Ernest Hemingway - Per chi suona la campana
Con altri “colleghi” (a parte Joyce, ndr) fu meno gentile, o sbaglio?
Stesi il poeta Wallace Stevens, che osò mettere in dubbio la mia virilità. Battersi con un poeta può sembrare poca cosa, ma Wallace pesava 110 chili.
Non ci trova davvero nulla di negativo (nella tauromachia ndr)?
Certamente: se volete conservare in vostra moglie un concetto di voi stesso che significhi uomo duro, perfettamente equilibrato e del tutto competente, non conducetela mai a una vera corrida. Non si può competere coi toreri proprio nel loro campo. Ammesso che lo si possa fare nelle altre cose.
A cosa è dovuta questa nota triste che percepisco in sottofondo?
Meglio sarebbe morire nel periodo felice di una giovinezza non ancora delusa, svanire in un lampo di luce, piuttosto che assistere all’invecchiamento del proprio corpo e al disgregarsi delle illusioni.
(Tutte le risposte trovano conferma in:
Anthony Burgess, L’importanza di chiamarsi Hemingway, minimum fax, 2008
Eileen Romano, Album Hemingway, Mondadori, Milano 1988
Ernest Hemingway, By Line, Mondadori, Milano 2001)
Romanzo di guerra, romanzo di resistenza, anzi, primo romanzo sulla Resistenza europea e scritto da un americano. Romanzo d’amore, romanzo della morte incombente, come per chi vive sotto un vulcano o su una faglia tettonica. Per chi suona la campana è tutto questo e ha rappresentato per la generazione di mio padre, quelli nati negli anni ’30 e ragazzi negli anni ’50, il Romanzo, ovvero tutto quello che loro avrebbero voluto vivere e che per ragioni anagrafiche non avevano potuto.
La loro era l’epoca delle opportunità e del conformismo democristiano, della domenica a messa e poi tutti attorno al tavolo per il pranzo della domenica con la famiglia al completo: nonni, zie, cognati e nipoti. Quella generazione deve aver rimpianto quei quattro giorni trascorsi nella grotta sulle Sierras, passati da Robert Jordan prima di compiere l’azione che gli era stata comandata: la distruzione di un ponte strategico che avrebbe chiuso la ritirata dei franchisti e li avrebbe intrappolati durante l’offensiva dei repubblicani.
In quei quattro giorni che si snodano per circa cinquecento pagine troviamo tutto: l’amore e il risentimento, l’odio e il disprezzo, il coraggio e l’amicizia, la ferocia e il tradimento, l’ebbrezza e la gioia più pura, assaporata da Robert quando fa l’amore con Maria. Sa che non potrà durare, sa che una vita assieme non potrà mai essere come in quei momenti, eppure la ama, non ha mai amato nessuna come lei.
La consapevolezza della fine
E’ la consapevolezza della fine, che fa assaporare ogni attimo, che trasforma le ore in vite intere, che rende i loro abbracci e il sesso che consumano degni di una vita vissuta. Tutto questo basta, sarebbe bastato a quella generazione successiva, che forse non amava così tanto le canzonette, i musicarelli, il Cantagiro o gli amari film di Alberto Sordi. Hemingway è il loro, non di quelli che la Resistenza l’avevano fatta veramente, perché con la censura fascista non avevano potuto leggerlo.
Questo spiega in parte la durata della leggenda hemingwayana, dove nell’altare degli eroi virili in Italia prende il posto di D’Annunzio dal lato progressista, accantonando il precedente mito fra le pagine della storia, del vecchiume, della macchietta. Il vitalismo è però uguale, la costruzione di sé a figura di culto – e l’attenzione riposta in questo processo – è la stessa sperimentata dal Vate, soltanto trasposto in un altro tempo, con altre idee e uomini. Eppure Hemingway non è solo questo, per quanto Bukowsky lo adori come uno che “usava la macchina da scrivere come un fucile”; neanche troppo oscura parafrasi per dire pene eretto verso il mondo.
