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Haruki Murakami – L’incolore Tazaki Tsukuru e i suoi anni di pellegrinaggio

Un Murakami diverso dal solito. Finalmente, vien da dire, perché – da ammiratore, fan assieme ai milioni, di Murakami – faccio fatica a ricordare i suoi libri, trame e personaggi. Pensando ai lavori di M vengono in mente alcuni temi, che sono portanti in ogni sua opera e viene il dubbio che questa volta con Tazaki sia riuscito ad uscire dalla gabbia che si è costruito e con cui ha avuto successo. E’ vero, squadra che vince non si cambia. Però non si può fare a meno di notare che molti pezzi, situazioni, personaggi dei suoi libri siano intercambiabili, senza che la storia di ciascuno ne esca stravolta.
Ci si chiede come fosse possibile che alcuni grandi geni come Bach o, più vicino a noi, Zappa, abbiamo potuto produrre tutta quella musica e tutta o buona parte a quel livello. La risposta è: la cassetta degli attrezzi. Sia Bach che Zappa, ad esempio e in forme diverse avevano archivi vastissimi da dove attingevano per creare nuova musica, cioè assemblavano o rielaboravano quanto era già nelle loro mani e che era stato da loro creato in precedenza.
La loro abilità era quella di scegliere, assemblare e rieditare, oltre che ad avere una memoria prodigiosa che gli permetteva di ricordare quanto avevano fatto e di sapere dove ritrovarlo, vuoi fra gli spartiti, vuoi fra le registrazioni di anni addietro, vuoi nella mente.

Basta luoghi oscuri

Dopo 1Q84, dev’essere sembrato impossibile anche a lui continuare a scrivere di mondi paralleli, di presenze che sfiorano la quotidianità, di pozzi neri, fondi, del buio come momento di passaggio da una dimensione all’altra, della doppia luna, la cui doppiezza non viene spiegata. L’altra dimensione, questo strano mondo fatto di spiriti veri, di persone in stato di spirito e di avvenimenti incontrollabili dalla volontà umana, che riescono a influire sulle storie quotidiane è il tratto di M, la sua firma.
Nessuno prima di lui era riuscito così bene a creare quell’atmosfera di tensione che non porta a niente, che non ha una spiegazione e che però fa chiudere il libro sempre con un senso di disagio, come se una mano avesse rovistato dentro al nostro io e se ne fosse ritratta, lasciandoci rimescolati ma non sollevati, in qualche modo forse più pronti ad accettare le cose come vengono ma senza scadere nel fatalismo.
Quando chiudiamo un libro di M siamo sempre piacevolmente disturbati e sollevati dal fatto che il male ha sfiorato i protagonisti – e quindi noi – ma che sono riusciti a sopravvivere e alla fine sono diventati più forti, in un altro stato di consapevolezza.
E’ quello che succede a Tazaki Tsukuru, l’incolore del titolo, non tanto nel senso di scialbo e noioso, quanto privo di un colore di riconoscimento che gli altri portavano nel cognome. Ma il cognome determina la percezione di sé e Tsukuru davvero crede di essere un signor nessuno, una persona priva di attrattive, uno di quelli che – pur intelligenti – non eccellono in nulla eppure a un livello medio-basso riescono in tutto.

Uno dal serbatoio largo

Detta così siamo tutti Tsukuru, secondo la teoria del serbatoio largo e basso rapportato a quello alto e stretto. Il serbatoio largo e basso prende acqua da più parti, è esteso, riesce ad attingere liquido ma il contenitore in poco tempo si riempie. Il serbatoio alto e stretto attinge da una sola fonte ma, per sua conformazione, farà crescere il livello dell’acqua a un livello altissimo rispetto al serbatoio largo. Peccato che l’iperspecializzato serbatoio alto sarà una frana in tutto il resto.
Tazaki Tsukumi si sente serbatoio largo e non riesce a capire cosa gli altri trovino in lui, perché venga accettato in quel gruppo di cinque amici che assieme formano una cosa sola e che per tre anni sviluppano un legame talmente intenso che l’amore e il sesso vengono banditi, perché la formazione di una o due coppie porterebbe alla dissoluzione della perfezione.

