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Guido Crainz - Il paese mancato

Il paese mancato contiene implicito il suggerimento di una contro storia, che è la stessa ipotesi di ogni romanzo di fantascienza: “e se…” Sono le domande che ci poniamo alla fine di ogni capitolo, in cui proviamo a ipotizzare al di là di ogni realtà, cosa avrebbe potuto essere questo paese se i fatti fossero stati diversi o se di fronte a un certo evento le forze in campo avessero preso una direzione diversa.
E se il centro sinistra nei primi anni Sessanta fosse riuscito a portare a termine le riforme che aveva in programma? E se il movimento studentesco fosse stato compreso fin dall’inizio, invece di scatenare la polizia nella repressione? E se il PCI fosse andato al governo? E se il PCI avesse davvero trovato la sua strada europea, slegandosi dall’abbraccio con l’URSS? E se il cristianesimo di base avesse scardinato le gerarchie ecclesiastiche, realizzando lo spirito del Concilio Vaticano II? E se la nostra classe dirigente avesse considerato lo Stato come un’entità da preservare e al servizio della collettività, invece che di una vacca da mungere, salvo portare i propri risparmi all’estero?
Sono domande che indignano ma che sorgono ingenue e inevitabili durante la lettura del lavoro di Guido Crainz, che indovina un nome, il “paese mancato”, per tutte quelle speranze deluse e promesse tradite che hanno fatto la storia d’Italia, da Mazzini in avanti. In tutto questo, c’è sempre stato un paese che è andato avanti “nonostante”: lo sfruttamento, la corruzione, il malgoverno, una classe dirigente tanto feroce da reagire con creatività alle istanze dal basso, inventando soluzioni (il fascismo) copiate in tutto il mondo. Un paese che pagando le tasse e lavorando è riuscito a migliorare la propria vita e quella delle generazioni future, ma anche posticipando problemi che sarebbero venuti al pettine.

Anni cruciali

Diciamoci la verità: il fatto che il nostro fosse un paese mancato lo si capiva dall’indomani dell’unità d’Italia, dove l’arrivo al meridione dello Stato sabaudo aveva portato povertà e tasse, alimentando l’emigrazione verso il nord e soprattutto verso le Americhe. Il nostro paese è sempre stato un paese di emigrazione, con l’eccezione di circa vent’anni, dagli Ottanta al Duemila, anni in cui in cui l’emigrazione è ripresa, per l’incapacità del paese di dare un futuro a tutti i suoi cittadini.
Grazie anche a questo, ora siamo un paese senza speranza e senza idea di futuro, con il tasso di natalità più basso al mondo e senza nessuna politica di largo respiro che inverta questa tendenza. L’elenco delle occasioni perdute è contenuto nel libro di Crainz, che rappresentano solo un segmento, i vent’anni fra i primi Sessanta e l’inizio degli Ottanta del secolo scorso: anni cruciali, di crescita e di speranza, di disperazione per congiuntura, crisi petrolifera, licenziamenti di massa e di riscatto per le lotte salariali e per i diritti, di resistenza agli assalti neofascisti, alle stragi di Stato e al terrorismo rosso e nero.
Anni in cui ogni mente sembrava posseduta da un abbaglio: Crainz lo dimostra bene descrivendo le reazioni (prevedibili) di chiusura del PCI alla Primavera di Praga, ma anche quelle meno scontate della sinistra extraparlamentare, che non coglie le disperate domande di democrazia e libertà, minimizzando la protesta cecoslovacca, descritta, come “deviata”, “ingenua”, mentre studenti e operai in occidente lottavano contro la “falsa libertà borghese”.
Nella logica di un mondo diviso in due blocchi, stare con una parte era come decidere di sposarla, nella buona e nella cattiva sorte, con tutte le eccezioni al principio di realtà, mediante la costruzione di giustificazioni in nome di disegni superiori e futuri.

