Goliarda Sapienza - L'arte della gioia
Ho cercato di documentarmi sulla vita di Goliarda Sapienza e cercherò di leggere la sua biografia. Ci sono romanzi dove la persona del narratore non appare, è come un astro lontano che osserva dall’alto. Pure ci sono, nascosti, elementi che da un romanzo all’altro, da una storia all’altra, ricompaiono come ossessioni, al punto da far sospettare che in tutta una vita e una carriera artistica il narratore abbia scritto attorno a un unico tema, o meglio, un unico romanzo con diverse varianti, innesti che partono da un’idea originaria. Uno può essere Herman Hesse, uno scrittore-filosofo, che ha dedicato la sua scrittura alla ricerca della soluzione di un conflitto duale, molto tipico di tutta la tradizione idealistica tedesca.
Ci sono romanzi dove la persona del narratore non appare, dove è talmente straordinaria la varietà di temi e personaggi, sviluppi e intrecci, che l’autore è davvero uno, nessuno e centomila. Shakespeare, inarrivabile, fa parte di questo gruppo. Talmente immenso che si hanno sospetti sulla sua identità; Omero è un altro, di cui si diceva che neanche fosse esistito, ma che sotto il nome di Omero si raggruppassero più autori nel corso dei secoli. Tolstoj un altro ancora.
Ci sono poi romanzi e vite artistiche interamente centrate sulla propria biografia e tutto quello che accade ai protagonisti viene riportato in prima persona. E’ l’io narrante, l’autore che decide e ha bisogno di mettersi a nudo. O, in negativo, di esaltare il proprio ego narcisista, che usa il lettore come uno specchio per vedersi di rimando. Penso a Henri Miller, a Kerouac, agli americani della Beat Generation e della Lost Generation. Autori che hanno saputo raggiungere il sublime attraverso l’esibizione della propria vita, riuscendo a rendere straordinaria e universale la loro vicenda. Sono unità che vogliono diventare centomila.
Ci sono infine autori che scrivono di se stessi attraverso altri personaggi, ma questi personaggi sono una maschera, una persona, per dirla all’antica, attraverso cui fare agire le proprie idee, i propri istinti e passioni. Attraverso cui immaginare vite che non ci si può permettere perché soffocati dalle circostanze: la povertà, le costrizioni, le umiliazioni piccole e grandi della vita quotidiana. Allora il romanzo diventa un rifugio, l’arte si eleva a momenti in cui lasciare libere l’immaginazione e le parole. Dove – sembra – le parole come dice Modesta, la protagonista, sono solo un gioco, fanno parte della vita e la stessa Modesta un bel giorno le ha lasciate perdere – ha smesso di scrivere poesie – per non doverne dipendere, per non essere un’impiegata dell’arte.
E’ quello che anche Goliarda avrebbe voluto, se non avesse inventato un personaggio più potente di lei. Quindi, come accade in ogni personaggio riuscito, modesta, la Mody protagonista dell’Arte della gioia emerge dalla mente di Goliarda Sapienza e vive prepotentemente di vita propria, esce dalla pagina ed entra nella testa del lettore, che ambisce alla sua compagnia, vuole sapere quello che dirà ogni volta che apre il libro.
Un personaggio tirannico
Deve aver patito, Goliarda Sapienza, con un personaggio simile fra le mani. Uno che non ti molla, che ogni giorno ha da dire la sua, che si impone a dispetto della volontà dell’autore. Succede l’opposto di ogni narrazione: è Goliarda Sapienza che parla e scrive per bocca di Mody. Lei è così forte e potente da riuscire a mettere in riga uomini, donne, mariti, amanti, amici e nemici. Con gli amici sarà fedele e leale per sempre, fino alla loro morte e anche dopo. Sarà spietata e veloce nella sua vendetta. Approfittando del denaro e del potere della famiglia Brandiforti, che lei ha tenuto in piedi, ha mandato avanti il nome dopo la presunta fine per mancanza di eredi.
Goliarda Sapienza ha inventato il personaggio di Modesta per poter fare e dire quello che davvero lei voleva fare e dire e che le circostanze della vita non hanno permesso. Goliarda nasce da una famiglia socialista rivoluzionaria, e assorbe idee e stile di vita che erano avanzati per l’epoca in cui ha scritto L’arte della gioia (anni Sessanta e Settanta del Novecento).
Erano sì gli anni della liberazione sessuale, ma non bisogna dimenticare che l’impianto della famiglia restava in gran parte tradizionale. Gli anni Settanta hanno segnato la fine della famiglia patriarcale, ma non hanno salutato l’avvento di quella matriarcale, che è quella descritta da Goliarda nel suo libro e che risulta alternativa e desiderabile rispetto all’ibrido uscito dal decennio, dove il ruolo della donna esce rafforzato, ma che si rivela uno strumento utile al capitale. La donna entra a far parte della forza lavoro più per necessità che per emancipazione. Laddove negli anni Sessanta bastava il solo reddito del marito, poi dopo la crisi petrolifera del ’73 e l’inflazione galoppante italiana, la necessità di un doppio reddito per vivere è diventata stringente, pena la povertà e l’assenza di futuro per i figli.
