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Giorgio Fontana - Prima di noi

Eccoci finalmente, mi ero detto quando ho preso in mano per la prima volta il volume di Giorgio Fontana, in libreria. Questa è la storia che stavo cercando da anni, la storia italiana attraverso il Novecento, la nostra storia, i nostri anni, quelli dei nostri padri, dei nostri nonni, le nostre radici, da dove veniamo, che tanto ci fa comprendere perché siamo così. Siamo così per le storie che ci vengono raccontate, tramandate, siamo così perchè quelli prima di noi hanno scelto di raccontarci proprio quelle storie – e non le altre che hanno vissuto, e non quello che avrebbero voluto e mai ottenuto, e non le grandi speranze deluse – e su queste storie sono state modellate le azioni di quelli venuti dopo, in una coazione a ripetere gli stessi errori, oppure, che è la stessa cosa, a commettere un errore pensando di aver fatto la cosa giusta perché era stata giusta quando era stata fatta ai tempi di quelli prima di noi.
Tutto questo mi aspettavo di trovare e in parte l’ho trovato. Ho trovato la storia di una famiglia attraverso gli eventi della Storia di un secolo, che era quello che stavo cercando, eppure sento che qualcosa manca in una costruzione perfetta. Perché in Prima di noi i capitoli sono scanditi e la storia di un personaggio si sviluppa in un capitolo e nel successivo si passa a un altro, che sappiamo già chi è. Ogni tanto interagiscono fra loro (sono della stessa famiglia), ma mi sfugge capire il senso di cosa stiano facendo e forse è quello che l’autore vuole dirci, cioè che la vita vissuta non ha un senso se non per la storia che ci costruiamo sopra, ma il punto è che proprio questa storia non ha senso.

La storia come passione

Sappiamo da che parte sta Giorgio Fontana: dalla parte giusta e però questa parte non si sente nel romanzo, perché l’autore si mantiene equidistante, come se attuasse un manuale Cencelli a proprio consumo o – peggio – una forma di autocensura che gli impedisca di mostrare il senso, il messaggio di tutto il suo racconto. Così abbiamo due fratelli: uno religioso democristiano e l’altro comunista, operaio, ma uno fa le cose che ci si aspetta o faccia un borghese e l’altro quelle che fa o direbbe un ribelle, non hanno sbavature o incoerenze. Eppure ci sta tutto, sono esistite davvero persone così, tutte di un pezzo; però se si organizza un romanzo in questo modo, l’effetto è che non risaltano le emergenze, il cigno nero, l’uomo che morde il cane. L’effetto è che questa storia famigliare, turbolenta e magmatica ma anche comune a quella di molti, non suscita un’identificazione che dovrebbe invece scattare, perché quelle che vengono raccontate sono le storie di molte famiglie, le storie di tutti noi.
Allora mi sono detto che un romanzo come questo è comunque importante perché vengono raccontate le vite attraverso la Storia: due guerre, gli scioperi, la contestazione studentesca, le stragi di Stato, il terrorismo, tutte cose che conviene ci mettiamo a spiegare ai nostri figli, perché non crescano nel vuoto del presente, nell’immediato dei social, con i loro deleteri effetti disruptive, in primo luogo sulla memoria. La storia di Fontana è sicuramente un modo meritorio per dare conto di tutto questo, a patto che l’intento pedagogico non prevalga sulla passione, sul messaggio che si vuole fare arrivare.

Un equilibrio fra le parti

La storia famigliare di Prima di noi è apollinea, perché ha le qualità di equilibrio fra le parti, equidistanza e bellezza che Nietzsche attribuiva al dio della musica. I dialoghi sono ben scritti, i personaggi caratterizzati e riconoscibili, eppure si ha una strana sensazione di freddezza, riscontrata anche in altre recensioni che fanno riflettere e pensare alla mancanza di un centro. Eppure Prima di noi ha avuto recensioni positive e condivisibili:

Uno degli effetti che più facilmente provocano i romanzi realisti, specialmente quando non indulgano a coloriture avventurose e drammatici colpi di scena, è un senso di intima vanità dell’esistenza. I personaggi vivono, crescono, amano, godono e soffrono, si agitano o si placano, viaggiano e tornano. A volte si ammalano. Invecchiano. Muoiono. Se scorrono i decenni, i morti inevitabilmente aumentano. E allora? può venire da chiedersi. Cosa significa tutto ciò? Che senso ha tutto l’effimero umano affannarsi? Anche la lettura del libro di Fontana suscita quesiti simili, ma qui non manca qualche spunto di risposta. Se la vita delude, se è inevitabile commettere errori, se molte aspettative sono destinate a essere deluse, mantenere memoria delle proprie origini, coltivare gli affetti, e all’occorrenza cercare di recuperare le relazioni che tendono a vanificarsi, ebbene, tutto questo aiuta. Magari non a sciogliere metafisici dilemmi, ma almeno ad arrivare in fondo a un romanzo di novecento pagine. Non è poco. (Mario Barenghi, Giorgio Fontana, Prima di noi; su www.doppiozero.com 01/04/2020)

