Federico De Roberto - I Vicerè
I Viceré di Federico De Roberto sono la saga acida e cialtrona di una famiglia di nobili catanesi a cavallo fra gli ultimi anni del Regno di Napoli dei Borboni, la spedizione dei Mille e l’unità d’Italia. Gli anni vanno dal 1855 al 1882, ventisette anni in cui si susseguono le storie della famiglia Uzeda di Francalanza, la più importante fra le famiglie nobili catanesi, così importante che il loro soprannome dispregiativo era i Viceré, perché i loro antenati avevano ricoperto quella carica durante il dominio spagnolo.
La storia degli Uzeda, di tutta la famiglia senza un protagonista in particolare, è l’inizio di un filone critico e alternativo della letteratura italiana, quello della letteratura di impegno civile, che mostra senza pietà i vizi e le bassezze, le meschinerie, l’avidità e la grettezza, l’aridità e l’ignoranza di una famiglia di boriosi, convinti di essere e contare più di ogni altro. Gli Uzeda sono i più ricchi, hanno più terra, sono i più nobili, hanno accumulato nei secoli più potere di chiunque altro a Catania e la stessa influenza passa senza che il patrimonio venga intaccato – ma anzi si accresce – nel passaggio dei garibaldini e con la nascita dello stato italiano.
Il trasformismo, unito alla capacità che hanno le grandi famiglie di avere un proprio membro in tutti gli schieramenti politici, di possedere il fiuto di schierarsi l’uno per l’altro con la parte vincente, fanno si che la famiglia Uzeda resti sempre la più potente. Ma bastassero questi tratti, non avremmo nulla di più di una cronaca che potrebbe stare benissimo in altri posti.
Non è solo siciliana o italiana questa capacità di salvare se stessi e attraversare le epoche mantenendo supremazia, denaro e potere.
Arriviamo da Dante
In ogni grande rivoluzione troviamo sempre nobili convertiti alla causa, capaci anche di sacrificare il resto della famiglia, oppure una sola parte per salvare il resto del lignaggio, oppure per continuare il nome della casata. Ma allora perché ci colpisce tanto la storia di questi arraffoni senza redenzione, perché la sentiamo così italiana?
Perché solo gli italiani sono così bravi a mettere a nudo non tanto la profondità dell’individuo, quanto la sconcezza della società, i lati peggiori del vivere civile. Questo da Dante in poi. Si potrebbe dire che la letteratura italiana nasce come pulsione politica, che ogni opera viene scritta per dimostrare qualcosa, che l’arte si realizza nella descrizione delle minutaglie che minano l’integrità della società civile.
C’è un filo che collega I viceré al Gattopardo – è evidente, ne hanno scritto tutti – al punto che I viceré è stato riscoperto e apprezzato proprio in seguito al successo del Gattopardo.
Una galleria di ritratti
E’ talmente asciutta da sembrare un documentario la descrizione di personaggi, ambienti e reazioni, anche quando De Roberto penetra negli stati d’animo, come in quello di Teresa, sorella di Consalvo, in preda ai tormenti d’amore per Giovannino (che non sposerà e che per lei impazzirà e si toglierà la vita). Come percorrere in carrellata un’unica scena che si dipana in ambienti ed anni diversi, captando qua e là frammenti di conversazioni, di preghiere, falsità e convenienze che i personaggi di tre generazioni di Uzeda mettono in scena.
Quel che colpisce è la follia, la testardaggine, la violenza dei proponimenti, la cocciutaggine nel restare sulle proprie posizioni: il principe Giacomo disereda il figlio Consalvo e muore, anzi schiatta, come dicono a Napoli, senza che ne venga un ripensamento. Tutti i personaggi si muovono come maschere e continuano fino alla fine a recitare se stessi e la parte che l’autore gli ha dato. Don Blasco, zio di Giacomo, è il criticone della famiglia e – spretato dopo l’abolizione delle proprietà ecclesiastiche – diventa ricco speculando e comprando le terre e i beni del clero dopo che lo Stato li aveva messi all’asta. E’ il più borbonico, reazionario e conservatore; è il comico dell’affresco, il giullare che iroso attraversa le scene per diventare fervente repubblicano e garibaldino, il tutto per pura convenienza e per il gusto di mettersi contro qualcuno. Don Blasco è la macchietta degli Uzeda assieme a don Ferdinando che muore di stenti, pazzo e senza un soldo.
Ma la galleria dei ritratti è lunga, con le donne che diventano zitellone acide, avide e avare (donna Ferdinanda) o mogli dispotiche (Lucrezia con il marito Benedetto Giulente che pure aveva sposato contro la volontà della famiglia) o fanatiche religiose (come Teresa, figlia di Giacomo e sorella di Consalvo).
