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Johannes Joergensen - San Francesco d'Assisi

Nel lavoro di Joergensen, considerato la più completa biografia di San Francesco, sicuramente compaiono aspetti agiografici che non aiutano a dipanare le ombre del patrono d’Italia. Non considero ombre i fatti avvenuti prima della sua conversione; si tratta di fatti comuni alla vita di tutte le persone. Francesco non era in gioventù una persona malvagia, non era un criminale, un opportunista o un approfittatore. Era al contrario una persona allegra, capace di attirare altre persone, ed è questa caratteristica originaria che lo ha portato da una scelta ascetica e solitaria a diventare un missionario in giro per l’Italia e il nord Africa e soprattutto a formare una comunità. Dobbiamo certamente parlare di carisma, intesa nel suo caso come uno stato di grazia proveniente da Dio per poter spiegare questo lato del suo carattere.
Ma quando parlavo di ombre, o di contrasti, mi riferivo al destino della Regola che aveva cercato di far approvare e che, racconta la biografia, prima viene approvata solo oralmente dal Papa, e poi, anni dopo, scritta in forma estensiva con l’ampia citazione di brani del Vangelo, viene approvata, ma non “bollata”. L’ultima versione è una sintesi della prima, realizzata con l’espunzione di molti brani, e successivamente divenne la Regola Bollata, quella attualmente in uso fra i Frati Minori (così dai tempi di Francesco si vollero chiamare i suoi seguaci).
In molti film vediamo lo sforzo che Francesco pone nella scrittura della Regola; capiamo che non lo vuole, perché teme probabilmente che codificare lo spirito della comunità che aveva creato avrebbe portato a comportamenti cristallizzati, all’ingessamento di un movimento vivo ed energico: cioè fin dagli inizi Francesco aveva capito che il suo messaggio aveva superato i confini di Assisi e i sempre più numerosi discepoli avrebbero dovuto mantenere lo spirito originario anche dopo la sua dipartita.

La prima e la seconda ondata

Questo tormento, per uno come lui, implicava di certo una contrizione per aver peccato di superbia, eppure le pressioni perché vi fosse una regola arrivavano proprio dai suoi frati.
I primi anni di Francesco e dei suoi primi discepoli (che Joergensen distingue in una prima e seconda ondata) erano caratterizzati da uno spirito anarchico: figli e giullari di Dio, si procuravano il cibo o un riparo mediante lavori o elemosina; dormivano in capanne di rami e frasche, in vecchie cappelle o eremi diroccati che con le loro mani rimettevano a posto.
Lo spirito iniziale era così libero e la scelta di Francesco era parsa così estrema che i suoi discepoli a imitazione spesso partivano da soli e si ritiravano in luoghi inaccessibili a pregare e meditare. In quei primi tempi quindi il distacco dalle cose del mondo era così radicale che la ricerca dell’assoluto diventava prevalente. Intendiamoci: Francesco per tutta la vita si sarebbe comportato a quel modo, alternando periodi di predicazione a vacanze (nel senso di assenze dal mondo) in eremi lontani dai centri abitati. Tuttavia la seconda ondata o seconda generazione di seguaci si sarebbe rivelata meno individualista e più comunitaria, forse per effetto della Regola, forse per il rafforzato carisma dovuto alla popolarità crescente di Francesco, a sua volta causata dalla coerenza della sua vita.

