Cormac McCarthy - Meridiano di sangue
Meridiano di sangue di Cormac McCarthy è il romanzo del male e della violenza. Non c’è salvezza, non c’è redenzione, la natura umana è fatta solo di lupi che azzannano e ammazzano i propri simili. Peggio dei lupi, perché si adoperano a usare la ferocia e la brutalità nel procurare umiliazione e sofferenza, tutte cose in cui l’uomo eccelle sul mondo animale.
Il racconto e le descrizioni sono trasfigurate in un ambiente mitico, dove la natura è la sola cosa bella e gli uomini la percorrono nei suoi deserti, montagne, pianure salate, tramonti.
La compagnia è il cavallo e un’arma da fuoco. Senza di loro l’essere umano non è solo nudo, ma non si presta nemmeno ad essere oggetto di narrazione. E’ semplicemente incapace di suscitare attenzione. L’uomo ferito deve cavarsela da solo, arrivare strisciando fino al paese più vicino, implorare aiuto e sperare che il primo arrivato lo raccolga invece di derubarlo e finirlo come un cavallo zoppo.
Il nulla dietro alla brutalità
La banda di Glanton, il capo psicopatico di un branco di desperados che seminano il terrore da un lato all’altro della frontiera, non ha pietà per nessuno. Sono cacciatori di scalpi – e vengono pagati dagli alcalde messicani a scalpo, portato come prova di ogni indiano Apache ucciso. E’ una guerra dove prevale il lato peggiore dell’uomo: gli indiani attaccano le carovane e seviziano, uccidono e derubano e i bianchi puzzolenti e dementi della banda Glanton massacrano villaggi indiani con donne e bambini, collezionando scalpi e altri macabri trofei come collane di orecchie.
Ma Glanton è solo il capo, in realtà è un altro membro della banda, detto il giudice, colui che ispira le peggiori azioni, che ha trovato Glanton e la sua banda e ne è diventato il trascinatore.
Non viene chiamato con un nome, solo il giudice, così come il protagonista anche lui senza nome, il ragazzo. E’ sintomatico che i due personaggi principali, il protagonista e l’antagonista abbiano qualcosa in comune che giustifica l’assenza di un nome proprio. Quel qualcosa è il vuoto, il nulla, che si esplica nella ferocia delle loro azioni e nella follia dei discorsi del giudice, che spazia dai destini dell’umanità alla nobiltà e santità della guerra, massima realizzazione dello spirito umano.
Al di là del male
Il giudice è filosofo e scienziato, ballerino provetto e chimico geniale, capace di fare tutto e sopravvivere a tutto. Il ragazzo potrebbe ucciderlo, più di una volta la figura glabra e gigante attraversa il mirino della sua pistola, ma non lo uccide. Il giudice sopravvive a ogni situazione. Nei momenti più disperati riesce a convincere chiunque a dargli il fucile, salvo poi ammazzarlo.
Il giudice è il demonio, il male incarnato che non muore mai, che ama ballare in mezzo a puttane e ubriachi. Il giudice ha le fattezze di un neonato cresciuto, è completamente privo di peli e di capelli. Ama ballare, è agilissimo sulle gambe e sui piedi nonostante la stazza grandiosa, ed è il massimo di contatto che si permette con l’altro sesso e il resto dell’umanità. Per il resto è un essere asessuato e riesce a far dimenticare il ribrezzo che genera con la potenza delle sue parole, con la sua capacità di persuasione, anche se si tratta di deliri lucidi.
Il giudice può essere un caso inclassificabile in psichiatria perché il terapeuta non saprebbe vederci dentro, perché c’è solo quello, il nulla e non c’è altro capace di farci rizzare i capelli, cioè la presenza del male senza uno scopo.
Il giudice – che di certo non rappresenta il bene – è però al di là del male di come lo potremmo intendere. Il male che noi umani conosciamo è quello generato dall’interesse, dall’opportunità, dall’avidità, dall’ambizione. C’è sempre uno scopo più o meno evidente nelle azioni malvagie; c’è una convenienza di fondo che il giudice non ha.
Il giudice compra due cuccioli di cane da un ragazzino messicano in un villaggio minerario. Li compra perché gli vengono offerti, forse li paga anche più di quanto gli era stato proposto.
Poi li prende per la collottola e li butta da un ponte, ad annegare in un torrente impetuoso.
Uno degli scagnozzi che hanno seguito l’azione fa tiro a segno con le bestie in acqua fino a colpirli.
McCarthy ci mostra il male assoluto – il giudice che toglie la vita ad altri esseri senza un motivo – e subito dopo la banalità del male – gli spari degli idioti che sono spinti dal suo gesto ad osare, legittimati dal giudice a finire l’opera, sghignazzando ubriachi.
