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Haruki Murakami - L'assassinio del Commendatore

Un amico tempo fa mi disse che se i Clash in Sandinista avessero fatto un solo disco invece di tre, quello sarebbe stato il loro capolavoro. 
Di tutti questi discorsi spesso velleitari fatti prima dei vent’anni, rimane il fatto che oggi Sandinista è una pietra miliare. Ma quell’amico aveva un bel dire, all’epoca, circondati come eravamo dall’abbondanza.
Tutto questo discorso per dire che il passa parola che ho avuto dagli altri fan di Murakami era che L’assassinio del Commendatore non era all’all’altezza degli altri suoi lavori. Alla fine l’ho comprato e tutto quello che potrei dire – ora – è che se L’assassinio del Commendatore fosse uscito prima di L’uccello che girava le viti del mondo (a mio avviso la sua prova insuperata) e prima di 1Q84 le impressioni sarebbero state diverse.
Ma chi può dire – da ora a venti, trenta, cent’anni – se proprio anche quest’ultima fatica non rientri alla fine in un canone dei massimi romanzi murakamiani? La maggior parte delle critiche che ho letto riguardavano l’identità dei temi trattati, rubati nelle situazioni e nei personaggi dei romanzi precedenti, ben individuati da Ken Lawrence nell’articolo Killing Commendatore: Thoughts and Review.

Gli altri mondi

A parte questo, è vero che le circa ottocento pagine del Commendatore si leggono in un fiato e si accettano anche i tentennamenti, i giri e i pensieri a vuoto del protagonista, che ci fa intuire come l’autore spesso si trovi in difficoltà sugli eventi che gli fa capitare. Perché il bello dei racconti di Murakami è proprio questo: il grado di immedesimazione dell’autore con i suoi protagonisti è tale che – vivendo dentro di loro – anche lo scrittore prova gli stessi stati d’animo, ansie e riflessioni del soggetto in pagina.
Lo ha ricordato Murakami in un’intervista al New Yorker quale è il suo metodo, spiegando all’intervistatrice come entri nelle situazioni da lui stesso create e veda le cose attraverso gli occhi dei suoi protagonisti. E’ un processo che si potrebbe definire un flusso di coscienza controllato, ed è proprio questa secondo me la formula che ha conquistato lettori in tutto il mondo.
Con gli anni l’intensità della scrittura diventa mestiere, perché invariabilmente i personaggi dei vari libri, tutti o quasi io narranti, si assomigliano: sono dei perdenti e la storia inizia sempre dal racconto della loro caduta e della rinascita attraverso una maturazione attraverso varie prove dolorose, dove l’umanità dei personaggi spesso incontra mondi fantastici che sembrano apparire dietro l’immediata concretezza delle cose, così da farci percepire la realtà come un velo di Maya, ovvero, secondo Schopenhauer, come uno schermo obbediente alla nostra volontà di rappresentazione.
Ma una volta varcato il passaggio fra mondo reale o velo di Maya e all’interno degli altri mondi paralleli, sottomondi o altri mondi, crollano tutte le certezze mentre i protagonisti – e noi con loro – vengono scagliati in una dimensione atemporale che non ha alcuna coerenza con la realtà come la conosciamo (o come ci siamo costruiti).
Non è un mondo in cui si desideri vivere, quello in cui ci fa sprofondare Murakami, perché è pervaso dall’angoscia di ritrovarsi soli, come forse potrebbe succedere dopo che si è morti.
Quindi, in fondo, pare dirci l’autore, a che serve l’eternità, l’armonia, la vita beata quando siamo prigionieri della nostra solitudine?
E’ tutta lì, la radice delle nostre ansie ed è bravo Murakami a uscirne fuori.

La cassetta degli attrezzi

Lo dice nel prosieguo di quell’intervista al New Yorker, di ritrovarsi spesso in situazioni paurose, ma alla fine ne esce sempre, perché è un professionista (parole sue).
C’è uno scaffale degli attrezzi che Murakami si è costruito nel tempo, da dove può attingere nel creare e risolvere situazioni. Assomiglia all’arsenale mentale che si era costruito Frank Zappa, che aveva conservato e archiviato tutte le registrazioni dei concerti dei primi anni, suddivise in un criterio noto solo a lui, che volta per volta ripescava per inserirle in nuovi pezzi o per costruire nuove versioni di canzoni esistenti (Barry Miles – Frank Zappa).
Detta così potrebbe sembrare un modo di barare, un sotterfugio, che sottende alla vanità dell’autocitazione. Ma non è precisamente così, perché intanto il materiale a cui si attinge è loro produzione, quindi al limite questi autori plagiano se stessi (e lo fanno a loro rischio e pericolo, perché devono fare attenzione a non scadere nell’effetto della barzelletta già raccontata), ma soprattutto perché loro è la scelta di cosa servirsi, di dove inserire quell’arnese e come adattarlo al testo in divenire. E’ importante avere un buon scaffale degli attrezzi, un ordine da cui attingere volta per volta. E’ innegabile che i temi riaffiorino e si ripetano.
Con le sole eccezioni di Omero, Dante e Shakesperare, così immensi da padroneggiare tutte le passioni umane al punto da annullare la propria identità, tutti gli scrittori hanno le proprie ossessioni.
Ma non possiamo certo ridurre Dickens allo scrittore dell’infanzia perduta e redenta, o Hesse all’irrisolto conflitto fra essere e divenire, con tutti i suoi corollari di arte e vita, ragione e passione e via dicendo, così come non possiamo dire che Murakami sarà ricordato (solo) come il cantore del buio e della profondità.