Enrico Brizzi - Tu che sei di me la miglior parte
Primo piccolo inciso prima di iniziare questo articolo: dev’esserci qualche troll o robot che è in grado di scrivere anche le recensioni, oppure ci sono troppe persone in carne ed ossa che usano il copia/incolla in modo troppo disinvolto. Sulle recensioni online sia del libro di Brizzi che di tanti altri, ricorrono sempre gli stessi elementi, mischiati al resto del discorso che fanno sembrare uguali tutte le recensioni.
Con Tu che sei di me la miglior parte di Enrico Brizzi la cosa che salta all’occhio è l’identico elenco degli oggetti tipici degli anni Ottanta, ripetuti uguali in tutte le recensioni, dal Corriere online ad altri più o meno amatoriali. Tutti citano: le Doc Martin, le cassette TDK (chissà perché, ma mi sembra che nel libro non venga mai nominata la marca, ma le TDK fanno evidentemente parte della memoria condivisa), lo zainetto Invicta eccetera. Il tono è sempre lo stesso e cioè non si esprime un giudizio o una critica ma si tenta di far capire senza fare spoiling quello che il libro racconta.
E’ come se venisse riscritta o rimpolpata la nota che gli editori inviano alle redazioni.
Nella recensione di del Corriere di Cristina Taglietti, le uniche opinioni espresse sono:
Brizzi sa raccontare l’adolescenza, soprattutto se in qualche modo è la sua, e non soltanto dal punto di vista dei sentimenti e delle emozioni. Colloca al posto giusto tutti i complementi d’arredo, mentre il pezzo comincia con uno sprezzante sa di modernariato che è l’unico vero giudizio espresso in tutto il breve articolo.
Tutto questo ci porta al secondo inciso e cioè la spaventosa assenza di recensioni e critiche a uno dei nostri autori migliori, al livello di Ammanniti e Veronesi e al di sotto solo di Elena Ferrante. Non è un caso che Tu che sei di me la miglior parte sia stata recensita dal Corriere solo ad agosto 2018, mentre il libro è uscito a maggio. Quali strategie editoriali stanno dietro a tutto questo? Solo il Corriere ha una recensione, ma non ho trovato altro sulla nostra grande stampa. Il libraio mi ha detto: starà sulle scatole a qualcuno.
L’ossessione per gli anni Settanta
Brizzi aveva già dato il meglio nello straordinario Il matrimonio di mio fratello, che nessuno cita e che potrebbe essere il sequel, la parte giovane adulta partita con Tommy Bandiera, io narrante di Tu che sei di me la miglior parte. E infatti nelle critiche di Il matrimonio di mio fratello viene evocato l’eterno Jack Frusciante è uscito dal gruppo, come famoso antecedente di cui Il matrimonio sarebbe il sequel, condannando Brizzi a restare noto solo per il suo esordio, nonostante le ultime prove eccellenti e mature. Infatti lo stesso Jack Frusciante è evocato in tutte le recensioni fotocopia dell’ultima sua fatica.
Ma perché Brizzi è così bravo? Sono consapevole che parte del mio giudizio è derivato dal fatto che le sue storie parlano a me, alla generazione fra i 45 e i 55 anni, nati fra la metà dei Sessanta e la metà dei Settanta, troppo presto per vivere la rivoluzione musicale, politica, sessuale dell’Occidente, ma che è cresciuta con i suoi frutti duraturi: la diffusione delle droghe, la libertà di abortire, il divorzio. Frutti degli anni Settanta sono la cultura di mettersi assieme, pensare sempre in termini di “noi”, credere in maniera naturale che associarsi aiuti a risolvere i problemi. E’ la generazione che ha vissuto la degenerazione di questi valori in sfide e guerre fra gruppi, che hanno creato uno schema di rifiuto, gettando alle ortiche il buono che la cultura collettiva aveva saputo creare. E allora il riflusso, l’individualizzazione, l’atomizzazione degli anni successivi. E allora l’idea, presente in Brizzi come Ammaniti, che il meglio sia già passato e da qui la loro ossessione di scrivere di tarda infanzia e adolescenza, andando a toccare i temi e i tempi delle loro infanzie e adolescenze. Dopo, il nulla.
I maschi autocentrati
Ne Il matrimonio di mio fratello il ruolo del fratello maggiore, protetto dal minore, è quello di chi era nato e cresciuto in un momento storico e in una società sufficientemente libera da autorizzare a inseguire i propri sogni. Le ambizioni alpinistiche di Max, il fratello maggiore, si infrangeranno, lasciando un uomo a pezzi, disadattato e depresso cui il fratello minore Teo dovrà fare da balia e custode. Ma è Max quello bello, trascinante, quello che si lancia nelle cose, che guarda al futuro, che scommette su se stesso, che Brizzi fa apparire come egoista, autocentrato che trascura fidanzate e mogli, che alla fine viene lasciato perché incapace di darsi una dimensione all’interno degli schemi casa / lavoro / famiglia.
