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Dave Eggers – L’opera struggente di un formidabile genio

L’opera struggente di un formidabile genio è la prima prova narrativa di Eggers, assurto con questo libro nel gruppo dei nuovi grandi scrittori americani, superstar delle lettere come Franzen, Safran Foer e il defunto David Foster Wallace.
Eggers entra con il primo romanzo nella letteratura del me, declinando su se stesso e la propria storia personale il detto delle scuole di scrittura, e cioè scrivi di ciò che conosci. Troppo facile, potrebbe dire qualcuno, ma non è così semplice scrivere di se stessi e mettersi a nudo, ma Eggers in realtà non fa solo questo, ma esibisce se stesso.
E’ un giovane rimasto orfano assieme ai suoi fratelli e a lui tocca – oppure sceglie – di occuparsi del più piccolo, Toph. A ventun anni si trasferisce ad Oakland, California, vicino a Berkeley e di fronte a San Francisco, nel punto e nel momento in cui tutto stava cominciando e per tutto intendo internet e tutte le migliaia e migliaia di start up, ma anche di riviste (come nel suo caso) e musica e arte che in quel momento di fermento stavano crescendo nella Bay Area.
Era sicuramente il posto più fico al mondo dove stare, negli anni Novanta, periodo in cui è ambientato il libro, che è un’autobiografia (e questo si è rivelato un limite nella selezione per il Booker Prize, di cui il romanzo è stato finalista, ma per la sezione non fiction). Ma L’opera struggente di un formidabile genio non è precisamente una biografia, non è pura fiction, ma non è nemmeno un saggio. Il libro non è una tesi o una somma di critiche, non è l’illustrazione di un progetto, ma è una prosa magmatica e spesso logorroica che cerca di fare il verso ai fratelli più grandi – Kerouac e Miller – ovvero quegli scrittori e innovatori del linguaggio e dei temi che hanno sempre scritto in prima persona, raccontando di se e delle loro vite. 
Il culmine di questo lavoro, con la ricostruzione della vita famigliare e tutti i suoi drammi e segreti così simili in tante famiglie medio borghesi americane, assomiglia a un’autocompiaciuta esibizione di se senza veli, di quello che è stata la sua famiglia, nel male più che nel bene, ma presentata in un metatesto, nella forma di un’intervista improbabile che il protagonista fa durante la selezione per un reality su MTV.
Questo è il nucleo centrale del racconto, ovvero come la doppia perdita dei genitori è stata elaborata e tutto quello che poteva essere affetto o rimpianto vengono messi in secondo piano, perché il suo scopo è: primo, sedurre l’intervistatrice e, secondo, farsi prendere nel cast. Ci rendiamo conto che questo è l’unico modo possibile, che il distacco dai genitori era avvenuto quando loro erano ancora in vita. Così sappiamo che il padre era rimasto un estraneo fin da quando Dave aveva otto anni, descritto nell’intervista come un violento, mentitore seriale sul suo stato di alcolista, soggetto a sbalzi di umore che si traducevano in botte sui figli.
La madre aveva dovuto prendersi il fardello di un marito come quello assieme a quattro figli da crescere, e le sue mani – assicura Eggers – erano anche più pesanti di quelle del padre, ma l’affetto di una madre era ineliminabile e quelle botte che da piccoli facevano male, da grandi diventavano sempre più carezze energiche che facevano ridere i figli e alla fine pure lei. Era quello il suo modo di esprimere l’attaccamento, l’affetto ineliminabile e irriducibile, il suo modo di dire quanto amasse i suoi figli.
Tutti questi dettagli intimi vengono fuori nell’intervista, mentre Eggers si dice pronto a ripeterli di fronte a tutto il pubblico televisivo, perché questa è la sua storia, perché raccontarla è un modo di diluire, sciogliere il dolore, distribuirne in parti più o meno grandi alla massa dei telespettatori, che capiranno e si sentiranno rappresentati.
E’ la confessione di un’ambizione smisurata, ma tutto il romanzo è un gioco, un’autorappresentazione dove vengono prese in giro le vecchie speranze diventate illusioni, fatte con tono orgoglioso di chi, in fondo, ancora un po’ ci crede. Eggers crede di poter diventare un formidabile genio, un riconosciuto protagonista della vita culturale e politica, un intellettuale ascoltato per le sue posizioni originali e anticonformiste.
Certo, è difficile reggere questo gioco per tutte le circa quattrocento pagine del romanzo, specialmente se si batte su questo stesso registro. Bisogna dare merito all’editore americano di aver creduto e scommesso su L’opera struggente di un formidabile genio; poteva essere un fiasco, il frutto di un esordiente velleitario. Questo è come sarebbe stato considerato in Italia e in Europa, collezionando solo rifiuti e indifferenza.
