla borghesia, che illude il popolo a rincorrerlo, tralasciando gli ideali veri delle Rivoluzioni del 1789, del 1848 e della Comune di Parigi (tutto questo è ampiamente dimostrato nei due volumi di Giuseppe Montesano, Il ribelle in guanti rosa e la raccolta commentata Baudelaire è vivo).
Il mito della boheme – che pure è esistita – è stato costruito da fuori, da chi ha ammirato i quadri e letto libri e poesie in epoche successive, creando come in tutti i miti un magnete potente, destinato a durare nei decenni successivi e a protrarsi fino agli Cinquanta o Sessanta del Novecento, epoca in cui si presume siano ambientate le vicende di Rayuela.
Le vicende di Horacio, la Maga e gli altri personaggi che trascorrono il tempo da una casa all’altra ascoltando jazz, bevendo e fumando sono gli ultimi, inutili epigoni di stagioni tramontate, che si illudono di vivere forse in un’epoca decisiva e omettono quello che invece è fondamentale: creare opere, esprimere il loro ingegno, eccettuato forse il personaggio del pittore. Così Horacio e gli altri sono risucchiati nel vuoto e nella desolazione del nichilismo: smontando ogni cosa, dalle parole alle idee di chi li ha preceduti, alle relazioni che si sono instaurate fra loro, finiscono col disintegrarsi e non a caso la vicenda di Horacio, il protagonista, finisce con la follia e l’internamento al manicomio.

La fortuna del romanzo

Ma se Rayuela ha avuto il successo che ha avuto al tempo della sua uscita, bisogna interrogarsi sui motivi di questa affermazione. Davvero gli anni Sessanta del Novecento sono stati un’epoca di incubazione verso un cambiamento che sarebbe esploso alla fine del decennio e che di certo le avanguardie come Cortazar avevano avvertito in anticipo. Di sicuro Rayuela era piaciuta subito per l’intento che aveva di mettere tutto in discussione, fino ad arrivare alla parola, al suo uso e significato. In questo senso l’opera di Cortazar è radicale perché intende distruggere tutto, perfino l’estetica e la fruibilità dell’opera stessa.
Cortazar, attraverso il suo alter ego (si suppone) Morelli, scrittore che compare lungo il racconto e di cui si leggono i frammenti nella lettura guidata dall’autore, definisce con disprezzo “lettore femmina” colui o colei che vuole essere accompagnato da trama e dialoghi verso una fine, mentre il “lettore maschio” è colui che ha una parte attiva nella lettura, ovvero si costruisce da se il senso di ciò che legge. Di sicuro la lettura di tutto Rayuela implica un’operazione del secondo tipo. Che benefici ha il lettore alla fine dell’impresa? Quale crescita ha avuto dopo aver chiuso l’ultima pagina a metà del libro? Quali nuovi orizzonti o quale superiore comprensione ha raggiunto la sua mente? Sono domande che non hanno risposta perché ognuno potrebbe fornirne una diversa e questo non è un male, ma resterà sempre il frammento di un’esplosione.