Paolo Morando - Dancing days
Paolo Morando – Dancing Days
Era ora che qualcuno se ne occupasse. Paolo Morando, con un’abbondanza di riferimenti bibliografici uniti a un’imponente raccolta di testimonianze dei protagonisti, ha messo in piedi un libro che mancava e che ci accompagna nella riscoperta degli anni di chi, come me, stava passando dall’infanzia all’adolescenza. Ed è curioso che tutto quanto è avvenuto fra trenta e quarant’anni fa sia da considerarsi storia a tutti gli effetti e come tale debba essere letta, cioè con il distacco dei posteri, pur trovandoci ancora in vita e avendo chiari i ricordi di quell’epoca.
Gli anni Ottanta iniziano nel Settantotto, dapprima in sordina perché il sequestro e l’uccisione di Moro concentrano tutta l’attenzione ancora sul terrorismo, ma sarà il culmine della lotta armata e l’inizio del suo declino. Come ha ammesso lo stesso Mario Moretti nella sua versione (Mario Moretti, Rossana Rossanda – Brigate Rosse. Una storia italiana), le Brigate Rosse non erano mai state così forti e contemporaneamente così deboli. Così forti perché avevano dimostrato di essere in grado di portare il loro attacco ai massimi livelli, al “cuore dello Stato”. Così deboli perché tutta l’attività svolta fino a quel momento era tesa a portare la rivoluzione in Italia, attraverso la sollevazione degli operai delle fabbriche, di cui si sentivano l’avanguardia. Tutto questo doveva avvenire con il sequestro Moro, e invece non successe. Per la prima volta le BR smettono di puntare verso una soluzione rivoluzionaria, come se si trovassero al massimo delle loro potenzialità ma non sapessero bene come fare per andare oltre, per generalizzare il conflitto e portarlo davvero alle masse, riuscendo a coinvolgere strati crescenti per avviare quello che non si osava proclamare: lo stato rivoluzionario comunista, frutto del sovvertimento delle classi sociali e degli allora rapporti di potere. Non più una borghesia avida e rapace, incapace di fare impresa se non con gli aiuti di Stato, ma un proletariato rivoluzionario capace di assumere su di sé il proprio destino. Per fare cosa, nello scenario internazionale dell’epoca, era difficile da dire. Ammesso che fosse riuscito a prevalere sulla resistenza organizzata dalla Nato tramite Gladio, che fosse riuscito a smantellare la P2, e i servizi segreti fascisti, a sostituirsi con la classe dirigente e abolire la proprietà privata per quella collettiva, al massimo, nella migliore delle ipotesi, quell’ipotesi di Stato rivoluzionario sarebbe finito fra i non allineati, a fianco della Jugoslavia di Tito e a diventare dipendente dalla Libia di Gheddafi per il rifornimento energetico.
Probabilmente le BR capiscono tutto questo, vedono la compattezza del fronte politico contro di loro e a questo punto rinculano e diventano autoreferenziali (questa la critica di Rossanda), chiedendo la liberazione dei compagni arrestati e condannati. In una situazione in cui avrebbero potuto chiedere la luna (senza poi sapere, eventualmente ottenuta, come fare ad arrivarci), si sono accontentati del posto da usciere, come nella parodia di Totò (“vado a palazzo e chiedo un posto da primo ministro, poi se non me lo danno allora tratto, al massimo mi fanno fare l’usciere”). Ma ecco nello stesso anno, sulla base di un’intuizione dell’allora direttore del Corriere della Sera Franco Di Bella, emergere la distrazione: la finta lettera – pubblicata in prima pagina – di un uomo che minaccia di suicidarsi per amore.