Una tradizione di impegno civile
I Vicere fa parte di una tradizione di impegno civile si snoda con Pratolini, Silone, Pasolini fino ad arrivare a Q e Wu Ming, e nel cinema l’ultimo esempio più vicino è Noi credevamo, di Mario Martone, anche questo dedicato alle promesse tradite del Risorgimento. Si può dire che la nobiltà della tradizione letteraria italiana faccia riferimento ai grandi critici della società, mentre in altre letterature i grandi hanno costruito la loro narrativa sullo scavo dei personaggi, sull’introspezione psicologica. A parte Italo Svevo con La coscienza di Zeno e pochi altri, noi mettiamo in mostra la viltà dell’animo umano, le sue bassezze e l’accettazione delle miserie come fatti della vita cui altri provano ripulsa morale e condanna.
Ma la domanda da farsi è perché gli italiani hanno sentito più di altri il bisogno di rappresentarsi in questa maniera. Le commedie di Plauto erano l’equivalente dell’attuale commedia all’italiana, quello stile agrodolce di raccontare fatti e personaggi, ridendo delle bassezze e disgrazie dei personaggi. Il pubblico, come al Colosseo, è un po’ empatico e tanto carnefice e la rappresentazione delle varie maschere inventate nel tempo, da Zanni a Pulcinella fino a Fantozzi invita all’autoindulgenza e all’accettazione dell’attuale stato di cose.
Nei romanzi inglesi dell’Ottocento i personaggi si muovono dentro grandi gabbie, che sono il rispetto della legge, l’oppressione delle leggi economiche e la separazione delle classi sociali.
La società italiana intrisa di clericalismo (papismo direbbero gli inglesi), la cultura del perdono sempre e comunque, l’ignoranza in cui vengono tenute le masse in ogni epoca, le difese corporative di chi davvero come Guicciardini vede il solo particulare, il famoso orticello oltre il cui steccato si stende un mondo privo di interesse perché non tange gli interessi immediati: questo è il mondo da cui proveniamo e che viene rappresentato. C’è un fondo comune al resto dell’umanità in questo. C’è anche un coraggio e una mancanza di pudore nello svelare le piccinerie che altrove altri autori non hanno avuto.
Una presa di coscienza che suscita rabbia, ma anche rassegnazione
Basta pensare alla storia quasi coeva di un’altra grande famiglia del nord Europa: i Buddenbrook e le differenze saltano agli occhi. I Buddenbrook sono fra le famiglie più in vista di Lubecca, appartengono all’aristocrazia mercantile e luterana, che ha fatto fortuna in generazioni di commerci navali. Gli Uzeda sono nobili proprietari terrieri, e dalla terra traggono rendite.
Il mondo di questi ultimi è quello altezzoso e stizzoso che tiene alle sue prerogative, che non si mescola con i popolani e nemmeno con i nobili meno nobili di loro. Pochi sono alla loro altezza. Solo i Radalì sono quasi pari a loro; infatti Teresa sarà data in sposa a Michele Radalì, con l’intento di unire casate e patrimoni in un impero ancora più grande, con i confini piantati nella Sicilia orientale.
Il problema de I Vicere è il pericolo che letture amare della realtà possano generare fraintendimenti, pessimismo e rassegnazione: mentre il vero intento di De Roberto era quello di denunciare, smascherare, mettere a nudo vizi e debolezze. Il rischio è che un compendio come il discorso finale di Consalvo al capezzale della zia Ferdinanda possa suscitare un’accettazione per accomodamento.
Le parole pubbliche di Consalvo erano tutte per la libertà e il progresso, enunciate con enfasi e retorica, in mezzo a uno scenario sapientemente organizzato da rendere memorabile il suo discorso e saranno quelle che il pubblico presente ricorderà. Per la storia ufficiale Consalvo passerà per progressista, mentre la sua è solo una maschera indossata per conquistare il potere e portare avanti la tradizione di supremazia degli Uzeda.
Il Risorgimento svuotato di senso
Il primo passo lo aveva già fatto il suo prozio duca Ferdinando, che aveva coperto più legislature nel giovane Parlamento italiano, quando il suffragio era ristretto a poche centinaia di persone, che avevano diritto all’iscrizione nelle liste degli elettori per motivi di censo. Alle elezioni Consalvo è il più votato nel collegio, in un trionfo che ripaga le somme spese. Quantomeno – il lettore potrebbe esser portato a pensare – Consalvo è un politico esperto, che sa muoversi nell’amministrazione e che a Catania ha lasciato molte opere, anche se ha portato al collasso le finanze del Comune. Quindi meglio lui di altri, non tanto perché è nobile ma perché si è guadagnato i gradi facendo prima il sindaco della città. Questa è la facciata, ma dietro a questa si nasconde il disegno di prendere il potere e non fermarsi solo al seggio da deputato: Consalvo ambisce a diventare ministro fin dal giorno della sua elezione.