E’ talmente duro il cazzo di Hemingway che pare fregarsene del giudizio degli altri, al punto di mettere in dubbio la propria, di virilità, attraverso il protagonista di Fiesta, impotente suo malgrado a seguito di ferite di guerra. E’ una strana idea, quella di virilità in Hemingway, che fa coincidere il massimo della virilità come generatore di femmine, come fa dire (vado a memoria) alla moglie innamorata di Henry Morgan, in Avere e non avere: “hai avuto due femmine perché tu sei troppo maschio per avere altri maschi”, come se tutta questa virilità andasse a coprire le possibilità di generare figli maschi perché la riserva mascolina è assorbita dalla grande vitalità del padre. Che poi, ovviamente, è sempre l’alter ego dell’autore in una delle sue tante vite che ha vissuto a contatto con persone diverse e straordinarie in luoghi diversi e speciali.
Uno spettatore di vite altrui
Tutta questa vitalità esibita in realtà serve a mascherare il fatto che Hemingway è un giornalista, o uno scrittore e perciò uno spettatore, uno che si ritaglia la parte di colui che racconta dopo, ma che non vive il momento o che lo vive sempre con il filtro di quello che racconterà. E ciò che racconterà riguarderà le persone conosciute, creando un collage e prendendo in prestito i pezzi di ciascuno. Non è una colpa, più o meno è quello che fanno tutti gli scrittori, perché nessuno è così completo da trovare in se stesso ogni cosa da raccontare, pena la noia e alla fine il disgusto di se stessi.
La depressione e il suicidio di Hemingway alla fine raccontano proprio questo, cioè il pensiero di non meritare la gloria, il Nobel e tutti i premi vinti, il denaro, il successo mondano, gli amori. Di vivere tutto questo da impostore, da ladro di vite altrui. Appropriandosi delle esistenze degli altri, si fa vuoto nella propria, così come fanno gli attori.
Il vuoto, così cercato attivamente nel buddismo e derivati come momento supremo di contemplazione del mondo e di consapevolezza, viene vissuto da noi occidentali come l’incapacità di vivere, nella frustrazione di dover morire. Questo dolore di fondo ha fatto crescere in Hemingway l’impossibilità di venire a patti con la morte; lo ha portato a vivere attraverso gli altri nella speranza di scomparire.
Doveva sfuggire alla morte e per non esserne visto si buttava nelle battute di caccia e pesca, nelle corride e negli amori: solo per far finta che la morte non esiste, ma il nulla è sempre in agguato, come una nebbia nera che avvolge tutto e impedisce di vedere, ascoltare, parlare, leggere o scrivere e alla fine spegne il cuore e ogni energia. La vita di Hemingway è il tentativo inutile di sfuggire a questo destino. Per parlare dei romanzi e racconti di Hemingway bisogna parlare della sua vita, perché come in nessun altro vita e opera si confondono e ognuna trae spunto dall’altra.
Le regole della scrittura
Vere o discutibili che siano, dopo Hemingway sono state codificate nuove regole per la scrittura:
1 – bisogna conoscere ciò che si scrive, da cui discende il corollario che soltanto vivendo si può raccontare.
2 – mostra ma non dire. La più feconda delle regole e interiorizzata da tutte le scuole di scrittura. Proibito scrivere: egli era triste perché era appena morto il gatto. Bisogna invece scrivere: Entrò nella stanza e la porta cigolò. Da dentro arrivava un odore impossibile, che gli ricordava la volta che era stato a vedere la cremazione della nonna. Fuffi era lì, steso a terra con la lingua di fuori. Represse un singhiozzo e si sentì in colpa per non averlo cercato negli ultimi tre giorni e si ricordò di tutte le volte che gli aveva versato il latte, nella ciotola a fianco al letto. Non si sarebbe più svegliato nel cuore della notte per lo spavento che tutte le volte Fuffi gli causava, saltando sulle coperte e accovacciandosi ai suoi piedi.
3 – dalla regola numero 2 discende il corollario della 3: spacchettare. Cioè sezionare ogni istante e riportare le sensazioni visive, uditive, tattili, olfattive. Tutti i cinque sensi devono essere presenti
4 – dalla regola numero 3 arriva l’applicazione della numero 4: asciugare. Che significa rivedere tutto ed eliminare le parti eliminabili, accorciare le frasi lunghe, togliere tutti gli avverbi, eliminare parole in disuso, cercare uno stile colloquiale anche nella riproduzione dei pensieri oltre che nei dialoghi
5 – una sub regola della 1 è: mostra attraverso il dialogo. Con il dialogo si può dire “era un prepotente” perché è un personaggio che lo dice e aiuta a definirne un altro. Magari allungando l’intervento con una storia che dimostri, prima o dopo, perché il tale era un prepotente. Il tutto usando il parlato ma evitando le solite interiezioni che abbiamo nel parlare.