Suicida per amore
E’ la stessa tecnica utilizzata in occasione dell’attentato a Togliatti, il cui clamore fu bilanciato dalla notizia della vittoria di Bartali al Tour de France. La lettera è un seme che piano piano cresce e si monta un caso. L’intento è quello di distrarre l’opinione pubblica; è quello di allontanare le persone dalla politica attiva e dalla stessa informazione politica, in un processo arrivato fino ai giorni nostri. Processo in cui è “la politica” che viene presa in toto come un unico soggetto negativo, un Moloch che opprime il popolo con tasse e ingiustizie, mentre lei se ne sta comodamente seduta sulla schiena dell’artigiano, del commerciante, del professionista, ma anche del magazziniere, della cassiera, dell’impiegato pubblico (esecrato da tutti perché parassita tale e quale al politico eletto).
Nasce in quegli anni – o meglio trova voce – quel fondo di qualunquismo che ha sempre fatto parte di tutti, non solo degli italiani. Anche perché le battute sui politici corrotti e ignoranti sono alla base di ogni crime story americana, impostata proprio sulla lotta dell’eroe singolo, con i metodi spicci e poco attenti alla legalità, ma efficaci, in contrapposizione al sistema. La narrativa americana – o una certa Hollywood conservatrice dai film di Callaghan a scendere, che tanto piacciono alla critica italiana – è impostata con la retorica dell’eroe solitario, solo contro tutti, testardo a dispetto del fatto di avere il mondo contro.
Il loner paga per le sue posizioni, arriva a strisciare per terra ma non muore e nemmeno cambia idea. Alla fine si rialza e vince grazie alla caparbietà e alla convinzione nei valori in cui crede: libertà dell’individuo, capacità personale, capacità di resistenza e forza nella lotta di tutti contro tutti. E’ questo lo schema di Saturday Night Fever. Travolta è un tamarro, ma sa fare bene una cosa sola: ballare. Ed è il migliore a casa sua, alla discoteca Odissey di Brooklyn. Travolta è un proletario, fa il commesso in un negozio di vernici; è uno fra i tanti e non si muoverà mai da lì, se non per fare lavori simili e malpagati da altre parti. Ma ecco che c’è la possibilità di travestirsi e aspirare a essere un supereroe. Ci si traveste e si esce fuori, mentre tutta la vita di merda trascorsa fra gli scaffali per magia svanisce in poche ore di alcool, sesso e narcisismo. Qui l’eroe finisce di strisciare e diventa star: star per una notte e solo in quel posto lì, ma comunque una persona riconosciuta. E’ questo che fa scattare l’identificazione di massa: il fatto che chiunque possa diventare un piccolo campione a casa sua.
Il ritorno al privato
Sono un ciccione sovrappeso, ma l’estate scorsa in spiaggia ho vinto il torneo di scala quaranta. Faccio il postino ma all’una stacco e vado a correre: sono il più forte della mia squadra e lo sponsor mi paga le trasferte e le scarpe. Oppure non sono nulla di tutto questo, ma mio figlio è il migliore della classe, mia figlia si è qualificata per le regionali di danza acrobatica. Ognuno si trova il suo tunnel, la sua nicchia nella quale rinchiudersi e sperare di trovare un minimo di serenità e riconoscimento in un mondo che va a rotoli: si guadagna sempre meno con Stati sempre in guerra e in Africa (l’Africa!) stanno sempre peggio e nessuno che sappia cosa fare. Nessuno che sappia farci niente. La febbre del sabato sera è quello che ci vuole per distrarre i tanti che in Italia nel ’78 ancora credono che qualcosa si possa fare, che unendosi si riesce a vincere, ogni tanto.
Quel che conta è che tutto venga fatto stare sotto un unico cappello. La discoteca non è la monopolista del tempo libero, ma i media montano il fenomeno e pare che non ci si riesca più a divertire se non fra le luci stroboscopiche della sala da ballo. Nell’Italia di quegli anni ci sono altri modi per divertirsi, come le famose marce dell’amicizia, o le feste di paese o sagre o festival dell’Unità. Tutti modi che uniscono le persone invece che separarle in entità isolate, cosa che fa la discoteca. Comunque la si metta, quello che deve passare è che la gente ha bisogno, ha tanta voglia di divertirsi, distrarsi, smettere di pensare ai licenziamenti, alla disoccupazione, l’inflazione, la stagflazione, il terrorismo e anche la politica. Anzi, la politica come categoria a se stante non esiste ancora. Di politica si parla, perché lo fanno gli esponenti di partito, le sigle, i fatti.