Vittime di abbagli

E’ forse questo che può colpire maggiormente chi quegli anni non li ha vissuti e fatica a capire il linguaggio, le posizioni assunte a dispetto di ogni evidenza, ma giustificate da rapporti di forza, ideologia, appartenenza politica. Sono questi ultimi aspetti che possono sfuggire, all’alieno che – piovuto da un altro pianeta o adolescente che ha interrotto una partita a Fortnite – si appresti a leggere Il paese mancato. Non capirà le sorde convinzioni delle elite politiche ed economiche dell’Italia di allora, assieme ai milioni di voti della maggioranza silenziosa che condannano proteste salariali, bombe anarchiche (che poi saranno di Stato), pornografia e diffusione della droga come effetto deleterio del comunismo, non capirà perché la parte emergente di un paese, per quanto convincenti e giuste ne fossero le aspirazioni, non sia riuscita a persuadere tutti, ne a sfondare la maggioranza. E’ ben vero che siamo un paese di credenti, e che – come è stato detto in molti film americani – è meglio avere dalla propria “un figlio di puttana” che è “il nostro figlio di puttana”, piuttosto che un avversario, un nemico che non sarà mai come “noi”.
Sono meccanismi che si perpetuano nei decenni, si incrostano anche quando sembrano superati dagli eventi, ma tornano con prepotenza di fronte a nuove emergenze storiche. Siamo il paese che ha inventato la teoria delle elite e siamo il paese in cui le elite non accetteranno mai di mettersi in discussione e uscire da quella che oggi si chiama comfort zone, ed è per difendere quest’ultima, assunta come valore in se, che si fanno e disfano governi, si promuovono le mode, si assecondano utili idioti se conviene farlo.

Una visione pessimistica

Una volta compreso quali sono le forze in campo e si è capito il gioco, i vertici delle forze progressiste, da Togliatti a D’Alema, per intenderci, adegueranno le loro politiche in una visione del nostro paese pessimistica e senza rimedio. Il nostro è un paese conservatore e gli avanzamenti sociali ed economici saranno sempre sprazzi che non potranno durare a lungo. Per il resto del tempo, come ha detto a suo tempo Francesco Saverio Borrelli, bisognerà “resistere, resistere, resistere.”
Dobbiamo cioè fare i conti con una certa parte di paese per cui ogni cambiamento è una minaccia al proprio conto in banca e al proprio status, anche quando questo cambiamento arriva dallo Stato che impone le tasse; in questo caso è lo Stato che “ormai è in mano ai comunisti.” Il nemico mortale di un tempo, che storicamente non esiste più, continua ad alimentare paure e ignoranze.
La storia italiana del ventennio fra Sessanta e Settanta è la storia delle occasioni mancate, della trasformazione della classe dirigente in un’elite presa a soddisfare solo le proprie convenienze e mantenere o accrescere la propria quota di potere.
L’unico modo che ebbe la Democrazia Cristiana al potere dal dopoguerra fu di estendere il suo modo di gestire i conflitti fra le diverse correnti (che consisteva nel concedere un tanto, soldi o cariche a ognuna, in proporzione della forza relativa) a tutti i partiti, mediante la moltiplicazione di enti e società di Stato, le cui funzioni erano asservite non alla produzione o alle esigenze del mercato o dei cittadini, ma solo come riserve elettorali o di finanziamenti ai partiti.