Questa è la lezione di Hemingway, perché ha dato vita a un uso della lingua che prima non esisteva e con cui, dopo, tutti hanno dovuto fare i conti. Siamo prigionieri di Hemingway o di quello che ne hanno fatto i suoi critici ed esegeti. Chi oggi scrive non può prescindere da lui. Di tutti gli esperimenti di inizio Novecento fatti dalle diverse avanguardie: da Joyce a Proust, a Virginia Woolf ai surrealisti fino a Burroughs è emerso e resta la sola maniera di Hemingway e non poteva che essere così.
Uscire da Hemingway usando Hemingway
Ma, come in tutti i movimenti che si codificano e diventano maniera, così anche oggi emerge la necessità di uscire da Hemingway, di togliere l’obbligo di drammatizzare a tutti i costi – anche se è proprio l’estetica hemingwayana a negare ogni effetto drammatico. C’è il rischio che tutto diventi maniera e si serializzi. La lezione di Hemingway e delle scuole di sceneggiatura con gli schemi su tempistiche e colpi di scena sta diventando una gabbia dove non c’è posto per nessuna sorpresa, non c’è rivoluzione, non c’è linearità. Tutto deve creare aspettativa e rientrare in una circolarità che rientra nell’’ideologia dominante: quella di trovare, alla fine, una ricompensa.
I buoni vincono, se lavori duro ce la farai. Queste erano e sono le promesse di cui Hemingway è figlio e araldo, che avevano funzionato fino a poco fa. Ma è lo stesso Hemingway con la sua vita (e la sua fine) e le sue storie a contraddire l’ottimismo della volontà.
Si pensi a Robert Jordan e alla sua morte. Un altro autore avrebbe raccontato una battaglia eroica dove il protagonista, ferito, si salva e scappa via con Maria, via dalla Spagna, via dall’Europa, verso l’America, il faro della democrazia, la terra promessa; invece Robert Jordan muore e muore in una guerra che i buoni perderanno.
Santiago, il pescatore de Il vecchio e il mare lotta per due giorni contro il suo marlin di cinque metri, che non riesce a issare a bordo e arriverà in porto con la carcassa legata a un lato, divorata dagli squali.
Il patto è rotto, è questa la contraddizione. Si può lavorare duro, sopravvivere a stento e i buoni raramente vincono, ma soprattutto la vittoria non arride per forza a chi è dalla parte della ragione. Tutto questo vale anche oggi: manca il senso di identificazione che aveva portato alla costruzione del mondo del dopoguerra; manca una cultura della pace; la guerra esiste sempre ed è spesso esternalizzata e occultata.
Il mondo di Hemingway era chiaro: c’erano i buoni, i partigiani, i combattenti, i comunisti e c’erano i cattivi, i fascisti, i tiranni, i razzisti e sanguinari. C’era chi combatteva per la pace e un mondo giusto e chi per il culto della violenza e della sopraffazione. Purtroppo questo non è più quel mondo e la costruzione quasi manichea che abbiamo ereditato da Hemingway vacilla: i buoni diventano ingiusti, i cattivi qualche ragione ce l’hanno, per dare un ordine all’attualità bisogna mentire perché siamo prigionieri del finalismo: Tutto deve avere un fine, ogni cosa deve avere un lieto fine.
La costruzione estrema di questo processo sta nelle serie tv, dove vengono applicate tutte le regole narrative e di caratterizzazione dei personaggi, dove ogni puntata è costruita con la giusta proporzione di tensione, intrigo, avventura e sesso, come la vecchia regola dei film porno, che per definizione dovevano avere enne scopate, enne scene di sesso orale, eccetera.
E’ il motivo per cui il cinema porno è morto, perché era diventato di una noia mortale.