Una vita come tante

Il tema vero del romanzo è lo stesso di Una vita come tante, di Hanya Yanagihara, ovvero l’esplorazione di un nuovo tipo di famiglia, fondato su amicizia, lealtà, rispetto – e amore casto. E’ quanto ha affermato la stessa Yanagihara in un’intervista. Cinque sembra essere il numero magico: anche nel suo romanzo la famiglia e l’intreccio si sviluppano attraverso le vite di cinque amici, in un rapporto non esclusivo, perché nella famiglia allargata sono presenti anche i o le partner. Ma è sintomatico che nella coppia formata da due di loro il sesso sia la cosa più difficile, questo per gli handicap fisici del protagonista uniti a pesanti blocchi psicologici causati dalle ripetute e diverse violenze subite durante l’infanzia.
In Murakami il sesso rientra dalla finestra e lo fa prepotentemente, causando la rottura del cerchio magico. Alla fine Tazaki scoprirà che la causa del suo allontanamento dal gruppo sono le accuse di stupro di una delle due amiche – infondate e per le quali non emergerà mai una spiegazione perché nel frattempo l’amica è morta assassinata.
Contemporaneamente, nell’ultima spiegazione che Tazaki riceve quando va a trovare i tre ex amici rimasti, quella dell’amica, è illuminante: confessa a Tazaki di essere stata perdutamente innamorata di lui, che Tazaki veniva considerato il bello del gruppo e che avrebbe voluto far sesso con lui in qualunque momento, che Tazaki era capace di generare in lei un desiderio fortissimo. In questo senso le convenzioni non scritte del gruppo – della nuova famiglia, se vogliamo pensarla così – hanno agito da coperchio alle pulsioni di cinque adolescenti che si sono repressi per un supposto superiore bisogno di armonia.

Il sesso rientra dalla finestra

I fatti alla fine hanno dimostrato che l’armonia si reggeva sulle spinte annullate di ognuno di loro, ma che quelle spinte sarebbero venute fuori per conto loro: così l’omosessualità di uno dei due amici rimasti a Nagoya, così la stessa volontà di Tazaki di lasciare Nagoya per andare a studiare a Tokio. Così la stessa storia dell’amica stuprata, che ha accusato l’unico amico assente di un fatto orribile e di cui non aveva colpa.
Il sesso, alla fine, sembra essere l’unico elemento in grado di far uscire la verità, o meglio di far uscire i personaggi al di fuori di loro stessi. Così l’armonia diventa uno schermo – fragile – su cui sono appuntati gli spilli delle loro forti personalità, uno schermo che sembra inizialmente comodo ma che non regge alla prova della vita, del divenire.
Niente è per sempre, ci dice Murakami e gli equilibri sono in continua evoluzione; parola che diventa eufemismo, perché gli equilibri si sfasciano e non torneranno più quelli di un tempo, anche quando si cerca di recuperarli.
Se con evoluzione noi abbiamo in mente un morphing escheriano, i campi che diventano uccelli, le api che diventano pesci, passando con grazia da uno stato intermedio all’altro, ognuno con pezzi del precedente stadio e con anticipi di quello successivo, Murakami ci dice la verità: la vita non è così. La vita è fatta di rotture perché la crescita è come la partenza di un missile spaziale, ogni stadio che si stacca cade, oppure esplode, in ogni caso non è più parte del corpo vivente, del divenire individuale.

Non ci sono spiegazioni

Perché succede questo M non lo dice. Non ci dice perché l’amica accusa Tazaki di averla stuprata; non ci dice perché nessun amico decide di parlare con lui, di dirgli qual è l’accusa, non gli danno la possibilità di difendersi.
Sarà stata l’invidia sotterranea perché era il più bello – cosa di cui Tazaki non è mai stato consapevole e su cui non ha mai puntato – sarà stato perché lui aveva deciso di andar via da Nagoya per andare a Tokio a studiare: quindi, era stato lui che si era già messo fuori da solo.
L’accusa di stupro a Tazaki rinsalda il gruppo per poco, ma poi si sfascia. Le contraddizioni vengono alla luce e l’esistenza stessa del gruppo ricorda l’episodio atroce, la macchia che resta quando i restanti quattro amici si incontrano nei mesi successivi, sempre più di rado, fino a esaurirsi.
E’ il fallimento dell’armonia, che diventa un velo talmente fragile e troppo trasparente da non reggere più. C’è un lato buono dell’armonia, ed è la ricerca della pace, della mediazione dei conflitti, di accontentare e accontentarsi; tutto il contrario della ricerca esasperata del proprio individuale piacere, del massimo utile per se stessi e basta.
Il contrario dell’armonia è l’esaltazione dell’individuo e della sua forza incoercibile, quella esaltata dai profeti della nuova destra americana, capitanati da Ayn Rand, che teorizza che quanto più l’individuo riesce a trarre massimo piacere e utile dall’esistenza (quindi dalle persone attorno, dalle situazioni, dall’ambiente, dalla società), tanto più sarà realizzato e – attenzione – anche la società ne gioverà. Non ci sono effetti collaterali, non esistono vite distrutte, finché la storia la scrivono i vincitori.