Le donne sono rimaste gli angeli del focolare nella cura dei figli, nella gestione della casa e in più si sono sobbarcate gli oneri del lavoro. Questa è stata la risposta del capitale a un decennio di rivendicazioni, che hanno annegato tutte le idee che sgorgano dal libro di Goliarda. Era chiaro a questo punto che quelle idee possono farsi fatti e vita solo in assenza dei vincoli del lavoro, con il tempo a disposizione. Goliarda scrive che si può fare, ma non bisogna scordarsi che tutto avviene a spese di chi lavora per tenere pulite e mandare avanti ville e case in città.
Attorno a Modesta si vive in una repubblica platonica delle idee, dove si è liberi dal bisogno ed è possibile educare e crescere i figli secondo le loro inclinazioni, aiutandoli a incanalare le loro energie, incoraggiandoli nei loro talenti, lasciandoli liberi di vivere i loro amori. I ragazzi sono figli di Modesta (Prando, frutto di un adulterio perché Modesta era sposata all’erede maschio dei Brandiforti, fortemente handicappato dalla sindrome di Down e morto giovane, l’adulterio viene consumato con Carmine, il capobastone che è anche il padre naturale di Beatrice) oppure adottati (Jacopo, figlio del marito e della sua badante Inés), Bambolina/Bambù/Ida (figlia della cognata Beatrice, con cui ha trascorso anni di amori segreti) e assieme a loro costruisce una specie di comunità ideale, dove si può discutere di tutto, arrabbiarsi e gioire, soffrire e patire.
Al centro c’è sempre lei: Modesta, estremità antitetica del suo nome che non si può definire ridondante, ma partecipe e soprattutto desiderante. Modesta non è schiava di nessuno e di niente: non è schiava degli uomini, perché resta vedova giovane e non si risposa per non essere comandata; non è schiava delle cose, perché usa quello che ha e ha ricevuto per liberarsi dal bisogno, ma non rincorre il possesso di nulla; non è schiava delle parole perché, anche se ama scrivere, a un certo punto smette in favore della vita; non è schiava nemmeno del desiderio, infine, perché sa sempre quando esercitarlo anche se non perde una sensazione.
Modesta raggiunge al femminile l’ideale di vita stoico: assaporare la vita, esercitare desiderio e passione mantenendo la capacità di distacco, senza soffrire e far soffrire. E quel distacco lo esercita anche negli affetti che la morale comune e la biologia vorrebbe supremi, nel rapporto con suo figlio Prando, da cui lei si allontana quando scopre che suo figlio vive sugli allori di un ostentato antifascismo, che ha capitalizzato in relazioni e attraverso l’avvocatura. Prando diventa ricco in modo indegno; non glielo dice, perché secondo Modesta – in fondo in fondo – ogni accumulo, di denaro, potere, influenze, cibo, sesso è qualcosa che non le appartiene. Lei non è così e non vuole essere così. Amare tutti e non dipendere da nessuno: è questa la perfezione impossibile che Modesta esercita su tutti. Goliarda Sapienza propone un ideale irraggiungibile da noi umani. Modesta non sarà mai di qualcuno, neanche dei suoi figli, naturali o acquisiti. Ma questo non vuol dire che non li ami, ma il suo amore si esplica nell’osservarli su come si rendono persone libere, su come si costruiscono attraverso le loro passioni, le relazioni intrecciate fra loro e fra loro e il mondo di fuori.
Sì, perché il mondo di Modesta è un’arcadia. Se si può muovere una critica è proprio questo e cioè che la storia – e in qualche modo la vita – resta fuori, anche perché è Modesta che riesce a ricomprendere nel suo mondo chiunque incontri. Anche quando finisce in galera, riesce a risucchiare Nina, a farne una nuova amante. A vivere – penserà poi – i migliori giorni della sua vita fra quelle quattro mura di privazioni e più avanti al confino su un’isola.
Questo è il momento in cui la vita di Modesta incontra la storia. Lei riesce a tenerla a bada, ad osservarla anche attraverso le sbarre. Riesce a tenerla a bada vendicandosi senza pensarci un secondo su chi le ha privato di affetti, amori e amicizie.
C’è Pietro, gigantesco e silenzioso come un automa, una specie di Clemenza del Padrino, che zitto esegue o ordina dopo aver ricevuto disponibilità illimitate per compiere i suoi disegni. Modesta esercita i diritti abusati dei principi Brandiforti, quando è il caso. Per chi toglie la vita non si deve avere pietà, specialmente quando ha colpito vigliaccamente gli affetti più cari. Perché Modesta / Mody è principessa per davvero, pronta a usare il suo potere quando è necessario, in una Sicilia rimasta alla signoria dei nobili della terra dai tempi dei normanni.
