Gabriele Del Grande – Dawla. La storia dello stato islamico raccontata dai suoi disertori
Si può leggere come l’antistoria, il racconto dello Stato islamico da parte di chi lo ha creato e vissuto e dal quale si è allontanato.
Si può leggere Dawla come è stato letto Gomorra e c’è da sperare che non ne esca una serie tv o film, perché significherebbe che ci siamo abituati all’orrore, anche se in forma di finzione.
Le prime 120 pagine sono un impatto fin troppo obusto, ma necessario: qui non si ascoltano testimonianze di ex militari dell’ISIS, ma viene dato conto del perché è nato, spiegano il perché dell’odio di cui i miliziani dell’esercito islamico sono portatori. Spiegano la ferocia, anche se – nelle pagine successive – sembra che molti dei massacri e saccheggi e ruberie siano stati fatti da criminali organizzati, appartenenti a ex bande che operavano già dai tempi del regime di Assad, che riuscivano a muoversi agevolmente grazie a una rete di corruzione che permetteva di arrivare alle autorità più alte del paese, approfittando della bandiera nera dello Stato islamico. Questa, almeno all’inizio, sembra la tesi.
Dalle prigioni di Assad allo Stato Islamico, uno stato-carcere
Con l’avvento dell’ISIS e la conquista di Raqqa (destinata a diventare la capitale del Dawla, lo Stato islamico) il terrore prima confinato nelle prigioni di Assad si allarga alle città e territori conquistati, solo che a esercitarlo non sono i carnefici del regime (veri macellai, la cui lettura delle atrocità mi ha fatto venire voglia di lasciar perdere la lettura), ma coloro che sono stati amnistiati da Assad, nel tentativo riuscito di contrapporre gli islamisti agli attivisti della società civile laica, che in quei mesi lottavano per la democrazia.
I mujahiddin in carcere sono ben noti al regime: sono tutti siriani che hanno combattuto in Iraq per Al Qaeda. Si può solo immaginare che la decisione di liberarli dopo averli torturati e averne uccisi molti, dopo che a seguito delle sevizie si erano ribellati in diverse sanguinose rivolte carcerarie, sia dovuta al tentativo disperato di Assad di gettare il suo paese nel caos, in un momento in cui sembra soccombere alla rivoluzione della primavera araba.
Dalle cronache di quei giorni sapevamo che molti ufficiali dell’esercito siriano avevano disertato e fondato milizie poi riunitesi nell’esercito siriano libero, subito finanziato dagli Stati Uniti e dai paesi NATO (non l’Italia) e da Israele. L’intento era chiaro: portare la Siria alla sfera d’influenza occidentale, rendere più sicuri i confini di Israele con una democrazia amica o neutrale, spezzare al centro la lunga mezzaluna che dal manico iraniano percorre tutto il Medio Oriente, attraverso la Siria, fino ad arrivare al movimento Hezbollah in Libano e ad Hamas in Palestina. Ultimo ma non meno importante: mettere fuori gioco la Russia e la sua base navale di Tartous, di fatto escludendola dal Mediterraneo.
Cane non mangia cane
La mossa di Assad, rivelatasi vincente, è stata quella di sparigliare questo grande gioco, facendo rientrare l’islamismo dalla finestra. L’ISIS non ha conquistato nessuno dei territori controllati dal regime: li ha invece sottratti all’Esercito Siriano Libero e alle altre formazioni minori, anche di stampo religioso, ma non schierate con il Dawla, che sono state infatti schiacciate ed eliminate durante la rapida conquista di Raqqa, Deir Ezzor e di tutta la parte orientale del paese.
Buona parte di questo sviluppo sembra derivare da quelle successive amnistie che hanno svuotato le carceri siriane e che hanno permesso ai mujiahiddin di Al Qaeda di riorganizzarsi in una nuova entità: lo Stato Islamico.
Non è un caso se durante tutte le ostilità cane non mangia cane. Non si spiegherebbe altrimenti l’improvvisa bontà di un regime, che risparmia i protagonisti di rivolte carcerarie e non esita a bombardare la popolazione civile con il gas nervino, a gettare sulle città bombe e barili esplosivi, a far stragi fra la popolazione inerme.
Non si spiegherebbe se non ci fosse un disegno a lungo termine – un disegno disperato, ma alla fine riuscito – che è quello di resistere quel tanto da non cadere sotto i colpi dell’Esercito Siriano Libero e persuadere la Russia a un intervento diretto, con la sua aviazione e tutta la potenza di fuoco disponibile, che sarà quello che farà pendere il piatto della bilancia di nuovo in favore del vecchio regime, attualmente vincente.