L’intento di De Roberto, vuole risvegliare il lettore, far capire che dietro alle belle parole del candidato troviamo la fregatura, che tutta la retorica risorgimentale diventa vuota già dall’indomani dell’impresa dei Mille.
Una nazione nata per caso…
Dobbiamo ricordare le circostanze fortunate dell’impresa dei Mille, accompagnate anche da ombre, come la repressione di Bixio dei moti contadini, convinti che le camicie rosse portassero la libertà e l’affrancamento dal latifondo o la proprietà della terra. Ombre come l’aiuto degli inglesi, che possono aver corrotto i generali borbonici per ritirarsi dalla Sicilia e dall’Italia meridionale senza combattere. Non si spiega altrimenti un successo irripetibile come la Spedizione dei Mille, tanto è vero che non si ripetè e Garibaldi con i suoi seguaci fu fermato in Calabria dall’esercito sabaudo, quando ci riprovò per conquistare Roma. Senza considerare che Garibaldi non si mise contro l’esercito sabaudo a Teano, arrivato per fermare i Mille che erano scappati di mano.
Prima dei Mille l’Italia poteva anche non essere un regno e i Savoia i sovrani di tre regioni a nord ovest, che forse era il massimo che avrebbero voluto e che si aspettavano dalle guerre risorgimentali. Incrementi territoriali di un regno già esistente, quello sabaudo, con Torino capitale, con una locomotiva economica come la Lombardia e un porto come quello di Genova. L’Italia, forse, poteva aspettare.
In fondo l’Italia sembra nata per accidente. La vittoria dei Piemontesi alleati ai Francesi contro gli Austriaci nella campagna di Lombardia generò una ventata di entusiasmo, portando le altre regioni del centro ad unirsi al Regno d’Italia attraverso i plebisciti. Forse queste offerte di territorio e popolazione avevano messo in difficoltà il Piemonte, mentre la Francia si era vista scavalcata, accorgendosi di aver fatto nascere non uno stato cuscinetto con l’Austria, ma un vicino ingombrante che le potrà dare più di un pensiero nel Mediterraneo. Così la Francia rompe l’alleanza e conclude una pace separata che lascia tutto il nord Est in mani austriache.
…cogliendo occasioni e cambiando alleanze
Ci vorranno cinquant’anni, altre due guerre e un’occasione colta al volo per arrivare alla riunificazione del Paese. La Terza d’Indipendenza, persa dagli Italiani ma vinta dagli alleati tedesco-prussiani, faranno sedere i Savoia dalla parte dei vincitori, per ottenere il Veneto. La sconfitta di Napoleone III il difensore del Papa, a opera dei prussiani/tedeschi, aprirà la strada alla presa di Roma senza mettersi contro i Francesi. I seicentomila morti della Prima Guerra Mondiale sono il prezzo più alto pagato per acquisire le ultime restanti regioni che, per quel che riguarda Bolzano e Trieste e per motivi diversi, avrebbero fatto a meno di far parte del nuovo Stato.
Tutta la storia della formazione dello Stato italiano è frutto di precarietà, fortuna, occasionale incontro di volontà e fini diversi. La borghesia e la nobiltà diventate classe dirigente non potevano che essere lo specchio di questa storia: pronte a corrompere e lasciarsi corrompere, come lo furono gli ufficiali borbonici; opportuniste come gli Uzeda e trasformiste come nei governi della Sinistra; conservatrici, ma non dei valori risorgimentali di libertà, uguaglianza e progresso, ma dei propri interessi sopra ogni altra cosa.
Le elite che non cambiano
Queste elite, così strenuamente difese da Gaetano Mosca nella sua elaborazione teorica della classe dirigente come pilastro incrollabile di ogni società, sono quelle che hanno portato l’Italia al fascismo, che fino all’ultimo hanno avuto paura del popolo (Consalvo prova schifo a stringere le mani dei suoi elettori) e hanno tentato fino a quando possibile di impedire il suffragio universale, mentre ci è voluta la caduta del fascismo e un’altra guerra per arrivare al voto delle donne.
Consalvo ha la capacità e il fiuto; sa come muoversi e cosa dire al villico e al cittadino, all’artigiano e al contadino, al commerciante e all’avvocato, oltre a partire avvantaggiato fin da subito grazie all’enorme disponibilità che gli permette di pagarsi una campagna elettorale grandiosa.
