Hanya Hanagihara - Il popolo degli alberi
Nel suo celebre racconto L’immortale, Jorge Luis Borges racconta le avventure del tribuno romano Marco Flaminio Rufo, che parte per un viaggio alla ricerca della città degli immortali, che una leggenda vuole si raggiunga dopo aver attraversato il fiume che rende immortali. Arriva dopo molte avventure alle porte di una città completamente circondata da mura, senza porte. Fuori dalla città vive una tribù di uomini ridotti allo stato bruto. Marco Flaminio Rufo impiegherà anni per entrare nella città, vagando in un labirinto sotterraneo, fino ad emergere in una città senza simmetrie, senza capo ne coda, somigliante a uno dei disegni di Escher o alle geometre grottesche delle prigioni di Piranesi. Ma nessuno vive all’interno della città degli immortali e il tribuno romano capisce che, dopo tutti quegli anni di ricerche, gli immortali erano quel popolo di bruti che viveva fuori dalle mura.
Impiegherà altri anni a uscire di nuovo fuori e a raggiungere la tribù misteriosa, che gli spiegheranno che la città era stata edificata da loro, ed era perfetta, tutto funzionava come il migliore degli organismi ma, dovendo fare i conti con l’immortalità, gli abitanti avevano cominciato a introdurre varianti, a sperimentare nuove forme, fino a mettere tutto sottosopra, per noia, per occupare il proprio tempo, per reagire alla condizione di una vita senza fine. Infine, stufi di tutto quello che avevano creato e disfatto, si erano ritirati a vivere fuori da quella città, ai margini del deserto, in preda all’abbruttimento. Gli immortali appaiono come un gruppo di uomini piegati dagli anni, sporchi, cenciosi, con barbe e capelli incolti, completamente abbandonati all’incuria.
La stessa idea di Borges
L’idea di Hanagihara di immortalità nel romanzo Il popolo degli alberi è la stessa, cioè quella di un gruppo di persone in un’isola del Pacifico, che vive ai margini di una tribù, afflitte da una forma di demenza che le trasforma in docili ebeti. Cioè alla longevità in apparenza senza fine e alla prestanza fisica che si mantiene, fa da contrappeso un decadimento cognitivo che trasforma quel gruppo di uomini e donne in un branco di primati che vive un’esistenza senza senso, se non quello di nutrirsi dei frutti della giungla per mantenersi in vita. Sono ridotti alle funzioni primarie: mangiare, dormire, defecare, spostandosi nella giungla senza una meta, in balia di loro stessi ed esprimendosi in una lingua decaduta: dalle loro bocche, proprio come gli immortali di Borges che si esprimono in un miscuglio di varie lingue, escono grugniti.
Hanagihara sviluppa quell’idea originale di Borges ed è questa, a mio parere, l’idea forte di questo romanzo, ovvero l’idea di immortalità come un processo di progressivo decadimento. Era un’idea già presa a prestito dal mito greco di Titone, fratello di Priamo, re di Troia, di cui si innamora Eos, dea dell’alba, che per poter vivere con lui chiede a Zeus di donargli l’immortalità: la dea viene accontentata, ma si scorda di chiedere per il suo amato anche l’eterna giovinezza, e questa distrazione condurrà Titone alla sofferenza di una vecchiaia progressiva e senza fine.
L’immortalità come malattia
Hanagihara capovolge i termini, gli immortali della sua tribù sono relativamente in forma, ma soggetti a una decadenza inesorabile e progressiva delle facoltà mentali perché, in effetti, quell’invecchiamento senza fine è il risultato di una malattia, come scoprirà Norton Perina, il protagonista.
Concepire una storia dell’immortalità in questi termini va a toccare le corde profonde di un paese, gli Stati Uniti, in cui la ricerca della lunga vita è una durevole ossessione: che si tratti di immortalità o di una nuova vita oltre la morte, in un futuro indefinito, quando i miliardari criogenizzati per secoli in vasche o in bare d’acciaio si risveglieranno per vivere una seconda esistenza nella speranza – loro – che nel frattempo qualcuno abbia scoperto la medicina che porta a un allungamento indefinito della vita. E’ il soggetto di molti film di fantascienza, non ultimo Avatar, che inizia con il risveglio del protagonista nell’astronave che lo ha portato nel nuovo pianeta/miniera dove prenderà servizio come mercenario. La tecnologia del congelamento in vita per affrontare le distanze siderali fra pianeti è – in fondo – il correlato oggettivo del pessimismo sulla nostra specie e sulla vita nel pianeta Terra che nutrono le elite di plurimiliardari della West Coast, che progettano imprese spaziali, viaggi su Marte: perché credono che il nostro pianeta sarà invivibile e che soltanto pochi eletti – loro, ovviamente e i loro discendenti – potranno arrivare dove nessuno si è mai spinto; per autocelebrarsi e per salvarsi il culo.