Non è un caso se l’aviazione russa risparmia le postazioni dell’ISIS, che bombarda solo marginalmente, e solo per far vedere agli occidentali l’impegno (finto) contro l’islam radicale. Per i russi la ragione di Stato – mantenere le basi nel Mediterraneo – è altra cosa e più importante rispetto alla lotta al nemico interno, ceceni estremisti islamici – fra l’altro presenti in forze fra le fila del Dawla. Di tutto questo Del Grande non fa un commento diretto, ma lascia che siano le storie intrecciate dei suoi protagonisti a raccontare il filo che connette gli eventi, azioni di guerra fra eserciti contrapposti, atti di terrorismo, terrore e morte fra i civili. Ma la trama è chiara dietro agli eventi raccontati.
Un grande gioco
Solo un personaggio minore, Salim, fratello del primo protagonista Abu Mujiadh, quando porta via la famiglia con madri e sorelle verso la Turchia, si lascia scappare la frase che l’ISIS fa parte di un gioco più grande e che la religione non c’entra niente. Lo dice da vero credente ad Abu Mujahid, che si è appena convertito e ancora non ha vissuto le contraddizioni di questo atroce conflitto.
Salim ha intuito – dopo aver militato per Al Qaeda in Iraq per otto anni – qual è la natura dei movimenti e dove vanno a parare le traiettorie appena iniziate con la conquista di Raqqa (in quel momento Abu Mujadh ha appena giurato fedeltà al Dawla ed entrerà dopo poco nei suoi servizi segreti).
Nel grande gioco ci sono convergenze di interessi: i russi con le loro basi e l’esigenza di mantenerle; i turchi con i piedi in tre scarpe. I turchi che anche loro vorrebbero tornare all’influenza del vecchio impero ottomano e sono in parte il paese più influente della regione stanno ufficialmente con la NATO, quindi in teoria dovrebbero aiutare l’esercito siriano libero, ma in realtà sono i migliori sostenitori dell’ISIS, favorendo il passaggio attraverso le sue frontiere dei combattenti stranieri che si vogliono unire al Dawla, fornendo l’esercito nero di armi in cambio dei beni saccheggiati e comprando benzina di contrabbando. La cosa è talmente evidente che perfino il figlio di Erdogan è coinvolto personalmente in questi traffici.
Il vero interesse della Turchia in questo grande gioco è quello di avere un alleato che eventualmente combatta al suo posto i curdi siriani e iracheni che hanno strappato il loro territorio al governo siriano.
I curdi, alleati di comodo e a termine
I curdi si sono dati un autogoverno e – fatto più importante – sono in piena fase rivoluzionaria.
E come vuole la massima: mai attaccare una rivoluzione, così la Turchia non si azzarda a entrare in territorio siriano per combattere apertamente i curdi siriani e iracheni, anche se nei loro territori trovano rifugio e protezione i connazionali cittadini turchi, che Erdogan vorrebbe eliminare.
E’ vero, l’esercito turco è entrato in Siria per pochi chilometri e ha conquistato una città occupata dai curdi, trovando una resistenza feroce. I curdi hanno il mito di Kobane, rasa al suolo ma non occupata dalle truppe dello Stato Islamico. Kobane protagonista di un’epopea fondante del neonato Stato curdo. I curdi che sono stati gli unici capaci di affrontare e sconfiggere Al Qaeda in Iraq. I curdi che arruolano donne fra i loro combattenti, con pari diritti e dignità nell’esercito e nella società civile. I curdi che sono tornati al socialismo, alla fratellanza fra i popoli. I curdi che sono aiutati dagli americani, perché nella loro disperazione nel pantano mediorientale hanno capito che sono gli unici a tenere testa e battere le milizie jihadiste.
Quindi la Turchia non calca la mano perché agli americani i curdi possono ancora servire; poi si vedrà. Di certo il confine tra Turchia e la Siria occupata dal Dawla è attraversato da ogni tipo di merce di contrabbando, incluse le sigarette (proibite nel Dawla) e soprattutto le armi in cambio di petrolio. Su quel confine si intrecciano storie di spie che fanno il doppio gioco, infiltrati dei servizi americani nella Sicurezza del Dawla, che è divisa in due sezioni, Interna ed Esterna che, fra l’altro, pianifica gli attentati al di fuori del territorio del Dawla.
Il culto della morte
In un mondo ottenebrato dalle teorie complottiste, ogni sospetto diventa prova, e questa porta a una sentenza emessa da nessun tribunale, che si trasforma in rapimento, uccisione, e conseguente terrore nelle comunità sciite, o cristiane, o di altre religioni diverse dalla musulmana sunnita, che lasciano le loro case, e averi nelle mani di milizie siriane e straniere.
Questo accade quando arriva l’ISIS, che è figlia di Al Qaeda e di qualcos’altro, cioè ex ufficiali del disciolto esercito di Saddam, che niente hanno a che vedere con la religione. Colpisce la folta presenza di stranieri (cioè non siriani e non iracheni) fra le file dell’esercito e della Sicurezza del Dawla. Addirittura a prevalere nella Sicurezza Esterna sono gli stranieri, gli europei, i convertiti, perché più insospettabili a causa del loro aspetto.