Rischierebbe di essere un guscio vuoto, Consalvo, riempibile a piacere a seconda dell’interlocutore, se De Roberto non ci rendesse chiari i suoi disegni e l’opportunismo che gli permette di piegare ogni situazione o persona ai fini che si è prefisso. Tutto questo navigando nelle acque tempestose di conflitti famigliari feroci che vanno avanti con accuse e ripicche, carte bollate e ricatti dai tempi della morte della matriarca Teresa, da alcuni riconosciuta come la protagonista del romanzo, agendo dall’aldilà su tutta la discendenza attraverso l’asse ereditario.
Lotte familiari
L’erede naturale, il principe Giacomo, deve dividere l’asse ereditario con il fratello terzogenito Raimondo, il prediletto della defunta. Da questa anomala divisione comincia la rimonta di Giacomo, che giocando sulle debolezze di fratelli e zii spoglia a uno a uno tutti gli altri membri della famiglia della loro parte di eredità, fino ad arrivare allo stesso Raimondo, che deve cedere al ricatto del suo consenso e aiuto per potersi risposare in seconde nozze. In questo senso è Giacomo il vero erede della defunta Teresa, nota per avidità e spilorciaggine, qualità che ha passato per intero al suo disprezzato primogenito.
Gli Uzeda si fanno ammirare nella loro grandiosa e irrefrenabile avidità e il lettore sembra quasi persuaso del loro naturale diritto a spadroneggiare, a disporre a loro piacimento di vite e beni altrui, a rubare, a ingannare, dissimulare, maltrattare, fottere. Quello che De Roberto ci fa vedere è un documentario sulla vita dei leoni, ci spiega come mai si comportano a quel modo, ci fa capire che non possono e non potranno agire diversamente. Sono prigionieri della loro natura, vittime della messinscena che la vita e la società hanno loro destinato.
Il maggior pregio
Non è un caso che da quell’ambiente, da quella parte di Sicilia che ha dato generazioni di grandi scrittori, sia uscito Pirandello e la sua presa di coscienza sulla maschera indossata dall’uomo, prigioniero delle sue convenzioni. In Pirandello l’uomo cerca un’uscita verso l’altrove (Il fu Mattia Pascal), salvo scoprire che non può esistere altro al di fuori del gran teatro della società. Il nulla non può essere vissuto e neanche testimoniato. Per testimoniare, per poterla raccontare, abbiamo bisogno di un pubblico che la solitudine non può dare e per accettare un pubblico bisogna rientrare nella recita.
De Roberto resta un passo prima, ma il personaggio di Consalvo è l’emancipazione da quelle strettoie: gioca opportunisticamente in più ruoli, è istrionico e mantiene dritta la barra delle sue ambizioni; è un personaggio ponte alle successive elaborazioni di Pirandello.
Può un solo libro ricordare un grande autore; può un solo romanzo essere, come dice Sciascia, il secondo romanzo più importante della letteratura italiana dopo I promessi sposi?
Può esserlo come lo sono gli stessi Promessi sposi per Manzoni. Ambedue, Manzoni e De Roberto, hanno scritto tanto e per tutta la vita. Vengono ricordati per queste opere (anche se a scuola mandiamo a memoria anche il Cinque maggio di Manzoni), come se fossero state scritte in stato di grazia e poi riviste, risciacquate, riscritte, editate, curate. Hanno avuto due picchi, diversamente da altri grandi che hanno prodotto capolavori per tutta la vita (Dickens, Dostoevskij..).
La scrittura di De Roberto è un esercizio fluido, di equilibrio nella frase ed equidistanza dalle vicende narrate e dai personaggi, così come loro stessi sono equidistanti fra loro. Può dar fastidio questa armonia apollinea, questa mancanza di inciampi, di incoerenze, di discontinuità. Poi ci si adagia, ci si lascia trasportare senza aspettarsi nulla, ma invogliati ad andare avanti.
Senza usare nessuna arma per creare aspettative, De Roberto riesce naturalmente a coinvolgere chi legge. In un’epoca in cui bisogna appropriarsi di trucchi e ferri del mestiere (insegnati nei corsi di scrittura) per poter raccontare una storia, quello di De Roberto è un esperimento isolato e riuscito di raccontare una vicenda senza l’aiuto di nessun artificio. E’ la storia a farsi seguire da sola, sono le vicende e le meschine posizioni dei personaggi che suscitano la curiosità malvagia dei lettori, pronti a guardare dall’alto le malefatte di qualcuno peggiore di loro. Questo, alla fine, è il maggior pregio. E non è cosa da poco.
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