Il rifiuto del denaro e della proprietà

Dopo i primi anni di romitaggio, ad Assisi e dintorni avevano capito che quella condotta di povertà assoluta non era il frutto di un improvviso impazzimento, né di un capriccio del figlio di un ricco mercante che presto sarebbe terminato una volta che le privazioni gli fossero diventate intollerabili. Francesco aveva imparato ad accogliere privazioni, insulti e più veniva umiliato, più era contento, convinto di espiare la sua vita precedente.
La base del suo credo o regola è quello di spogliarsi di ogni cosa: fedele al messaggio originario di Gesù, che esortava chi voleva seguirlo a lasciare ogni cosa per camminare assieme a lui, anche Francesco accettava i suoi seguaci come fratelli dopo questo libero atto.
Joergensen fa capire questo al lettore attraverso il racconto, ma non si ferma a riflettere sugli effetti a cascata di questa prima azione da frate, che implica il rifiuto del denaro in ogni sua forma: un frate francescano non deve in nessun caso toccare i soldi, quindi non accetterà elemosine in moneta, ma solo in beni di sussistenza.
Ma i frati minori non sono un ordine mendicante, perché dovranno procurarsi da vivere attraverso il lavoro: si offriranno di svolgere qualche attività, dalle più umili e semplici come tagliare la legna o portare l’acqua a quelle più complesse, in ragione delle loro capacità, senza pattuire in anticipo una ricompensa – e quindi senza un contratto – perché questo implica un interesse mondano, il lavoro come incentivo.
In realtà il rifiuto del denaro implica il compenso come un premio, inaspettato e non stabilito all’inizio. Questo, in senso alto, rafforza il valore del lavoro stesso, che diventa un’attività la cui soddisfazione si trae da se nell’atto di compierlo e non dall’ottenimento di un corrispettivo in denaro. (tutto il ragionamento viene svolto qui dall’economista Luigino Bruni).

La salvezza della Chiesa

La lotta per mantenere una credibilità pauperista era stata strenua nei primi decenni dell’Ordine e questo lo aveva salvato dalla secolarizzazione che avevano incontrato i precedenti ordini monastici, i cui conventi erano diventati centri economici e di potere. Ecco allora il vero rovello di Francesco attorno alla regola: come perpetuare lo spirito originario e contemporaneamente far crescere il movimento dopo la sua morte? Quest’assenza di compromessi avrebbe comportato la fine del sistema di regole su cui è basata la società e la Chiesa o qualunque altra autorità non l’avrebbe permesso; il francescanesimo sarebbe diventato un movimento ereticale al pari dei Catari, finendo distrutto dal braccio armato della Chiesa. Ma Joergensen ci avverte anche della particolare situazione in cui versava la Chiesa in quel periodo, forse mai prima di allora così debole. Contestata a Roma dalla plebe da cui aveva scacciato più volte il Papa, privata di molti suoi domini nel Patrimonio di Pietro, nei cui territori i Comuni si erano affrancati da tributi e obblighi, indebolita dalla proliferazione di movimenti ereticali e pauperisti (spesso vere rivolte sociali in cui la religione era solo un aspetto), la Chiesa – secondo Joergensen – stava passando uno dei momenti più bui della sua storia.
Francesco rientra in questo quadro come un salvatore, perché da subito predica la sottomissione all’autorità del Papa e degli ecclesiastici (un prete, secondo Francesco, non poteva avere torto solo in forza dell’abito che portava) e dall’altro accoglie quel desiderio di pulizia e onestà che risorgeva in ogni parte d’Europa e finiva per portare all’eresia.

Il giullare di Dio e i dotti

Per accompagnare il movimento di Francesco alla sua istituzionalizzazione serviva la Chiesa e serviva una guida illuminata, che Francesco trovò nel cardinal Ugolino, vescovo di Anagni e poi papa con il nome di Gregorio IX. Ugolino concesse terreni alle clarisse per la costruzione di conventi e in seguito anche ai francescani; sottrasse le clarisse all’autorità del vescovo, rendendole dipendenti solo dal pontefice; soprattutto promosse le diverse missioni in Europa dei frati francescani. Ugolino aveva preparato la strada alle missioni tedesche e francesi dei frati con salvacondotti e raccomandazioni ai diversi vescovi, concedendo la libertà di predicare il Vangelo in quei paesi. Era un’altra cosa avere basi logistiche e una rete a cui appoggiarsi invece che andare all’avventura, come era accaduto qualche anno prima, quando tutte le missioni per l’Europa e il nord Africa avevano fatto fiasco. D’altronde non si capisce come i frati in gran parte italiani che parlavano il vernacolo del centro Italia potessero sperare di predicare in lingue che non conoscevano.
Qui si innesta il conflitto fra l’autorità di Francesco in quanto fondatore e la frangia guidata da frate Elia Bombarone e formata dai chierici bolognesi, tutti dotti laureati nell’università felsinea, che di certo spingevano verso una istituzionalizzazione del movimento (oltre a dinamiche di potere inevitabili in organizzazione). Francesco non possedeva la cultura necessaria ad affrontare l’impegno delle missioni in terra straniera: ce lo testimonia Joergensen a proposito della sua predicazione in Egitto, che si era risolta senza alcuna conversione: ma per forza! In che lingua poteva parlare nei mercati di Damietta? L’arabo non lo conosceva di certo.