Non dev’essere più così. Bisogna tornare a Don Chisciotte, il primo Don Chisciotte, quel puro e sconosciuto cavaliere pazzo che fa scorribande fra le campagne della Mancha e bisogna abbandonare il secondo Don Chisciotte, la metafora di se stesso, l’autocitazione, il Don Chisciotte già conosciuto, triste perché tutti lo accolgono e sanno cosa aspettarsi da lui.
Bisogna tornare all’Iliade a all’Odissea, al Boccaccio, ai Racconti di Canterbury. Alle storie narrate perché memorabili, alle storie fini a se stesse, che non devono dimostrare niente, ma donare diletto e nutrimento; alle storie cucite assieme senza nessuno scopo od ordine finalistico.
Un ritorno alle origini
Con Per chi suona la campana torniamo alle origini: unità di tempo, di luogo e di azione. E finalità morali: non siamo soli al mondo, bisogna impegnarsi e combattere tutti assieme per un mondo migliore. La guerra di Spagna è stata la prima replica del mondo al fascismo. E’ stata una risposta delle avanguardie artistiche, operaie, politiche di tutto il mondo.
Robert Jordan fa parte di queste avanguardie, è un intellettuale, un professore di spagnolo innamorato di quella terra. Discende da una stirpe di militari; suo nonno, figura di riferimento lontana e mitica, era stato un generale nordista durante la guerra civile; suo padre, come lo stesso padre di Hemingway, si era suicidato.
Non è l’unico tocco autobiografico, ma sicuramente il più importante, assieme alla passione per i toreri e le corride, che Robert Jordan dimostra di conoscere bene. Robert Jordan non è comunista, non è anarchico. E’ un sincero amante della democrazia americana, fino ad affermare che in America il comunismo nasce dalla sua fondazione, grazie alla legge del Congresso che assegna un pezzo di terra a chi ne fa richiesta. E’ il miraggio di tutto il mondo, di un’Europa in buona parte ancora asservita ai nobili o alla mezzadria; parliamo di milioni di persone che lavorano la terra, ma che non la possiedono e a cui vengono negati i frutti.
Possedere la terra: è il contrario dell’abolizione della proprietà privata, della collettivizzazione dei kolkoz e però per Hemingway il comunismo diventa un tutt’uno con il sogno americano. Oppure il sogno americano è oltre il comunismo, è il passo successivo; questo è il credo di Hemingway. Tuttavia nella sua vita sarà sempre amico di personaggi dell’avanguardia letteraria e di esponenti del comunismo mondiale come Fidel Castro.
Una storia fondante
Lo sviluppo procede giocando con sapienza sugli stati d’animo e le tensioni fra i vari personaggi all’interno della banda di Pedro, di cui Jordan fa parte. Tutto questo crea una tensione crescente, mentre la consapevolezza della morte resta appesa in tutto il racconto. La tensione si accresce nella seconda parte, quando aumentano le scene di azione e culminano nel finale, in cui violenza, eroismo e coraggio si fondono.
In un Novecento in cui le avanguardie descrivono l’uomo come un insieme incoerente di pensieri, pieno di contraddizioni, Hemingway sembra tornare all’uomo tutto di un pezzo, un uomo – Robert Jordan – che è preda di dubbi, ma mai lacerato. Robert Jordan parla fra se, chiede e si risponde, si lascia andare al flusso di coscienza, pensa alla bellezza della vita, a quando potrà portare Maria a Madrid e passare il tempo assieme in una camera d’albergo. Fino a questo si permette di fantasticare, non si spinge oltre nel futuro.
Hemingway ci ha regalato una storia fondante, una storia dove si trova tutto, senza che abbia dovuto ricorrere a un manuale Cencelli immaginario dove distillare a freddo diverse percentuali di avventura, sesso, azione o dialoghi. Riesce nella misura e diventerà il caposcuola seguito e imitato. Si potrebbe continuare a scrivere così, oppure cambiare; ma cambiare come? Con Hemingway si registra un cambio di linguaggio nel corso della sua epoca, e noi più o meno parliamo ancora in quel modo e riusciamo a capire le parole sue e dei suoi coevi. Non riusciamo a capire le parole di quelli prima, quelli appartengono alla storia, ma noi, bene o male, parliamo ancora come lui.
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