C’è un linguaggio, il politichese, come anche il sindacalese. E se c’è un linguaggio è perché tutto è politica. Così arriva il rifugio nella musica, in una sala buia dove si moltiplicano i richiami erotici, dove ci si può permettere di scatenarsi, di muoversi come lui, come John Travolta, oppure per le ragazze mostrarsi, senza aver paura di essere considerate un oggetto di piacere. E questo è già un salto notevole che avviene da subito. Al corpo non si comanda – e chi se ne frega se il rischio è che, a lungo andare, il corpo diventi una merce. Dopo pochi anni tornano i concorsi delle miss, sospesi o aboliti per qualche anno durante il massimo della contestazione femminista, dal ’75 al ’77. E i concorsi, le eliminatorie per miss Italia di ogni provincia o regione, verranno proprio fatti in discoteca.
Ciò che importa nel 1978 e 1979 è insistere sul ritorno al privato, ovvero montare ad arte, proporre profezie che si avvereranno, come il cosiddetto Scenario descritto nel libro di Morando, ovvero l’analisi sociologica prodotta per i vertici della Rizzoli sulle tendenze degli anni a seguire. Da cui viene fuori quello che gli italiani desiderano nei prossimi anni: spendere quanto si è accumulato, godersi la vita e mollare un poco i cordoni della borsa.
Siamo o eravamo fra i popoli più risparmiatori al mondo e nell’ultimo decennio, grazie alle lotte sindacali, è avvenuta la più grande redistribuzione di ricchezza dal dopoguerra. Quindi il discorso prevalente che descrive e gonfia fenomeni di nicchia facendoli diventare di massa diventa funzionale a quanto previsto nello Scenario, che finisce poi per avverarsi.
Quanto è avvenuto, scrive Morando, è un processo storico che non era pienamente capito o previsto dai suoi stessi autori. E’ certo che in quegli anni la storia che si credeva progressiva cambia di verso. Dopo pochi anni Ronald Reagan e Margaret Thatcher andranno al potere con le parole d’ordine più lontane da quanto li aveva preceduti: quel “il governo è il problema” in USA e la lotta feroce contro i minatori nel Regno Unito hanno segnato l’inizio di una nuova epoca, che ha influenzato in negativo tutto il mondo di allora.
I guerrieri della notte
In Italia ci si accoda, come sempre. I vincitori sono noti e c’è chi è più svelto a saltare sul loro carro. Ma l’alba del neoliberismo, destinato a diventare negli ultimi anni il pensiero unico, non sorge sul nulla, ci sono stati i dancing days che hanno preparato a quelle idee un atterraggio morbido. Sarà la stessa discoteca a evolversi, destinata a durare fino ai nostri giorni e diventare un punto di riferimento – se non il primo – del tempo libero.
Poteva andare così, oppure poteva andare diversamente? Proviamo a immaginare un mondo senza la Febbre del sabato sera. Probabilmente il terrorismo avrebbe comunque terminato il suo corso per mancanza di sbocchi, anche se l’antagonismo sociale sarebbe durato più a lungo. Forse sarebbero rimaste solo le cose negative e cioè parte dei gruppi della sinistra extraparlamentare che sarebbero scivolati nell’uso di droghe e che, mescolandosi con il sottoproletariato delle periferie, avrebbe aggravato il fenomeno della microcriminalità diffusa e della violenza di strada.
A fare da apripista, a dare una veste legittima ed eroica a tutto questo, in quegli stessi anni è uscito un altro film che ha segnato la sua epoca. Il lungometraggio I guerrieri della notte del 1979 di Walter Hill, rappresenta la più compiuta epopea delle bande di strada newyorchesi, cui gli autori danno un’ascendenza nobile, ovvero i Guerrieri rappresentano i mercenari greci che devono tornare a casa, come descritti nell’Anabasi di Senofonte.