L’opera struggente di un formidabile genio si colloca su quella linea continua di narratori del proprio se, della propria vita come forma d’arte, dei già citati Miller e Kerouac, non a caso tutti e due abitanti o frequentatori di San Francisco e della vicina Big Sur. Ma quello che la differenzia è la meta struttura: non siamo più in prosa a presa diretta, anche se resta il flusso di ricordi, spesso vomitati in modo disordinato, così come eruttano zampillando dalla memoria, in cui è impossibile ricostruire il filo e la coerenza: bisogna lasciarsi trasportare.
C’è anche l’autocritica che Eggers fa di se, alla fine del libro, nel memorabile dialogo con il suo amico John, aspirante suicida, che lo accusa di trattare tutti come i soggetti del suo libro. Lo accusa di tenersi qualche passo indietro, di non provare vera empatia o compassione, ma di scegliere apposta chi ha problemi per far risaltare quanto bravo è lui ad occuparsi di tutti i casi disperati, compreso il suo di perenne aspirante suicida: è un cannibale, che divora le vite degli altri. Ed Eggers dice: certo, è vero, ma tutti ci divoriamo gli uni con gli altri. L’altro dubita, e diamo credito al suo dubbio, perché, in fondo, quello di cui Eggers è affetto – ciò di cui si autoaccusa attraverso la voce del suo amico John – è la malattia degli scrittori, ovvero quella di essere sempre esterno al fuoco dell’azione, in modo da poter prendere appunti mentali per poi, dopo, raccontare.
Ma questa posizione scatena un appetito e pone lo scrittore in caccia di persone, situazioni, ricordi di cui dovrà scrivere. Questo prendere appunti ossessivamente, l’uso del registratore per ricordare le cose, e insieme la sbandierata trasandatezza che fa bohemienne, lo sbagliare strada, o arrivare in ritardo, unito alla consapevolezza che tutte le persone che lo circondano saranno un giorno una storia, sono tutti segnali di un unico malessere di cui questo libro è la testimonianza e – per fortuna – la via d’uscita.
E’ una storia commovente, quella del fratello più grande che, a poco più di vent’anni, si prende cura del fratellino più giovane, Toph, che al momento del lutto è ancora un bambino di neanche dieci anni. E’ una storia che da noi verrebbe vissuta con enormi sovrastrutture, una situazione in cui interverrebbero i parenti, o gli assistenti sociali che, in mancanza di parenti, potrebbero decidere per l’affido. Invece questo punto di vista, tipicamente americano, da una forza e una prospettiva nuova e diversa.
Assieme alla sorella, vendono la casa in cui sono cresciuti, raggranellano quel tanto che lo stato sociale gli permette di mettere insieme (borse di studio) per l’educazione di Toph e danno una svolta alla loro vita. Invece di fare affidamento alla rete della cittadina in cui sono cresciuti, attraverso gli amici, i compagni di scuola e i loro genitori, i tre fratelli fanno da subito una scelta radicale, mollano tutto, si trasferiscono e Toph, il più piccolo, andrà a vivere in casa con Dave, mentre Beth, vivendo vicino, si occuperà di lui nei momenti in cui Dave è assente per lavoro o altri impegni.
Di fatto, vivere con un bambino piccolo è autolimitante, per un ragazzo di vent’anni. Significa non uscire quasi mai la sera, portarlo a scuola al mattino e andarlo a prendere, fare tutte quelle cose che fa normalmente un genitore. Forse questo modo di essere padre rappresenta un aspetto dell’essere genitori oggi, quello cioè di cercare di essere amici o fratelli, ovvero di ricoprire un aspetto, puntando tutto sulla persuasione e sulla complicità.
Di fatto Toph cresce adulto e parlando da adulto. C’è perfino un momento in mezzo a un dialogo brillante all’interno di un’auto, in cui crede di avere vent’anni, lasciandosi scappare una frase come “per quelli della nostra età.” In altre occasioni dimostra una lucidità di giudizio che non sappiamo se Dave nel suo romanzo gli attribuisca o sia davvero stato così; una lucidità che lo porta in più di un’occasione ad argomentare e tenere testa allo spesso prolisso – e cazzone – fratello più grande.
Vanno in California, a Oakland, a Berkeley, a San Francisco. Cambiano casa, Toph cambia scuola, ci sono intoppi burocratici, difficoltà a far credere che lui, un fratello, possa occuparsi come un genitore del fratello minore, viverci assieme, preparare ogni giorno da mangiare, lavargli i vestiti, seguirlo nella scuola – e intanto lavorare, e non per portare soldi a casa, ma lavorare scegliendo di fare quel che più gli piace, per seguire le sue aspirazioni.
Ed Eggers fa davvero di tutto in quegli anni pieni che ci racconta, è un vulcano di energia, con alcuni amici fonda una rivista, si sbatte a cercare di trovare i locali della redazione, a pagare l’affitto, a seguire l’amica Shalini in coma dopo un incidente, a correre alle richieste di aiuto e attenzione dell’amico John, aspirante suicida.
Lo scrive anche Eggers: cosa serve lamentarsi e autocompiangersi, tanto lo sappiamo tutti che dovremo morire, quindi facciamo del nostro meglio, qui e ora.