Questo è il prodotto in una società in formazione come quella della Frontiera, dove i banditi si permettono di sparare ai soldati o di torturare e uccidere gli sceriffi. Nella società della frontiera c’è la certezza dell’impunità, o perlomeno esiste il diffuso sentimento che sia molto facile fare del male e restare impuniti, perché c’è sempre un altro posto dove andare, più sperduto, selvaggio, dove sia possibile continuare a esercitare la prepotenza e la ferocia.
Come nel Signore delle mosche, altra rappresentazione del male nella sua genesi, così, sembra dirci McCarthy, l’umanità lasciata a se stessa, priva di un’autorità regolatrice, genera solo istupidimento e cieca violenza.
Il rovescio del mito della frontiera
Nei romanzi di McCarthy (Meridiano di sangue, ma anche la Trilogia della frontiera) è in Messico che avvengono le cose peggiori, i delitti più efferati, i massacri, come se al di là del confine americano, percepita come la propria legittima frontiera, ci fosse anche un luogo dove andare oltre. Come se la frontiera rappresentasse i limiti del possibile, mentre giù, a sud, partono i territori dell’impossibile, in cui fatti e azioni vergognosi, episodi raccapriccianti saranno dimenticati.
Alla base dell’ideologia fascista sta l’odio: l’odio per l’inferiore e per il diverso, il disprezzo per “gli Stati di merda”, come direbbe Trump. Quindi, sapere che esiste un simile territorio dove sia possibile far uscire le peggiori pulsioni di morte perché sicuri di non essere puniti, ma di essere ricompensati dai frutti dei delitti commessi, rappresenta una spinta fortissima a raggiungere simili luoghi, dove mettere alla prova e superare i limiti imposti dalla morale che esiste su, nel nord ricco e sicuro.
Ma la mostra di atrocità del Meridiano di sangue si presta anche a essere letta come il rovescio del mito della Frontiera. I banditi avevano pistole e fucili, e affrontavano gli indiani armati di archi e frecce. La disparità di sviluppo e la sproporzione nei numeri – i bianchi arrivavano sempre più numerosi – avevano reso l’avanzata inarrestabile.
Dopo aver raggiunto la California e perso la banda, il ragazzo cresce e farà sempre lavori da pistolero. Ha una sua freddezza che lo aiuta. Poi torna verso est e le ultime scene, lui già adulto, intorno al 1880, sono quelle di praterie piene di scheletri di bisonte. Ossa calcinate, che uomini becchini radunano in enormi cataste di teschi e corna, per farne qualcosa.
L’epopea è finita: quello che si poteva distruggere è stato distrutto, uomini e animali. Tutto era già stato segmentato a tavolino: i confini dei nuovi stati dell’unione, quelli delle proprietà.
Quello che era stato segnato sulla carta è già stato inciso sulla terra. La corsa del più veloce, del più forte, del più spietato era terminata. Ognuno sgomitando stava cominciando a trovare il suo posto e a fermarsi per cominciare una nuova vita.
Lirismo e ferocia
Il mito della Frontiera ci racconta la tensione verso una vita migliore, alla ricerca di un nuovo inizio in cui l’umanità, libera da vincoli feudali, di sangue o di razza costruisce una nuova società più giusta ed uguale in una terra libera, ma non è successo questo, ci dice McCarthy, perché questo mito è stato marchiato con un lato oscuro di sangue e violenza, dolore e brutalità – come in ogni altro tempo.
E’ disturbante, leggere Meridiani di sangue. E’ un esercizio di pazienza, perché bisogna armarsi di tolleranza per sopportare il lirismo delle descrizioni del paesaggio, dove ogni descrizione tende verso l’assoluto. Se ne abusa, del lirismo, che è un’arma delicata, da usare dopo aver preparato il lettore o il pubblico con un crescendo gestito dall’autore, che come un demiurgo sa amministrare le emozioni, i battiti del cuore, i brividi corticali fino all’acme.
E’ quasi uno spreco l’uso che fa McCarthy del lirismo: in ogni pagina si trovano descrizioni che terminano in paragoni iperbolici, la natura che vuole continuare a recitare la parte dello spettatore distante e neutrale, crudele o benevolo, senza alcuna volontà.
La narrazione non è alimentata da alcuna tensione, che può essere una scelta, ma porta il lettore a vagare da un deserto a un altopiano, da un fiume a città tutte uguali: piccole, povere, abitate da sottouomini che conducono una vita miserabile alla mercé del primo prepotente.
La narrazione viene definita dalle iterazioni degli stessi schemi, della stessa violenza, in scenari immensi ma uguali fra loro. Sembra l’inferno, forse è la descrizione più feroce che ne è mai stata fatta.
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