Logiche predatorie

E’ stata questa logica spinta all’estremo che ha portato all’aumento del debito pubblico dal 40 al 60 per cento in pochi anni, alimentando una spirale che non si è fermata neanche ai giorni nostri e che è raddoppiata negli anni Ottanta grazie alle stesse e moltiplicate dinamiche predatorie di cui Tangentopoli è stata un epilogo, di cui stiamo pagando le conseguenze. Erano tutti comportamenti tesi alla soddisfazione di egoismi immediati, orientati alle successive elezioni. Qualcuno ricorda ancora la voragine delle Partecipazioni Statali: l’IRI, l’ENI, l’EFIM e la meno conosciuta EGAM, che aveva assorbito le fabbriche e miniere decotte della Montedison. Tutte queste aziende pubbliche, contenitori di altre aziende minori, ognuna con il suo consiglio di amministrazione, erano in mano ai partiti di governo che ne disponevano nomine e promozioni e che scatenavano la corsa avida a sedersi a un posto a tavola a chi apparteneva alle seconde e terze file dei partiti, che non trovando posto in corpi elettivi (moltiplicati con la creazione delle Regioni) si azzuffava per sedersi in consiglio di amministrazione di qualche società pubblica o “parastatale” (come venivano chiamate le partecipazioni statali).

Una storia con dei buchi

Colpisce nella lettura la mancanza di fonti dirette dalla democrazia cristiana e dal partito socialista, che pure in quel periodo erano al governo. Crainz cita verbali del consiglio dei ministri, articoli degli uomini di governo, ma sono assenti i verbali di direzione della DC e del PSI, che pure sarebbero stati utili a illuminare i motivi di certe scelte o non scelte, così come mancano i verbali delle riunioni o dei convegni di Confindustria o dell’Unione delle Banche Italiane o della Banca d’Italia. Per fare luce sulla situazione economica vengono largamente utilizzati gli annuari dell’ISTAT, ma non conosciamo il modo di pensare delle controparti, se non attraverso pochi documenti ufficiali. Abbiamo da sinistra una quantità enorme di documenti, utili a chiarire e criticare, ma non altrettanto abbiamo dall’altra parte. Abbiamo due partiti, la DC e il PSI dissolti dopo Tangentopoli, ma non ci sono archivi e associazioni o persone che li custodiscono?
Nella storia di Crainz ci sono accenni alla cultura e al costume, ma non bisogna dimenticare che la storia sociale e civile degli ultimi decenni è anche tanto storia del costume e delle mode, che la musica pop, le classifiche della hit parade, le trasmissioni radio e tv hanno creato movimenti culturali di massa che hanno influenzato il modo di vivere. Come si divertivano gli italiani negli anni Settanta? A noi sono stati consegnati come gli anni di piombo, un’epoca di paura diffusa, incertezza sul futuro, ma è stato davvero così? Gli anni Settanta vedono l’affermarsi prepotente della disco music, che sarà il più potente distrattore di massa, il porto di approdo di molti che, coscientemente o no, erano parte del riflusso dei movimenti del Sessantotto e Settantasette. Da questo fenomeno di costume, con la nascita di nuovi locali, le discoteche, che rimpiazzeranno i vecchi dancing, discenderà l’edonismo degli anni successivi, la moda come primo riferimento per molti giovani e famiglie. A tutto questo si assoceranno le iniziative prese dall’alto, come la scelta di Raidue di trasmettere ogni giorno l’andamento della Borsa di Milano, la spinta all’investimento finanziario e la vittoria dei professionisti giovani e urbanizzati, gli yuppies vincitori e punta di diamante del nuovo, ovvero l’esatto opposto dei contestatori di dieci anni prima che volevano risolvere i problemi collettivamente e mettersi al servizio della comunità, a fronte degli ultimi, disposti a tutto per soddisfare il solo proprio interesse personale.