Risollevarsi da soli

Murakami non voleva dire o sottendere questo, ma è significativo constatare un ribaltamento: nel Novecento il sesso viene raccontato come forza primordiale per far emergere la verità e – come si diceva – squarciare il velo dell’ipocrisia, mentre oggi viene usato come strumento utile all’affermazione del pensiero unico neoliberale.
Esiste invece un sesso fatto di intimità e armonia, di fusione e di gioia. L’idea di fare del sesso un’arma appuntita per offendere o lacerare non è un’arma maschile, ma è un’arma da maschio alfa, cosa che non sono la maggior parte degli appartenenti al genere maschile.
Tazaki non è un romanzo morale, non si propone di dimostrare niente: per la maggior parte del suo svolgimento, è la storia di un dolore causato dall’assenza e anche di una difficile, incompleta ricostruzione.
Anche se Tazaki è resiliente, non c’è nulla o nessuno che lo possa aiutare. Trascorre sei mesi tra la vita e la morte, pensando ogni momento di farla finita, consumato e torturato dal dolore della perdita dei migliori amici, accusato di non si sa che cosa, esiliato, ostracizzato e quindi annientato da sensi di colpa. Non trovando una ragione, un fatto o un delitto, la coscienza si rivolta, addossando a lui, Tazaki, alla sua stessa esistenza in vita la colpa del suo allontanamento dal gruppo.
Ci dev’essere sempre stata qualcosa che non andava in lui, e per un po’ i suoi amici lo hanno accettato, o forse lo hanno scoperto dopo un po’ e lo avevano tollerato fino a non poterne più. E lui , Tazaki, non riesce a capire cosa ci sia di sbagliato in lui.
E’ una condizione orribile, da cui riesce a risollevarsi da solo, ma la sua rinascita sarà quella di una pianta amputata di un ramo, forse del ramo principale, forse del fusto stesso e lui sopravvive crescendo verso l’alto con l’energia più debole dei rami sopravvissuti.

Narcisismo estremo

Se vogliamo Tazaki è il romanzo del narcisismo estremo. Nei manuali freudiani il sogno del proprio funerale rappresenta l’apice del narcisismo: seguire segretamente il proprio feretro, godendo delle persone attorno, a cui si vuole un gran bene, perché stanno piangendo l’invisibile seguitore del proprio carro funebre. Il protagonista in quel momento ama tutti di un amore smisurato, è in comunione con l’universo perché tutti in quel momento lo piangono e lo amano. Solo quel momento conta, di intensa compassione che precede il risveglio.
L’idea che il mondo ce l’abbia con noi, o che tutti facciano apposta a comportarsi in un dato modo perché vogliono il nostro isolamento ed esecrazione è un altro delirio narcisistico comune.
M da forma a quel delirio e racconta le cose come se – per una volta – fossero vere e non frutto del personale delirio narcisistico di ognuno di noi, riuscendo a toccare le corde di tutti:
abbandono, disagio, solitudine.
I romanzi di M comunicano questi stati d’animo, come contemplare una piazza vuota percorsa da lunghe ombre in cui si stagliano, sproporzionati, alcuni manichini. E’ la descrizione di uno dei tanti quadri di De Chirico, che non a caso comunicano la stessa angoscia.
Quello che vogliono dirci i romanzi di Murakami non è qualcosa che ci introduce alla sottile bellezza di essere isolani e che ci fa apprezzare lo spirito giapponese (qualunque cosa voglia significare), ma descrivono quel sottofondo di angoscia e quieta disperazione (hangin on in quiet desperation is the English wayTime dei Pink Floyd, di nuovo un sentimento isolano – quanto isolano?) che deriva dall’isolamento e dalla rinuncia a vivere, qualche volta ad osare perché ci schiaccia il senso di colpa del peccato cristiano o – per l’oriente e anche gli inglesi – la paura di rompere il patto di convivenza, le rispettabilità, l’armonia.