Il colpo di genio di Hanya Hanagihara è aver trovato uno spunto che, al pari delle imprese spaziali, dimostra tutta l’inutilità di certa scienza: la scoperta di Norton Perina, il protagonista, è la sindrome di Selene, ovvero una rara malattia che si acquisisce con l’ingestione della carne di tartaruga ola’ivu’eke, che si trova solo nell’isola di ivu’ivu, dimenticata isola dell’arcipelago sperduto di u’ivu, ma i rettili dell’isola sono purtroppo destinati a estinguersi per azione dell’uomo e di conseguenza pure la malattia. Quindi tutto quello che fa Perina è inutile e non avrà un futuro; ma la scienza decide comunque di premiarlo, conferendogli il Nobel alla medicina. L’impulso faustiano malato spinge la comunità scientifica alla ricerca, con la speranza di trovare la dose omeopatica che garantisca la lunghezza indefinita della vita senza il decadimento mentale. Ma, ci dice Hanagihara, è la stessa immortalità a essere una malattia e tutti gli sforzi, gli esperimenti, i fondi profusi, gli anni persi ad allevare e testare topi di laboratorio sono inutili perché è la direzione delle ricerche che è fondamentalmente sbagliata.
Occidentali predatori
Se questo è il tema centrale del libro, alcuni critici (Katie Kitamura – The People in the Trees by Hanya Yanagihara – The Guardian, 10 gennaio 2014; Carmela Ciuraru – Bitter Fruit – The New York Times, 27 settembre 2013) hanno voluto vedere nel racconto de Il popolo degli alberi una critica all’imperialismo occidentale, che arriva, ruba quello che serve per i suoi scopi, imprigiona, stermina o assimila cancellando culture. E’ quello che fa Perina durante la sua permanenza sull’isola: uccide una tartaruga sacra alla tribù che li ospita per portare con se le carni essiccate; rapisce quattro sognatori, ovvero immortali dementi, per portarli in laboratorio, dove li tiene segregati per anni in una stanza senza finestre, nutrendoli come animali e sottoponendoli a svariati test e prelievi a sostegno delle sue teorie. Questa è senza dubbio l’esemplificazione più calzante della mentalità di conquista dell’uomo occidentale, e della mefistofelica noncuranza verso le vite o le sorti altrui, sacrificate senza rimorsi sull’altare degli scopi ultimi: la scoperta scientifica, la gloria del riconoscimento accademico. Con un piccolo corollario: la violenza sui bambini, che l’autrice introduce come pratica rituale nella tribù di ivu’ivu che ospita gli scienziati e che lo stesso Perina, forse turbato, inizia a fare nell’isola con un bambino della tribù. E’ un episodio, che lo stesso Perina cerca di spiegare come un fatto isolato e senza seguito, ma che ci porta a capire da dove arrivino le accuse e la condanna di violenza sui minori, che troviamo all’inizio del libro.
Un cattivo come non si vedeva da tempo
Hanagihara costruisce un protagonista spaventoso, detestabile, odioso, sociopatico e che non desta alcuna empatia nel lettore e anche questa è una capacità: dare il ruolo principale all’antagonista, al cattivo; ed è un cattivo riuscito. Lo capiamo dalle descrizioni dei suoi primi sadici comportamenti: uccidere le cavie da laboratorio facendole ruotare per la coda e sbattendole sul tavolo d’acciaio: Perina ci racconta di queste pratiche come un piacevole passatempo.