Allo stesso modo i Warriors ingiustamente accusati dell’omicidio del leader spirituale delle gang di strada, tale Cyrus, dovranno farsi largo a pugni e mazzate da baseball per tornare nel loro quartiere di Coney Island. Anche i Guerrieri della notte rappresentano la deriva che segue la disgregazione dell’unità. Il film parte da un grande raduno nel Bronx, in cui tutte le gang sono invitate e sul palco c’è un leader spirituale, Cyrus, che invita tutte le bande a impossessarsi della città (“perché la città è nostra, fratelli, e noi la vogliamo. Sono stato chiaro?”).
Alla base di questa conquista, di questa riscossa dal basso, ci dev’essere pace fra le gang; basta guerre fra poveri “per un misero pezzo di territorio”. La storia di New York e delle altre città costiere fondate o conquistate dai britannici come colonie (Boston, Philadelphia, Charleston, etc.) è costellata dalla fondazione e per tutto il Settecento da continue rivolte in cui marinai bianchi e neri che diventano pirati, pirati catturati, schiavi e schiavi fuggiaschi, irlandesi ed estremisti religiosi (diggers e levellers esuli o in fuga dalla madrepatria) per cui “Dio non fa differenze” si uniscono per sfuggire ad arruolamenti forzati, per liberarsi dalla schiavitù, per ribellarsi a governi oppressivi che obbligano i vagabondi disoccupati al lavoro in piantagione, per ribellarsi a tasse inique.
A New York si era scatenata una delle rivolte più famose, in cui i ribelli erano riusciti a occupare il forte eretto a difesa del porto e della città (Peter Linebaugh – Marcus Rediker – I ribelli dell’Atlantico). Il discorso di Cyrus non nasce dal nulla, è figlio di una tradizione sotterranea della storia americana e delle due sponde dell’Atlantico. Quando riaffiora è per manifestarsi sotto forma di rivoluzione o rivolte, ma gli ideali nel tempo restano gli stessi: lotta per la libertà e l’uguaglianza, fratellanza universale, contrapposta all’egoismo della proprietà, contro la forza delle armi in mano al potere. Ma il discorso di Cyrus è il canto del cigno. A uccidere Cyrus sparandogli in mezzo alla folla è un rocker tossico, probabilmente pagato dalla polizia, che infatti subito dopo l’attentato fa irruzione da ogni lato nell’arena del raduno. A quel punto ognuno corre per se, la Tregua è spazzata via e la storia della ribellione cambia verso e diventa la narrazione di una fuga, avventurosa finché si vuole, ma si tratta di una ritirata, in cui ogni sogno di conquista è già alle spalle e quel che conta è portare a casa la pelle.
Alla fine i Guerrieri arrivano a Coney Island, all’alba. Camminano fra le giostre che saranno invase dai ragazzini di tutta la città nel giro di poche ore. Sono in un posto di confine, dove ci sono polvere, sabbia, chioschi montati su palafitte, rifiuti e vento dell’Atlantico. In mezzo a tutto questo, in una frase memorabile uno di loro dice: “Abbiamo combattuto tutta la notte per tornare in questo posto di merda”. La lotta per la vita ha preso il posto di quella per il pane e le rose, è questo il senso dei Guerrieri della notte.
E’ emblematico che tutti e due i film, La febbre del sabato sera e i Guerrieri della notte siano ambientati a New York – ovvero la capitale dell’Occidente e il suo simbolo – che tutti e due descrivano mondi che neanche si toccano eppure uno, i Guerrieri, potrebbe benissimo essere la genesi del secondo: i ragazzi smettono di combattere per strada, perché le alternative sono: finire in galera, morire ammazzati o morire di overdose. Allora è meglio rinculare, fare vita di quartiere, lavorare come si può e scatenarsi il sabato sera. Le due storie potrebbero essere l’una la prosecuzione dell’altra.