Ma Barenghi coglie un aspetto e cioè che a questo romanzo non “si chiede di sciogliere metafisici dilemmi” e su questa posizione salva il lavoro di Fontana, perché grazie all’indiscussa capacità di scrittura questo lavoro arriva al termine.
Ma allora, qual è il punto? Se un romanzo è ben scritto, i personaggi sono azzeccati, tutto è a posto, i dialoghi funzionano, cosa è quello che manca? Ed è dura ammettere questo, perché vengono messi in discussione il tempo di lettura necessario a terminare un libro di circa novecento pagine e soprattutto gli anni di lavoro e ricerca dell’autore. Credo che quello che manchi sia qualcosa che si è spostato nel frattempo, che non è più lì dove si svolge l’azione, dove si muovono i personaggi.

La vita è altrove

Per il capostipite Maurizio sono le parole degli altri – che lui ritiene inutili e ingannevoli – a fregare la gente, a lasciare i poveri e i disgraziati a vivere in basso, a impedire di vedere la luce. Ma lui non pensa nemmeno a quello, non arriva neanche a formulare una simile ambizione – vedere la luce – perché – appunto – gli mancano le parole e non per mancanza d’istruzione (anche se quello conta), ma per una scelta di adattarsi al peggio: non sono istruito e non voglio esserlo perché le parole ingannano.
In questo modo si decide che quello che conta è da un’altra parte: che la Storia faccia il suo corso lontano da me e che il mondo vada in malora. Ma in questo modo quello che conta è solo la pelle, la vita biologica: lavorare per dovere, fare figli e andare all’osteria; dov’è il senso in tutto questo? Dov’è il senso se mancano le parole per tramandare quello che si è stati, quello che si è voluti essere, quello che siamo diventati? Maurizio Sartori è l’inizio del libro e della storia di famiglia, ma pure il mistero di una vita non risolta. Solo nella sua storia poteva esservi il tema di un romanzo, ovvero tutti i tentativi falliti di dire qualcosa alla moglie, ai figli e che non ha fatto perché qualcosa di oscuro aveva preso la sua vita da sempre. Com’è nato, dove ha vissuto, chi erano i suoi genitori, da chi ha preso? Di lui sappiamo e capiamo che manca qualcosa e questa pecca sposta tutto verso l’esterno, il fuori.
In La vita è altrove Milan Kundera racconta la storia di Jaromil, un poeta di regime nella Cecoslovacchia del dopoguerra, che vive per interposta persona la vita di un personaggio che si è inventato fino ad ammettere, con amarezza, alla fine della sua vita, che la vita è altrove:

La vita è altrove, hanno scritto gli studenti sui muri della Sorbonne, citando Rimbaud. Sì, lui lo sa bene, è proprio per questo che lascia Londra per l’Irlanda, dove il popolo si è ribellato. Si chiama Percy Bysshe Shelley, ha vent’anni, è poeta e porta con sé centinaia di volantini e proclami che gli serviranno da salvacondotto per entrare nella vita reale.
Perché la vita è altrove. Gli studenti tolgono i cubetti di porfido dalle strade, rovesciano le automobili, fanno le barricate; il loro ingresso nel mondo è bello e rumoroso, illuminato dalle fiamme e salutato dagli scoppi dei candelotti lacrimogeni.
[…] E Percy Bysshe Shelley, che come Jaromil aveva un viso da ragazza e dimostrava anche lui meno della sua età, correva per le strade di Dublino, correva, correva, perché sapeva che la vita è altrove. E anche Rimbaud correva senza posa, a Stoccarda, a Milano, a Marsiglia e poi nello Harar, a Eden e poi di nuovo indietro a Marsiglia, ma ormai aveva una gamba sola, e con una gamba sola è difficile correre.