E’ talmente efferato e brutto, Norton Perina, che vien da pensare che non fosse davvero nato come protagonista, ma che sia emerso con prepotenza, mettendo da parte il protagonista scelto da Hanagihara, e cioè Tallent, il buon antropologo vagamente hippie che va a scoprire e a studiare la tribù perduta. Potrebbe benissimo essere che il fellon a poco a poco sia uscito dalla mente di Hanagihara per piazzarsi al centro della storia, obbligandola a riscriverla. Forse anche Tallent avrebbe avuto una storia simile, forse Hanagihara voleva dimostrare la stessa cosa in un romanzo più morbido e mainstream, e cioè di come lo scienziato occidentale parta alla scoperta, ma le conseguenze delle sue azioni finiscono inevitabilmente per portare alla rovina il popolo che è stato studiato. Con Tallent questa parabola sarebbe stata più morbida, mentre bisognava scegliere un approccio più aggressivo, quello della medicina, per mostrare al lettore le sue intenzioni, colpire la mente con la forza di uno scherzo atroce che con Tallent protagonista non sarebbe stato possibile: ti faccio vedere l’immortalità, ma in cambio diventi scemo – questo è il prezzo, sei disposto a pagarlo?
L’unica cosa che resta di Tallent è il titolo del libro Il popolo degli alberi, che in una nota (finta nota) al testo l’autrice ci fa sapere che è il titolo del libro scritto dallo stesso Tallent sulla tribù di ivu’ivu; può essere un indizio sulle trasformazioni che questa storia può avere avuto prima di arrivare all’edizione che leggiamo.
La pedofilia
C’è un forte legame fra questa storia e il successivo capolavoro Una vita come tante, ed è la violenza sui minori e l’incesto. Nonostante il tema in questo lavoro sembri sfiorato e ridondante perché non aggiunge nulla di più al ritratto negativo di Perina, di cui lo stesso Perina non prova vergogna a mostrare nella sua onesta autobiografia, tuttavia pare rientrare con la forza del simbolo, lo stupro vero correlato all’invasione e violenza su una cultura di secoli che viene cancellata in pochi anni dalla rapacità dell’industria farmaceutica. Perina nel suo racconto in prima persona sembra rammaricarsi di trovare nei suoi ultimi viaggi a ivu’ivu la giungla devastata, la tribù che si nutre di scatolette e ha smesso di cacciare, che usa vestiti occidentali sbrindellati, che ha perso il senso della sua esistenza e dell’equilibrio con la giungla dell’isola. Ma le sue recriminazioni non riguardano la sorte di quel popolo, ma piuttosto la perdita delle condizioni iniziali e l’impossibilità di avere gruppi di raffronto e altri campioni di tartaruga ola’ivu’eke per proseguire le sue ricerche.
La passione per i bambini, la sua capacità di entrare in empatia, uniti alla descrizione delle sensazioni che prova attraverso il contatto fisico è l’unico tratto che umanizza la figura di un sociopatico che critica e disprezza tutte le persone e le cose che lo circondano e questo è l’inizio della sua discesa nella pedofilia, che consiste nell’approfittare della debolezza e della facilità a manipolare menti di giovani, preferibilmente non americani, ma provenienti dall’isola – e ad abusare dei loro corpi.
L’hybris che acceca
Ma Hanagihara ci mostra soltanto l’inizio di questo processo, ed è interessante comprendere il punto di vista iniziale di un pedofilo, visione che viene poi ribaltata nel punto di vista – atroce – della vittima Jude, in Una vita come tante. Credo che a interessare così tanto Hanagihara in questo tema sia la ricerca su un aspetto che suscita la condanna e riprovazione generale, ricordando come questa ripugnanza sia in fondo un aspetto relativamente recente, anche se la pedofilia era in genere considerata obbrobriosa anche in decenni precedenti. Nel trattare di questo tema in Una vita come tante, Hanagihara sembra che voglia mettersi dalla parte del giusto, entrando in empatia con la sofferenza del protagonista e mostrando gli effetti nefasti degli abusi ripetuti a cui Jude è stato sottoposto durante l’infanzia e l’adolescenza, quasi a voler prendere le distanze dal disagio provocato dalla descrizione urtante di un personaggio come Perina, nel suo primo libro. Eppure, per quanto ripugnante possa essere, lo scopo della letteratura è esplorare l’animo umano e Hanagihara ne Il popolo degli alberi non ha paura a farci scendere nella mente di quello che molti considerano un mostro., ma che è in fondo un uomo come tanti. Perina è preda di una sindrome faustiana, che non è la vendita dell’anima al demonio in cambio di ricchezza o fama o conoscenza, ma la vendita dell’anima in cambio della facoltà di cercare l’immortalità, cioè di sfidare Dio o gli dei. Ed è solo l’hybris, l’accecante volontà di potenza che può fermare questo tipo di persone, cioè la voglia di stravincere unita alla perdita di empatia e sensibilità che porta a non vedere l’inciampo, l’ostacolo che sarà la causa della loro rovina.
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