L’intelligenza di chi all’epoca governava i processi, coloro che a vario titolo e con funzioni diverse costituivano l’elite economica, politica e culturale, è stata quella di reprimere le istanze rivoluzionarie, chiudere gli sbocchi sovversivi, tagliare gli spazi pubblici e lasciare uno spiraglio: la discoteca, il ballo, il consumo controllato di droghe e pure il cambio di stupefacenti, dall’eroina alla cocaina. L’eroina fornisce orgasmi midollari ma porta conseguenze amare: doma energie ma genera delinquenza, disgregazione sociale. Al contrario la coca libera energie, ma sono tutte incanalate nella ricerca del piacere. Socialmente è ancora una droga da ricchi, quindi fa status, è voluta e ricercata.
Arriva la disco
Scrive Morando che i proprietari del Club 54 di New York, la mecca, il riferimento per tutti gli amanti della disco music, verranno arrestati per possesso di cocaina ed evasione fiscale. Dopo, una volta usciti di prigione, cederanno l’attività. Anche questo è un segnale di passaggio: l’eroina è un mercato che andrà ad esaurirsi con i tossici ancora in circolazione e che resteranno in vita ancora per un decennio, ma è la cocaina la droga in ascesa, quella legata alla prestazione, all’energia, fino a diventare un eccitante fra i tanti a disposizione per poter restare svegli e lavorare di più.
Anche la hit parade di quegli anni vede la disco avanzare con prepotenza. Nel 1978 la disco vende trentacinque hit fra le prime cento dell’anno e Stayin’ Alive dei Bee Gees occupa la testa della classifica. Per dare un’idea, nel rimanente sessantacinque per cento troviamo – accanto al solito mare magnum del mainstream/melodico italiano – solo cinque hit di cantautori, fra cui Generale, di De Gregori, indimenticabile inno pacifista, e Stranamore di Vecchioni, anche lui ripiegato su un tema non propriamente impegnato.
Da notare è un genere, quello delle sigle televisive, con undici pezzi in classifica, che indica la massificazione dei consumi e l’allineamento del pubblico sugli spettacoli delle reti RAI. Tutto questo ben lontano dal 77 bolognese e dalla lotta armata. Anche qui, prevale il desiderio di evasione. Ancora più sintomatica è la scarsa presenza, in posizioni lontane dalla vetta, di tre soli pezzi rock anglosassoni: Miss You dei Rolling Stones, Heroes di David Bowie e Rock Around the Clock di Bill Haley, quest’ultima però nota come sigla della serie televisiva Happy Days, quindi ascrivibile più al gruppo sigle TV.
Nel 1977 la disco occupava ventisei posizioni fra le prime cento, con una presenza preponderante di Donna Summer, che con I Feel Love era arrivata in vetta per qualche tempo, pur non risultando la prima assoluta di quell’anno. Nel 1976 la disco occupava solo sedici piazze fra i primi cento. Era un segnale, certo, ma fu l’esplosione seguita alla Febbre del sabato sera con le travolgenti canzoni dei Bee Gees che cambiarono il costume e i modi di vivere la notte, che non sarebbero stati più gli stessi. Fino a quel momento il concetto di night life non esisteva.
I locali alla moda un tempo erano quelli distribuiti nelle località balneari, terreno di caccia al vip da parte di paparazzi, aspiranti attrici e playboy da leggenda. Lì si ballava, beveva e straviziava, ma in un ambito ristretto, dove i presenti potevano trovarsi indifferentemente nei locali o nella villa di Brigitte Bardot. L’esportazione da quel modello a fenomeno di massa, l’aumento delle dimensioni dei locali, il progressivo trasferimento dai centri cittadini alle periferie e poi all’esterno delle città, la stessa estetica fatta di pavimenti con piastrelle illuminate in vari colori dal basso, luci strobo, volume alto, ne hanno fatto un fenomeno nuovo, dove il divertimento diventa di massa e massificati sono i consumi di alcool e di droghe. Ad attrarre nelle discoteche è anche la miscela di frequentatori, dal ricco al proletario, dal teppista al rapinatore, dallo spacciatore al teppista. La figura del proprietario di locali notturni è sempre stata su un terreno equivoco, ambiguo e contiguo al mondo criminale e questo era un elemento di fascino e attrazione.