Determinati dalla storia e dalle condizioni sociali

Non trovo paragone o parole migliori per far capire quello che non c’è, ma che non viene esplicitato, come avviene nel romanzo di Kundera. La vita e le azioni di Maurizio Sartori, il capostipite da cui Fontana decide di avviare la sua storia, contengono un peccato originale e questo nodo non viene sciolto né portato all’attenzione del lettore in forma di domanda. Ecco, con le parole di altri, quello che manca in Prima di noi non si trova; è – appunto – altrove.
Se guardiamo Prima di noi dall’alto vediamo l’andamento demografico italiano: prima generazione, bisnonni, Maurizio e Nadia, che hanno tre figli: Gabriele, Domenico e Renzo; Domenico muore in guerra e Gabriele e Renzo di sposano con Margherita e Teresa; ognuna delle due coppie ha due figli: Eloisa e Davide (figli di Gabriele e Margherita), Libero e Diana (figli di Renzo e Teresa). Da due nonni a quattro nipoti, nati fra gli anni Sessanta e Settanta del ventesimo secolo, il saldo demografico è positivo, mentre il calo, se non il crollo, arriva alla quarta generazione, dove dai quattro cugini nasceranno solo due discendenti, Letizia (figlia di Eloisa e Federico) e Dario (figlio di Libero e cresciuto solo da lui, perché la madre, Marta, lascia la famiglia quando lui ha due anni e mezzo per andare nelle missioni in Africa).
Fra le cause che intuiamo nel romanzo per questo crollo ci sono le diminuite opportunità di ascesa sociale, quando non di crescente difficoltà ad accedere a un’occupazione. Il lavoro da certezza per le generazioni precedenti diventa precario: niente è per sempre, men che meno per tutta la vita: le crisi aziendali, le ristrutturazioni, i tagli per far posto alle macchine e i tracolli incombono e accadono più volte nel corso di una stessa carriera. Questa è la mancanza di base, il vero handicap, mentre cambiano i parametri del benessere e ogni generazione pare viver meglio della precedente. Ma il prezzo per poter vivere meglio della precedente è la rinuncia, presentata come emancipazione: avere una famiglia è molto più faticoso quando si è in due a lavorare e spesso la risposta è la rinuncia ai figli, quando non la rinuncia a un partner. In cambio di questa rinuncia: a lavoro, casa, famiglia e un bel pezzo di futuro, c’è la sola libertà. Libertà di orientamento sessuale, di scelta professionale, di spostarsi liberamente, di studiare o lavorare ovunque. Questo è il benessere che viene offerto in cambio, presentando le opzioni precedenti come ostacoli o vincoli alla piena espressione di se. Per la generazione nata negli anni Trenta, quella di Gabriele e Renzo, non c’era scelta: si terminava la scuola a dieci-undici anni con la quinta elementare, al massimo le medie e poi a lavorare. Non era quello che mancava: a mancare erano le occasioni di guadagno, ma per il lavoro c’erano sempre i campi di famiglia; poi a vent’anni il matrimonio e l’arrivo dei figli.
Per chi è nato fra il 1980 e il 2000 il matrimonio e i figli arrivano fra i trenta e i quarant’anni come il coronamento di altri obiettivi raggiunti: la stabilità lavorativa, l’abitazione, il rapporto con il/la partner. Il matrimonio non è più un rito di passaggio, ma viene deritualizzato per motivi economici: nessuno si vuole più indebitare per un solo giorno di festa; più spesso non ci si sposa nemmeno.

