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Graeber – Wengrow – L’alba di tutto

La storia, scritta o non scritta è piena di abbagli, affermano Graeber e Wengrow nel loro L’alba di tutto e contestano alla radice quella che è stata la chimera degli storici, ovvero la scoperta del famoso “salto”, che non è quello cognitivo da ominide a uomo o da scimmia a ominide, ma quello da società di uguali a quelle fondate sulla diseguaglianza, secondo una linea che, in modi diversi, da Hobbes per la destra e da Rousseau per la sinistra arrivano a uguali conclusioni: la storia dell’umanità evolve da piccole società egualitarie a complesse società gerarchiche, dove l’uomo segue una curva irresistibile secondo cui a miglior progresso materiale segue una progressiva rinuncia ai diritti di uguaglianza.
Ebbene, dicono l’antropologo anarchico americano Graeber e l’archeologo inglese Wengrow, quello dell’uguaglianza è un falso problema, perché siamo tutti disuguali, e non è vero che la società si è evoluta attraverso le fasi progressive che partono dal comunismo primitivo dei cacciatori – raccoglitori, per passare a quelle sempre più gerarchiche degli agricoltori fondate sulla proprietà privata e infine a quelle altamente burocratizzate e impersonali delle società industriali.
Non è vero perché ci sono prove di regimi autoritari fra le tribù di cacciatori, dove il più forte diventava capo e poteva imporre la sua volontà agli altri, così come potevano esserci forme di cooperazione nelle prime città o – addirittura – forme miste dei due tipi di società – gerarchica o comunitaria – a seconda delle stagioni. Gli uomini si spostavano seguendo le rotte migratorie dei grandi animali selvatici, fermandosi in luoghi di pascoli abbondanti e organizzandosi stanzialmente per un certo periodo dell’anno in cui fosse possibile coltivare e vivere dei frutti della terra, mentre in altri periodi, a piccoli gruppi, tornavano agli altri poli di caccia, dove li conducevano le migrazioni.

Una teoria sociale nata per contrastare i filosofi nativi americani

Quello che i due studiosi propongono è un ribaltamento dello schema di lettura della storia prevalente negli ultimi secoli, dai tempi di Turgot, economista francese del Settecento, che per primo ha descritto lo sviluppo della società come un processo a stadi successivi, perché quello che all’epoca premeva all’economista francese era confutare le critiche dei filosofi nativi americani, venuti a contatto con i primi colonizzatori francesi, gesuiti e militari.
Fu proprio uno di questi pionieri, il francese Lahontan, che scrisse un saggio in forma di dialogo con un nativo, Kondiaronk, a fornire un resoconto del modo di intendere la politica e i rapporti di potere nella società indiana, mettendo in evidenza quella che, dal punto di vista indigeno, era l’insensatezza dei sistemi sociali europei dell’epoca, fondati sulle monarchie assolute.
L’alba di tutto è un saggio rivoluzionario perché scardina paradigmi secolari e dimostra, sulla base dei ritrovamenti degli ultimi decenni e su nuove letture dei reperti già studiati, quanto sia sbagliato porsi certe domande sulla lettura della storia dell’uomo. Bisogna sgombrare la mente dai dilemmi sulle presunte uguaglianze e disuguaglianze, che servono a giustificare il paradigma dominante, secondo cui con l’aumentare della popolazione e la crescita delle complessità debba corrispondere un aumento delle diseguaglianze e della restrizione delle libertà.