Basterebbe guardare alle classifiche delle hit parade di quegli anni per capire che gran parte del Paese, quello fuori dai centri urbani e dalle località alla moda, dal nord come al sud, vive ancora delle tradizioni e dei modo di vivere rispecchiati nel mondo delle canzonette, sia italiane che anglosassoni: si va da Summer Nights della coppia Travolta/Newton John a Tu di Umberto Tozzi, passando per Gianna di Rino Gaetano, quest’ultima con un tocco ironico sui tempi che corrono (Gianna difendeva il suo salario/dall’inflazione).
Insomma c’è un’Italia profonda, un’Italia che non è stata toccata dalle avanguardie e neanche attraversata dalle contestazioni del Sessantotto e degli anni successivi. Un’Italia che non è rimasta intatta come un tempo, ma che è rimasta ferma, indietro di dieci o vent’anni rispetto a quanto hanno vissuto le città – e neanche tutte. In quegli anni comincia sgretolarsi il mito del matrimonio, dapprima con la diffusione dei matrimoni civili, e successivamente delle convivenze. Il matrimonio non è più un obiettivo e tantomeno un rito di passaggio. Il cosiddetto riflusso avvia anche una riflessione sul privato, dove cambiano le famiglie, aumentano i divorzi che vengono alla luce dopo il referendum del ’74. E’ un’esplosione di separati e divorziati, con relativi figli. Famiglie che si rompono e si ricompongono in nuove, con difficoltà e pazienza. Sono questi i movimenti sotterranei, quelli che portano la società a specchiarsi per scoprire nuovi lineamenti.
Nel 1979 la disco si consolida con trentatre pezzi fra i primi cento dell’anno. E’ l’epoca d’oro del genere, anche se in America il fenomeno ha un brusco declino. Il 12 luglio 1979 nello stadio del baseball di Chicago l’evento Disco Sucks – Disco Demolition Night pone una fine brusca a tutto il fenomeno. Da un giorno all’altro i vestiti a zampa d’elefante fatti di lustrini dorati e argentati, le paillette, i travestimenti, le tute spaziali luccicanti o quelle fascianti e inguainate da stivaloni vanno fuori moda e vengono rifiutati. Da un momento all’altro il nuovo decennio vede emergere nuove figure sociali, legate all’ascesa di Reagan.
Cambio di valori
La ricchezza diventa un valore in se e la misura della capacità e intelligenza di un uomo. La donna torna a un ruolo subalterno e l’unica sua speranza è quella di essere abbastanza gnocca e sexy da sposarsi un ricco, o un uomo in carriera. Il femminismo si muove da un ruolo antagonista a uno concorrente all’uomo. La donna ora deve competere per le posizioni di potere degli uomini, in una logica tutta maschile di lotta, dove la femminilità è solo seduzione funzionale a obiettivi materiali: l’assunzione, la promozione, l’aumento, la parte nel film o nella commedia.
E’ comunque una deriva del vecchio femminismo che si era sviluppato su altre basi, secondo cui la liberazione della donna avveniva assieme all’uomo e il nemico comune erano le classi dominanti, portatrici di valori repressivi ispirati dall’ipocrisia religiosa. Da lotta “con” gli uomini a lotta “contro” gli uomini, dove gli obiettivi cambiano: dal femminismo come avanguardia del progresso al femminismo come competizione con il mondo maschile. Il movimento degli anni Settanta è al confine: le lotte per divorzio e aborto di quegli anni sono ancora lotte che vedono coinvolti anche gli uomini, verso una comune liberazione. Una volta raggiunti quegli obiettivi, il movimento in Italia come in tutto il mondo occidentale si cristallizza, per poi diventare una affirmative action verso le posizioni di potere.