Gli anni Settanta o il Sessantotto lungo italiano hanno messo in soffitta lo schema dei padri e Max invece è cresciuto con la cultura della contestazione. Teo invece è trattenuto, cinico, responsabile. E’ cresciuto in un altro clima, anche se di poco posteriore all’età di Max.
Chi di questi due è Tommy Bandiera protagonista di Tu che sei di me la miglior parte? Tommy Bandiera potrebbe essere un Teo Giovane, mentre Max potrebbe essere un Alex di Jack Frusciante che decide di andare avanti per la propria strada, rompere gli schemi e scalare vette in solitaria o tentare imprese che resteranno negli annali della storia dell’alpinismo.
Infatti non è un caso che Tommy pensi di diventare un pubblicitario, proprio come Teo. Si delineano due tendenze: i sognatori e gli integrati. Una donna potrebbe dire: e i maschi autocentrati. A salvare i protagonisti invece è proprio la storia con due ragazze, Aidi per Alex di Jack Frusciante ed Ester per Tommy. Sono loro che li aiuteranno a crescere e a cambiare visione del mondo, a far uscire i maschi dall’uovo della parrocchia, del calcio e dello stadio, una riserva indiana maschile dove le femmine non hanno accesso. Uscire dalla riserva, ma anche dal gruppo, dal precedente modo di pensare. Ma anche uscire dal mondo delle favole, quello di zio Yanez di Tommy, partito per Milano troppo presto per continuare il suo lavoro di fratello maggiore in luogo di un padre morto troppo presto.
La realtà che prende a sberle
Il romanzo si chiude con un doppio tradimento e una riconciliazione che assomiglia tanto a una separazione; ai tre, Tommy, Raul il mio peggior amico ed Ester che si salutano andando incontro a un futuro che non è luminoso, ma scuro. Fa paura. Non c’è futuro e il mondo adulto: è il fallimento fermo nelle vite cristallizzate. Gli adulti, nella migliore delle ipotesi sono noiosi. Bastano poche frasi per ritrarli: la nonna buona e matriarca, lo zio avvocato ricco e integrato; lo zio Yanez l’avventuriero, il nonno paterno fascista, la mamma di Ester la bella anticonformista (zoccola per le donne del quartiere).
Ogni scrittore ha il suo mondo che si crea ogni volta, il carattere o i fatti cui ama tornare in ogni racconto. I tic, le ossessioni. (a proposito: l’uso ossessivo di marcatori (uno di quei trucchi insegnati nelle scuole di scrittura creativa che Brizzi, al suo livello, potrebbe evitare).
Per Brizzi quel mondo è l’adolescenza, vissuta a Bologna fra Ottanta e Novanta, gli stessi anni in cui l’ha vissuta lui, nato nel 1974: in questo periodo e in quell’età esprime il meglio. I suoi conflitti sono fra le aspirazioni del sogno e i compromessi della realtà. Chi vince, alla fine? Sembrerebbe la realtà. E’ quella che ti da la sberla, che ti butta giù, la mazzata che ti ricorderai per tutta la vita. Dopo si cresce, si diventa diversi, più duri, più riflessivi, responsabili. E non è un male, ci dice Brizzi.
Il risultato più grande
Brizzi riesce a parlare a tutti perché se siamo arrivati fin qui e ci capiamo è perché ognuno di noi porta dentro la sua mazzata e Brizzi riesce nel miracolo del coro della tragedia greca, che assume su di se l’atto doloroso vissuto sulla scena, l’annientamento, la fine delle speranze e lo trasmette amplificato e diffuso al pubblico, che lo accoglie ed entra in partecipazione, piange assieme ai protagonisti e vive quel momento, portandolo a casa.
Perché i greci avevano capito che la vera empatia deriva dal pianto collettivo, non dalla risata. La risata allontana, il pianto fa muovere incontro, ci fa abbracciare. Nella tragedia il dolore e l’affanno, i lutti della vita quotidiana, vengono proiettati all’esterno. Viene mostrata al pubblico la vicenda di qualcuno che sta peggio e allora la tragedia personale di ognuno viene ridimensionata, acquista una prospettiva, una distanza, si storicizza.
Tutto questo è passato, ci racconta Brizzi, andate a casa tranquilli, il passato è passato anche per voi, ora che lo avete rivissuto nella vita di un altro. Non ci riescono mica in tanti, a fare questo. Bisogna averci pensato su, lavorato, rimosso pudori e vergogne perché la nostra vita è la materia che ci è più vicina, ma che per tanti versi è quella che vogliamo conoscere di meno. E quando qualcuno ce la mostra e riesce a farci dire: ehi! ma quello sono io (e a farcelo accettare), allora ha ottenuto il risultato più grande.
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