Il riflusso è il vero altrove

Quello che Giorgio Fontana fa emergere è l’ambiguità dello sviluppo degli ultimi settant’anni e anche un certo rallentamento della storia, cui fa da contraltare l’accelerazione della narrazione, scandita da capitoli e parti sempre più brevi, che diventano tableaux vivants: descrizione del personaggio a cui tocca rigorosamente il capitolo, colto in una situazione specifica, in momenti di quotidianità più o meno straordinari, che vogliono simboleggiare lo stato della loro esistenza ripreso in quel momento.
Nella prima parte di Prima di noi lo sfondo è fatto di grandi eventi: le due guerre mondiali, il fascismo, la resistenza, le lotte operaie e di emancipazione, la rivolta del Sessantotto e il decennio lungo di contestazione degli anni Settanta: è un periodo in cui nel male (le guerre, il terrorismo) e nel bene (l’ascesa del movimento operaio e studentesco) le masse sono protagoniste e la famiglia Sartori è parte di tutto questo assieme a milioni di altri. Poi tutto si avvicina a noi, l’ambiente si fa più familiare – anche se si mantiene lo squallore della periferia milanese dove è ambientato gran parte del romanzo – il riflusso travolge le vite di chi è rimasto, magari sopravvissuto all’eroina; non c’è più la storia da fare e anche la vita è in un altrove assoluto.
Prendiamo le vite dei quattro figli di Gabriele e Renzo. Eloisa passa gli anni della contestazione in una mini comune anarchica, da cui si distacca, per poi diventare avvocato, si sposa con Giulio e hanno una figlia, Letizia. Eloisa capisce molto presto che quell’altrove cercato nell’Idea anarchica non è cosa di questa terra e se ne distacca da giovane, cercando di compensare quell’assoluta devozione con le cause civili dei Radicali. Diana è portata per la musica, ma capisce presto che non potrà diventare la virtuosa di pianoforte che sognava e diventa una cantautrice di culto nell’hinterland milanese, ma soprattutto passerà la vita ad aver paura che la sua attrazione per le donne sia scoperta. Lei forse trova il suo altrove nell’amore semiclandestino con Sandra, ma la sua breve felicità è interrotta da una morte prematura. Libero è debole come lo era Domenico, lo zio morto in guerra che i nipoti non hanno conosciuto. Il suo sogno è una vita mediocre, un po’ come don Abbondio, cercando di scansare pericoli, ma pure questo si rivela un altrove irraggiungibile. A venir meno sarà quello che riteneva un porto sicuro, il matrimonio con una moglie mai amata davvero, (che lo lascerà per andare in missione in Africa) e lui troverà in suo figlio la ragione della sua vita; lo crescerà da solo e svilupperanno un rapporto speciale. La sua è una crescita lenta e dolorosa, passata attraverso le umiliazioni dai bulli della scuola e una lunga parentesi da alcolista, per arrivare infine a una fragile consapevolezza. Infine Davide, l’uomo senza un centro, che girerà tutti i continenti come fotografo, alla ricerca di un altrove che lo lascia con il vuoto; il suo è amore per il mondo, troppo vasto per essere contenuto. Anche lui capisce che quell’altrove che è la libertà da tutto e da tutti è irraggiungibile e troverà una temporanea pace nel rapporto con Sophie, che è come lui. Saranno l’uno l’anima gemella dell’altro, donandosi reciproca comprensione.

La libertà da ha ucciso la libertà di

Quell’altrove che non si trova è infine la pretesa di assolutezza di Dario, deciso a lasciare un segno, determinato a riscattarsi con la forza della sua intelligenza, ma alla ricerca di una purezza e solitudine che si rivelerà irraggiungibile tanto quanto l’Idea anarchica di Eloisa. Anche Letizia, l’ultima discendente della famiglia Sartori, vive una vita tormentata, anche lei cerca un altrove; ricerca frustrata dalle circostanze, che tormentano la sua vita, deteriorata dalle aspettative dei genitori e dalla storia della sua famiglia, da quel senso di inadeguatezza, di paura di non essere all’altezza di quanto, nel bene o nel male, hanno realizzato quelli prima di noi. Non c’è una soluzione, non c’è una direzione e tantomeno un senso. Se ci aspettiamo una marcia verso il meglio, da una generazione all’altra, questo cammino rallenta con la terza e si inverte con la quarta: i pronipoti di Nadia a Maurizio sembrano destinati a vivere peggio dei loro genitori, mentre la cultura ha virato verso la libertà, ma questa sarà solo una libertà da, cioè una libertà da vincoli e lacci che impediscono la realizzazione di se, perché nel sogno neoliberista di inizio millennio anche la famiglia e la riproduzione sono vincoli e il risultato è la solitudine e la mancanza di speranza. L’affermazione della libertà da è stata prima il palliativo e poi l’alternativa alla libertà di: libertà di crescere, imparare, mettersi insieme in una famiglia e in una comunità, di riprodursi.
Quello che ci mostra Fontana è il punto di arrivo di questo svuotamento progressivo, di questa ossessione per i soldi e le cose, di questa ansia di trovare sempre qualcosa con cui affermare il proprio se, e che si incarna in un nuovo acquisto, un nuovo viaggio, un’ennesima prepotenza o cattiva reazione con chi, in quel momento, è più debole. Forse, infine, è questo quello che ci portiamo dietro alla fine della storia di quattro generazioni vissute in gran parte nell’hinterland milanese, quella terra di mezzo da cui si è sviluppata la forza industriale del paese, e che dopo la deindustrializzazione è rimasto il cuore dell’economia, dei servizi e della logistica, ma il prezzo che è stato pagato si vede in un’urbanistica priva di senso, dove le macerie delle vecchie industrie fanno da collante a campi incolti trasformati in parcheggi per aeroporti, lungo strade disseminate da centri commerciali, capannoni, stazioni di servizio nel più totale anonimato, senza un vero centro. Il vero centro è laggiù, lontano, a Milano (ma potrebbe essere Londra, Berlino, o Dublino, come nel caso di Dario), irraggiungibile per i prezzi sempre più alti delle case e nella terra di mezzo ci si sposta in macchina, da un altrove a un altro uguale.