A chiudere questo esame emerge la constatazione che il motore della storia sono gli atti volontari, che in tutto o in parte generano conseguenze volute e strascichi prolungati che di certo non erano previsti. Morando parte dal frullo d’ali di una farfalla: la decisione di pubblicare sulla prima pagina del Corriere una lettera privata di un aspirante suicida, e fa cominciare tutto da lì. Ma l’assist, se così si può dire, arriva dalla decisione delle BR di chiedere allo Stato il rilascio dei loro compagni prigionieri.
Questa chiusura nell’autoreferenzialità dell’organizzazione terroristica è la stessa matrice che viene trasferita e declinata in altri ambiti. Se le BR avessero chiesto altro. Oppure se le BR avessero utilizzato gli scritti di Moro per screditare lo Stato, per attaccarlo dall’interno, questo avrebbe spostato verso di loro il grande fronte degli indecisi, quelli che dicevano, come Eco, “né con lo Stato, né con le BR”.
Se le BR non avessero ucciso Moro, ma utilizzato i suoi scritti per attaccare il cuore dello Stato, questo avrebbe spostato l’asse nell’opinione pubblica: senza macchiarsi del suo sangue (e mettendosi in un angolo da soli), avrebbero potuto proseguire la loro lotta attraverso un’autolegittimazione, senza cercare il riconoscimento da uno Stato come quello di allora, che pochi ritenevano degno di fornire patenti a qualcuno. La legittimazione sarebbe arrivata da una parte dell’opinione pubblica e dei media più attenti alle bugie e omissioni di regime.
La scoperta di un’organizzazione come Gladio, alla fine degli anni Settanta, avrebbe riempito le piazze e provocato come minimo la caduta dell’allora governo Andreotti. Si sarebbe creato un movimento di opinione e si sarebbe stabilita una verità storica che avrebbe potuto essere usata politicamente.
Peccato che né le BR né nessun altro nelle redazioni dei giornali fossero in grado di comprendere quello che Moro voleva dire in alcuni passaggi dei suoi scritti durante la prigionia. E se all’epoca era impossibile capire qualcosa attraverso l’unica fonte che usava le sue lettere come mezzo di pressione, è pur vero che la sua liberazione avrebbe creato instabilità e l’uso di quello che aveva detto durante la prigionia avrebbe avvantaggiato le BR.
E’ pur vero che l’azione di Di Bella, da sola, non avrebbe portato conseguenze. Come è pur vero che Di Bella non si è certo ispirato alle richieste delle BR per pubblicare una lettera in prima pagina. Come è pur vero che anche senza quella lettera a fare da apripista, qualcos’altro si sarebbe tentato, in linea con lo Scenario in mano alla direzione della Rizzoli.
Il punto critico
Quella che è certa è la mancanza di scrupoli nell’attuazione del disegno distraente, ovvero quella di voler pubblicare un falso in prima pagina. La stessa lettera, nella sua costruzione interna, si presta per non far trovare riscontro. Dice l’anonimo che il suo sarà un suicidio che passerà inosservato, camuffato da incidente automobilistico o altra disgrazia imputabile a fatalità. Quindi dalle cronache dei giorni o mesi successivi non si potrà evincere il proposito dell’anonimo. E visto che la cosa è piaciuta e ha avuto successo, Di Bella non esiterà a usare questo escamotage – quello della lettera in prima pagina – altre volte, per puntare il cannone mediatico verso un’altra direzione – l’adulterio – rispetto a quella seguita dalla cronaca di quei giorni.
C’è un libro di Malcolm Gladwell intitolato Il punto critico. I grandi effetti dei piccoli cambiamenti (orig. The Tipping Point: How Little Things Can Make a Big Difference) in cui si propone di spiegare come fatti casuali, canalizzati al momento giusto da determinati tipi di persone, scatenino effetti a valanga simili alla diffusione di epidemie. E’ un libro che ha suscitato polemiche e critiche, in cui certi suoi assunti sono stati messi in dubbio da esperimenti e prove di segno contrario che non è il caso qui di stare a spiegare.