Le tre libertà e i tre principi fondativi dello Stato

Sbagliata è quindi la domanda: da quando e in quali condizioni le società si sono trasformate in Stati? E soprattutto, quali caratteristiche originarie ha uno Stato per potersi definire tale?
Secondo Graeber e Wengrow uno Stato assume in se, contemporaneamente, tre fondamentali caratteristiche:
1) la sovranità, ovvero la capacità di dare e far eseguire ordini all’interno di un territorio dato sulla popolazione che vive all’interno di quei confini;
2) la burocrazia, che si esprime come controllo del sapere, delle informazioni, dei dati e infine
3) la competizione fra leader carismatici, che sottende la politica vera e propria, che può essere esercitata con la violenza o la persuasione, in ogni caso per ottenere il favore di chi vive entro i confini.
Come entrano in gioco le società che sono state scoperte negli ultimi decenni con queste caratteristiche? Pare che nessuna di queste possa definirsi come Stato, perché gli autori hanno scoperto testimonianze che fanno pensare a sistemi politici in cui una o due di queste caratteristiche sono prevalenti e fondative ma non si trovano mai tutte assieme.
Le società fondate sulla competizione eroica sono spesso piccoli gruppi in perpetua lotta con altri gruppi similmente guidati da capi carismatici e violenti; quelle fondate sulla sovranità hanno un’area di dominio estesa a pochi chilometri dalla capitale; quelle basate sul controllo della conoscenza spesso sono legate a grandi centri religiosi che riescono a imporre un controllo sull’economia, ma non a obbligare i cittadini a pagare le tasse, ad esempio.
Sembra impensabile che nell’antichità gli uomini siano riusciti a inventarsi modi così diversi di convivere; quanti esperimenti hanno fatto e quanto liberi fossero di farne, perché riuscivano a fare buon uso delle tre libertà fondamentali, a cui non riuscivano a rinunciare – e dalla dialettica fra queste libertà e le varie forme di potere hanno avuto luogo i più diversi esperimenti sociali.
I popoli prima di noi del paleo e neolitico esercitavano con pienezza le tre libertà fondamentali:
1) La libertà di andarsene;
2) La libertà di disobbedire
3) La libertà di costruirsi la propria società.
Se l’esercizio delle prime due implica comunque una reazione a una situazione cogente e insopportabile, quindi una reazione in cui si dice no a un determinato sistema di vita, oppure a ordini che sono in contrasto con la propria coscienza, è con la terza che si attiva la parte costruttiva, ovvero quello di organizzare la società che nelle condizioni date possa essere la migliore e quella accettata da tutti.

Le prime città erano egualitarie

Così le società del paleolitico passavano da forme di convivenza stagionale organizzata e ugualitaria (pensiamo a Stonehenge o altri luoghi, poli di attrazione durante alcuni mesi e poi abbandonati per il resto dell’anno) in cui l’organizzazione necessaria per costruire templi, altari o altri luoghi di celebrazione o raduno implicava la messa in comune di energie, tecniche e saperi architettonici, senza che si trovi traccia di alcuna autorità centrale che ordinasse questi lavori o a cui fossero dedicati; alla migrazione in piccoli gruppi da quei luoghi di raduno verso i loro luoghi di origine, distanti anche centinaia o migliaia di chilometri, dove l’autorità di un capo tornava a esercitare il suo potere su un piccolo gruppo, che viveva di caccia, pesca e raccolta.
Gli uomini si organizzavano a seconda delle stagioni e questo dimostra come le prime città come Harappa in India o Teotihuacan in Messico fossero fondate su principi di cooperazione fra gruppi, al limite divise in quartieri abitati da tribù o etnie diverse, ma tutte in concorso per il bene comune. Quanto di più distante dall’idea dominante e astratta di città come modello di organizzazioni complesse che hanno bisogno di un’autorità centralizzata per poter funzionare. Nei ritrovamenti di queste e altre città non è stato rinvenuto un centro (Harappa), ma un insieme di case strutturate allo stesso modo, con differenze nella decorazione e negli interni fra le varie abitazioni; oppure un centro cerimoniale andato distrutto (Teotihuacan) probabilmente da una rivoluzione e gli insediamenti arrivati dopo testimoniano la diffusione di un benessere comune: nella città messicana antecedente alle civiltà maya e azteca tutte le case erano ampie e dotate di acqua corrente, assieme a un efficiente sistema fognario, senza la presenza di palazzi o edifici più grandi che potessero far pensare ad abitazioni di nobili o re.
Parliamo di città e civiltà la cui esistenza è durata per secoli, non di testimonianze effimere.