Il meta linguaggio

Sono cambiamenti epocali, e le politiche bene o male seguono questi andamenti, li assecondano, a volte li promuovono, altre vi resistono. Un’ultima annotazione riguarda il linguaggio delle classi dirigenti e di quasi tutte le fonti, dai verbali di riunioni ai redazionali dei quotidiani, dove anche le denunce di malgoverno e malaffare vengono fatte attraverso allusioni spesso astratte.
Prevale nei documenti – ed è lo specchio di un’epoca e del modo di porsi degli intellettuali così come delle classi dirigenti – l’uso di un meta-linguaggio in cui la realtà delle cose è sottesa e non viene chiamata con il suo nome. In questo modo intenderà solo chi conosce il sottotesto delle affermazioni.
Esemplari sono i verbali di riunione del PCI, ma anche molti articoli di giornale a commento ad esempio delle rivolte di Reggio Calabria o dell’Aquila, dove si parla di malaffare, corruzione, spartizione di potere, ma sono affermazioni che potrebbero essere scambiate per articoli scritti vent’anni dopo o anche oggi. Si resta, perciò, nel vago, anche per paura di querele, perché non si potrà mai affermare o scrivere i nomi nel cui interesse vengono prese certe decisioni, come di nominare Catanzaro capoluogo della Calabria e assegnare a Cosenza l’università regionale, fatti che sono all’origine di sei mesi di rivolta con barricate e ripetuti assalti alla Prefettura e altre sedi istituzionali.
A proposito della rivolta di Reggio Calabria, questo è quanto scrive Gerardo Chiaromonte, della direzione del PCI su Rinascita del 12 marzo 1971 (pag. 478 e note) notando che “l’avanzata della classe operaia ha creato una situazione nuova e positiva, ma proprio perché la situazione è in movimento (…) si può presentare un qualche pericolo (…) di contraddizioni all’interno delle classi lavoratrici, fra Nord e Sud, fra città e campagna.”
In puro stile da scuola PCI quello che Chiaromonte vuole dire è che al nord l’avanzata degli operai è un fatto realizzato, al sud invece no, ma dal punto di vista del partito significa anche che il PCI è entrato nei governi locali e dovrà trattare con il governo centrale per avere fondi, finanziamenti e permessi. Perciò dovrà mediare e sopportare quelle “contraddizioni”: accettare sia i miglioramenti salariali conquistati al nord a prezzo di dure lotte sindacali, che l’assenza di queste lotte in un sud senza industrie, dove le uniche occasioni di riscatto sociale arrivano dallo Stato – e allora essere o non essere capoluogo regionale e sede di università farà un’enorme differenza.

Una storia sociale da affrontare

Ecco: la lettura della storia di quegli anni dovrebbe presumere la conoscenza di questo sottotesto riguardo alle condizioni materiali di vita: sapere che in concomitanza con la nascita del movimento femminista – o forse la nascita ne è una conseguenza – le donne cominceranno a entrare massicciamente nel mondo del lavoro, al punto che sparirà la famiglia monoreddito, per l’insostenibilità del costo della vita. Da quel momento in avanti i redditi in famiglia saranno due e si creeranno nuove domande a cui lo Stato non darà risposta: chi si occuperà dei figli piccoli prima dell’età scolare? Domanda tuttora inevasa. Chi gestirà la casa, le spese, le bollette, i mutui, le rate, etc.? Prima i ruoli erano definiti e da quel momento è cambiato tutto, con le conseguenze culturali che hanno definitivamente cambiato l’assetto della famiglia da quella tradizionale, ancora patriarcale da cui arrivavano i protagonisti del Sessantotto, a quella nuova, tutta da inventare, dopo le vittorie dei referendum su divorzio e aborto e l’introduzione della pillola anticoncezionale.
Ancora una volta, parliamo di cambiamenti che determinano culture e modi di vivere, che a loro volta determineranno le scelte politiche. Forse ci voleva una monografia a parte per tutto questo, ma è indubbia la necessità di conoscere i fatti anche considerando le trasformazioni della società.
Parlando del Sessantotto e del movimento studentesco: com’era strutturata l’università? Chi poteva accedervi? Quanto costava in rapporto al reddito mediano? Com’erano strutturate le carriere accademiche? E com’era la qualità dell’insegnamento? E com’è l’università oggi? Quali erano le differenze prima e dopo la contestazione e questi cambiamenti sono ancora in vigore? Sono tutte cose che l’alieno che ha finito una sessione di Fortnite non può sapere, ma è necessario adottare questo punto di vista, perché è alle generazioni di oggi che la storia si rivolge.