La lettera in prima pagina del Corriere può benissimo rappresentare uno di questi eventi, scatenando un’ondata di reazione dei lettori e dei critici che parlano di un ritorno al privato; un dibattito che mette in contrapposizione la vita privata delle persone che si contrappone non già alla vita pubblica, ma alla vita pubblica intesa come esercizio politico dei propri diritti. E’ l’impegno politico, il coinvolgimento di una larga fetta di giovani lavoratori, studenti, disoccupati nel dibattito politico, l’espressione di rivendicazioni, istanze e diritti. Sono le denunce della corruzione della classe dirigente, della soperchieria delle mafie (che costerà la vita a Mauro Rostagno e a Peppino Impastato) l’obiettivo della campagna del Corriere.
Si trova il mezzo per smontare l’attivismo giovanile che, ricordiamolo, è un fenomeno minoritario nell’Italia di allora, ma è trainante dal punto di vista culturale. E quella che il Corriere avvia con tutto il fuoco che ha a disposizione con il gruppo editoriale più grande in Italia è una kulturkampf. Si usa, con successo, il privato, per scardinare l’impegno in politica.
Ma quello che Morando spiega nelle ultime pagine è che la lettera di Di Bella si innesta in una situazione degenerata del Movimento, si era giunti a un tipping point. Cos’è un tipping point? E’ un fatto, un evento, anche piccolo, che fa cambiare di verso a una determinata situazione sociale degenerata, in cui pare non sia più possibile continuare ad adattarsi. E’ il momento in cui qualcuno dice basta.
La metropolitana di New York era in pesante passivo perché esisteva una grande percentuale di utenti che non pagava il biglietto o non si abbonava. Era una situazione endemica ed epidemica, ma l’amministrazione aveva individuato alcune fermate in cui questo fenomeno era un comportamento diffuso. Chi non comprava il biglietto non era un criminale, erano spesso onesti lavoratori che non pagavano e saltavano i tornelli perché anche gli altri lo facevano. Comportamenti devianti anche piccoli come questo, non puniti, generano altri comportamenti devianti, come l’aumento di furti, la sporcizia lasciata dappertutto, scritte sui muri e sui vagoni dei treni.
L’amministrazione decise di concentrare i suoi sforzi nelle stazioni più disagiate, rinforzandole con un maggior numero di controllori per giorni e giorni, fino a scoraggiare del tutto i tentativi di scavalcare. Le stazioni venivano ripulite e le scritte cancellate ogni notte sia dai muri che dai vagoni. Ogni notte, con costanza, in un braccio di ferro che alla fine scoraggiò sia i taggers che i pendolari che cominciarono a gettare le cartacce nei cestini. Perché tutto questo e perché in quel momento, si chiede Gladwell. La spiegazione che si da è che la situazione era talmente degenerata che l’elezione di Giuliani (repubblicano e conservatore nella città roccaforte dei democratici) era il segnale che era stato raggiunto un tipping point, un punto di non ritorno e da quel momento le cose dovevano cambiare.
In Dancing Days l’analisi di Morando va a pescare le vicende delle autoriduzioni ai concerti, le invasioni di sale e palchi, la degenerazione al festival di Re Nudo, sgomberato con cariche di polizia perché la gente era in balia di se stessa, come segnali di saturazione del movimento di protesta, del Sessantotto lungo che si stava chiudendo con il Movimento del ’77. Erano segnali di un’impossibilità di fruizione della cultura, del ritorno a un’astratta legge del più forte, o della massa organizzata che obbediva spesso a istanze di nicchia, autoreferenziali se non irrazionali, della cristallizzazione di posizioni politiche, di slogan scanditi a pappagallo, di un linguaggio politico che stava perdendo di senso. Ecco allora il tipping point, un atto volontario che farà cambiare di verso a un’onda arrivata al suo culmine e che dopo, inevitabilmente, rotolerà in avanti ma verso da un’altra parte, una società adattata ai cambiamenti avvenuti, che in parte cercherà senza successo di modificare (i referendum falliti sull’aborto) e che per gran parte riuscirà a digerire.