Uscire dalla trappola

Sarà per questi e altri esempi, sarà per l’orientamento politico degli autori, che la lettura de L’alba di tutto porta davvero a credere che sì, un altro mondo è possibile, quella che stiamo vivendo non è l’unica realtà, possiamo evolverci, scegliere e sfuggire dalla trappola in cui siamo caduti, secondo cui stiamo vivendo – a prezzo di compromessi e rinunce crescenti – nel migliore dei mondi possibili.
Non è stato così in passato – e non è detto che debba essere lo stesso in futuro, così ci dicono Graeber e Wengrow, illustrandoci con centinaia di esempi che il modello basato su diseguaglianza, accumulazione, avidità e sfruttamento dell’uomo e delle risorse non è destinato a durare per sempre, che dobbiamo sempre tenere presente che abbiamo l’opportunità di cambiare le cose, perché dovremo sempre ricordarci di esercitare le nostre tre libertà: libertà di andarsene, equivale alla libertà di movimento, equivale alla ricerca di condizioni migliori in cui vivere; libertà di disobbedire, perché quello che ci viene proposto cozza con la nostra coscienza, volontà, cultura, biologia; libertà di costruire una società, che equivale alla libertà di tentare e che dev’essere unita alle altre due, così che il consenso su quanto andremo a costruire sia fondato sulla coscienza e sulla responsabilità.

Ricordarsi di Occupy Wall Street

E’ un po’ troppo anarchico? Graeber è stato uno dei promotori e principali animatori del movimento Occupy Wall Street, la cui esperienza – condivisibile – avrebbe dovuto far riflettere. Occupy Wall Street non aveva una struttura dirigente, praticava una democrazia orizzontale fondata sul consenso ed è riuscita – anche se per poco – ad attirare l’attenzione su di se e sull’ineguaglianza con lo slogan “Noi siamo il 99%”, in contrapposizione all’1% che detiene il 25% della ricchezza in Europa, il 35% in Nord America e il 45% in Medio Oriente, Nord Africa, America Latina, Russia e Asia centrale e le altre aree del mondo distribuite all’interno di questi estremi. E’ stato grazie a Occupy Wall Street se il dibattito sulla disuguaglianza è diventato uno dei temi più dibattuti, che ha creato il clima per la pubblicazione e il successo de Il capitale nel XXI secolo, di Thomas Piketty. Tuttavia, anche se oggi questi temi permangono, non c’è più un movimento come Occupy Wall Street, né da quell’esperienza sono nate organizzazioni in grado di portare avanti una lotta politica. E’ mancata la continuità e – dall’esperienza dei partiti politici – la continuità è data dall’organizzazione di una struttura ramificata sul territorio, con sedi, riunioni e partecipazione. Nei partiti di massa c’è un elemento di indottrinamento e disciplina che può portare a distorsioni e corruzione, fino al tradimento dei valori fondativi che il movimento OWS voleva evitare, ma senza alternativa il movimento si è sciolto.
Abbiamo gettato le organizzazioni alle ortiche per amore di una supposta libertà di disobbedire e di andarsene, senza far uso della libertà di costruirsi gli strumenti per portare avanti le lotte necessarie: credo che questa estrapolazione vada al di là di quello che il libro volesse far passare, ma è indubbio che porti a pensare in questa direzione.

L’alba di tutto

In sé, L’alba di tutto è una rivoluzione copernicana del pensiero storico e filosofico degli ultimi quattro secoli, un ribaltamento di concezioni fino a poco fa accettate senza discussioni che sono crollate sotto il peso delle prove.
L’alba di tutto è quello che in altre epoche poteva essere definito un libello, soltanto che non è un libro nato per fare polemica: le sue affermazioni sono documentate da una robusta bibliografia che in molti casi non si limita alle citazioni, ma che amplia e arricchisce la lettura.
L’alba di tutto nasce con lo scopo di confutare un paradigma, quello secondo cui in antichità gli uomini erano selvaggi, nobili o stupidi, ma comunque persone che tendevano a comportarsi con tratti istintivi e non invece simili a noi (e con noi venivano intesi i maschi etero bianchi, europei o americani). Questa è stata la teoria che ha alimentato ogni razzismo, secondo cui ogni popolazione assoggettata durante il colonialismo veniva fatalmente assimilata a questa idea di stupidità, con la conseguente giustificazione della missione di civiltà che copriva l’appropriazione, lo sfruttamento quando non la riduzione in schiavitù o il genocidio. Quello che Graeber e Wngrow non hanno condannato moralmente l’ideologia nata da Turgot, ma ne hanno completamente confutato i presupposti: ci vorrà del tempo perché questa idea si sviluppi completamente ed entri nella cultura comune a tutta l’umanità, ma bisogna far di tutto per propagarla.