Dal racconto di Del Grande si legge cosa è stato l’Isis al momento della sua massima espansione. Un sistema di religione oppressivo, in gran parte lasciato in mano ad imam sauditi che applicano la legge coranica più stretta. E’ un mondo di proibizioni, di soprusi, violenze e ingiustizie, dove prevale la legge del più forte, di chi è mascherato (gli agenti della Sicurezza) e armato.
Il Dawla è uno stato da incubo: un miscuglio di fascismo più religione, più sopraffazione pura e semplice, più subalternità e disumanizzazione della donna e dei nemici, che possono essere fatti schiavi. La lettura della Sunna dei tempi del Profeta prevede tutto questo e niente è lasciato all’interpretazione: bisogna fare in tutto e per tutto uguale all’Islam delle origini, una religione nata in un mondo pastorale e tribale, che tale deve rimanere fino alla notte dei tempi.
E’ il culto della morte. I migranti, muhajirin, entrano nel Dawla per cercare e trovare il martirio. Come afferma Donatella De Cesare in Terrore e modernità, il suicidio è l’unico atto posto al di fuori del sistema capitalistico globale, fondato sull’appropriazione e controllo della vita. Le prediche del portavoce di Al-Baghdadi si ripetono per radio e sono continui inviti a immolarsi per trovare la salvezza ed essere di esempio per gli altri musulmani.
La religione come strumento di morte, il jihad come volontà di dominio senza essere un’alternativa reale in termini economici all’attuale sistema produttivo. E’ questo il suo limite ed è per questo che verrà sconfitto. Ma soprattutto verrà vinto perché è un culto di morte, oppure morte in vita per quelli che sopravvivono e hanno la disgrazia di vivere sotto il suo regime.
Il Dawla ha avuto abbastanza tempo per formare un apparato statale e la prima cosa a cui ha pensato è stata la repressione delle genti conquistate, in nome di una presunta purezza religiosa applicata a popolazioni già musulmane.
I repressori mascherati
Il nostro problema non è solo combattere questo regime di morte; il nostro problema è capire perché l’uomo riesce ad arrivare a questi punti. Il nazismo aveva sfidato i limiti del pensabile: per questo ha aperto una ferita che non si rimarginerà. Era possibile pensare a un regime così spietato e assoluto che cerchi di impossessarsi delle menti, oltre che dei corpi? Dopo il nazismo e il comunismo staliniano e maoista, il terrore polpotiano, l’orrore ritorna e spunta da sotto il tappeto siriano.
Il Dawla è nemico della democrazia; i suoi ideologi religiosi la considerano il peggiore degli idoli e va perciò estirpata, a comandare sono i militari e la polizia segreta, che formano una rete i cui vertici sono invisibili e potenti. L’ossessione per la segretezza e l’invisibilità è un altro tratto caratteristico: i miliziani della Sicurezza Interna sono addestrati a portare la maschera sempre, a non toglierla neanche per mangiare. Nessuno deve sapere chi sono.
L’ex colonnello di Saddam che da gli ordini via telefono a uno dei protagonisti del libro di Del Grande ha un nome, ma agisce da lontano e muove gli uomini della Sicurezza Esterna come una rete di agenti segreti, procacciatori di informazioni, indagatori, infiltrati, pedine invisibili che si muovono attraverso i confini.
Il merito di Del Grande
La stampa e la propaganda dello Stato Islamico hanno già fatto abbastanza per diffondere il terrore, mediante immagini raccapriccianti di uomini torturati e decapitati, oppure dati alle fiamme, non c’era bisogno del libro di Del Grande per avere altre conferme.
Il merito principale di questo enorme reportage – che è allo stesso livello di Gomorra – è quello di entrare dentro le città e i villaggi dello Stato Islamico, dar conto della vita che si conduce in tempo di guerra, in un’economia di sussistenza, dove chi non è fuggito riesce in qualche modo a campare, fra i bombardamenti della Coalizione (ma mai dell’esercito siriano o dei russi) e le prepotenze degli emiri o dei torturatori della Sicurezza Interna. Quello che sappiamo del conflitto siriano ci arriva da immagini di telegiornali e titoli di quotidiani, da video mesi in onda dall’ISIS su esecuzioni capitali, ma mai siamo riusciti a penetrare nella quotidianità dell’orrore dello Stato Islamico, nessuno aveva descritto e attingendo da fonti dirette la quotidianità dell’orrore in cui hanno vissuto i popoli rimasti sotto il dominio dello Stato Islamico per pochi mesi o anni (a seconda della linea del fronte), ed è per questo che Dawla va letto e ricordato, oltre che a fornire le testimonianze del grande gioco delle potenze straniere, del ruolo dei curdi, prima aiutati, poi abbandonati e sempre usati, anche perché entra nei meccanismi interni di uno Stato canaglia, ne svela strategie e politiche.
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