La vittoria dell’ala moderata

Se quella era l’ala moderata del movimento, il francescanesimo aveva un’ala dura, che possiamo dirla con termini novecenteschi, scavalcava a sinistra le stesse prescrizioni di frugalità del fondatore. Un altro gruppo di frati aveva allungato i periodi di digiuno, inasprito le penitenze con cilici e catene, tutte cose che avrebbero portato alla macerazione e alla solitudine, impedendo la predicazione e portando il movimento all’autoconsunzione o a trasformarlo in qualcosa che non somigliava più all’imitazione di Cristo come era stata intesa da Francesco. Lo stesso Francesco, per il tramite di Ugolino, era riuscito a far proibire dalla Chiesa quella nuova Regola che avrebbe portato alla nascita di un nuovo ordine monastico staccato dalla corrente principale.
Ma se la minaccia estremista era stata allontanata, con quella moderata Francesco dovette venire a patti. Possiamo forse dire che il vero levatore dell’ordine francescano – con tutti i riconoscimenti dovuti al fondatore – sia stato proprio Ugolino, capace di mediare fra la corrente dei dotti e Francesco, che con il carisma del fondatore aveva comunque in mano il vero potere nella comunità (anche se si era spogliato di qualsiasi carica). In questo modo il movimento fondato da un piccolo uomo figlio della borghesia di una città minore dell’Italia centrale era potuto crescere e durare dopo la sua morte; non è cosa da poco. Serviva l’autorità della Chiesa a stabilire e indirizzare, salvando per quanto possibile la genuinità del messaggio originario, cioè servire Dio attraverso la povertà, che implicava non solo il divieto di maneggio del denaro, ma pure il divieto di appropriazione e di accumulo, ovvero il contrario dello spirito del capitalismo, fondato sull’appropriazione e privatizzazione dei beni comuni, dalle terre e pascoli nell’Inghilterra dei Tudor fino ai dati personali di ognuno di noi e al codice genomico delle specie dei giorni nostri.

I beni sono di tutti

Luigino Bruni in poche frasi fornisce la sintesi dell’esperienza francescana:

La rivoluzione francescana consisteva nel trattare i beni come beni pubblici e comuni: ogni bene è un comune, quindi un bene indivisibile e non appropriabile dal singolo individuo. Talmente pubblico da appartenere a tutti, e non solo alla comunità francescana. Torna quella fraternità cosmica del Cantico di frate sole..
…Quel divieto assoluto di maneggiare denaro e di essere proprietari di qualcosa (sine proprio) era dunque una strada maestra per custodire questa dimensione “pubblica” essenziale di tutti i beni. È l’apoteosi della gratuità: rinunciare a una capacità e libertà umana (usare denaro)…per farsi garanti e custodi di un valore comune.

In un mondo fondato sullo scambio di denaro, la neutralità garantita dalla povertà si era sviluppata grazie a quell’indirizzo originario. Qui ancora Bruni lo racconta:

Le centinaia di Monti di Pietà che i francescani minori fondarono (senza esserne proprietari) dalla seconda metà del Quattrocento non sarebbero nati senza quella fedeltà totale al non uso del denaro. Quelle banche diverse furono l’approdo maturo di quell’antica castità, di quella loro enorme competenza fiorita dal divieto non negoziabile di maneggiare moneta: non potendola maneggiare per se stessi la maneggiarono per i poveri, usarono la loro competenza solo per il Bene comune. ….

Quello che è sopravvissuto dello spirito di Francesco è il contrario del capitalismo fondato sull’esproprio dei beni comuni: considerando i beni come cosa di tutti andavano amministrati per il bene di tutti e non per il profitto dell’individuo.