I signori sono ricchi e istruiti, gli altri sono poveri contadini e quelli intelligenti diventano sicari prezzolati dei nobili, con cui si andranno a imparentare, per svecchiare il sangue. Alla fine è tutto come nel Gattopardo? Tutto cambi perché nulla cambi? Non è vero. Le persone sono cambiate; Modesta è l’agente di quel cambiamento. E’ il motore trainante e l’esempio che porta la rivoluzione all’interno delle mura domestiche. E lo fa con leggerezza ed equilibrio; anche quando si ritrova a ordinare le cose peggiori. Anzi, questi ordini sono un inciampo necessario – Goliarda Sapienza vi dedica poche righe, non scende in particolari. L’arte della gioia non entra in contrapposizione, però si pone come continuazione – o come una variante ottimista – del Gattopardo.
I grandi sconosciuti
Voglio provare a fare una classifica dei grandi misconosciuti, misconosciuti in vita, poco pubblicati o mai pubblicati: Guido Morselli, Giuseppe Tomasi di Lampedusa, Goliarda Sapienza, Luisito Bianchi (La messa dell’uomo disarmato, pur pubblicato dopo anni di travaglio, è passato inosservato, ma è uno dei migliori romanzi sulla Resistenza): ci sono abbastanza libri e romanzi per fare un contro-accademia della nostra letteratura.
Ci hanno fatto studiare Italo Svevo perché raccomandato da Joyce, altrimenti sarebbe finito nel dimenticatoio, un altro dei tanti non pubblicati o pubblicati ma ignorati. Eppure è il più grande del Novecento. Ci è arrivata Goliarda Sapienza come un ritorno ben accetto, perché in Francia era diventata in piccolo un caso come Elena Ferrante lo è stata negli Stati Uniti. Non a caso la gloria della critica americana e le vendite oltreatlantico hanno aperto un caso Elena Ferrante, anche qui passata inosservata. Prima e a cavallo della cosiddetta fuga dei cervelli, assistiamo a una fuga del romanzo, disconosciuto in Italia, salvo fare finta di accorgersi dell’esistenza del capolavoro passato sottotraccia, dell’autore sconosciuto e outsider fuori tempo massimo.
Un politologo e teorico come Antonio Gramsci è studiato nelle università di tutto il mondo, ma in Italia ne sappiamo poco o niente. In compenso ci rompiamo le corna su Gaetano Mosca, il teorico della classe politica, non a caso un conservatore che fino all’ultimo ha cercato di limitare il suffragio universale per difendere la benedetta elite dall’invasione dei barbari. Un po’ come hanno fatto i vari Napolitano, Scalfari e gerontocrati vari per mantenere in sella la loro classe sociale, convinti da smisurata presunzione che dopo di loro ci fosse il nulla.
Cosa hanno in comune questi autori di storie e visioni diversissime: forse quello di essere troppo veri, di non rispettare il codice imposto delle maschere. Come se la complessità della nostra storia potesse essere tutta ridotta a una galleria di facce, oppure il romanzo come genere debba essere superato da forme sperimentali comprese da pochi addetti ai lavori. Questa galleria di rifiuti ha il suo apice negli anni Settanta ed è figlia della paura che la forma romanzo ha sempre esercitato.
Sembra che alle nostre elite la verità faccia paura, che scavi. Perché la cronaca si può scordare, la giustizia si può ritardare e annullare, il romanzo afferma una verità, e da quel momento non se ne potrà più fare a meno. Non potremo più ragionare di potere – e di potere in Italia – senza ricordarci della lezione del Gattopardo – alla faccia di Gaetano Mosca! E perché questo? Mosca e Tomasi di Lampedusa dicono le stesse cose, ma il Gattopardo sarà sempre popolare e soprattutto ha il potere di aprirci gli occhi e farci incazzare, mentre la bella teoria di Mosca ha il potere di addormentarci e farci credere che le cose debbano sempre restare come stanno.
Ma la storia ha già più volte insegnato che la difesa del vecchio regime porta ai fascismi in casa nostra – e ora anche in Europa.
L’arte della gioia è stato rifiutato in Italia – e ora mal digerito, a dirla tutta – perché propone un modello rivoluzionario di famiglia, si fa portatore di una visione nuova dei rapporti, fondata sulla lotta con e assieme alla donna. Uomini e donne assieme, per vincere assieme le stesse battaglie. Il femminismo americano – da noi importato, secondo Goliarda – ha il torto di isolare i sessi, di contrapporli in una battaglia di genere, in quella che in realtà è e dev’essere una battaglia di potere e di civiltà. La questione di genere è un falso obiettivo, rientra nella logica dividi et impera, un bersaglio messo a bella posta dal potere per impedirci di crescere come umanità, donne e uomini assieme. E’ questo quello che ci dice Goliarda, ed è un insegnamento pericoloso, qualcosa che non si può controllare; è una rivoluzione dal basso, senza clamore. Un nuovo modo di vivere la famiglia, di intendere maternità e paternità. Di crescere i figli liberi, ma di essere liberi dai figli, di continuare ad amare nonostante i figli possano diventare il contrario di quello che avremmo voluto come genitori, come Prando con Modesta.