Colson Whitehead – La ferrovia sotterranea
La ferrovia sotterranea di Colson Whitehead è la storia della fuga verso la libertà di Cora, giovane schiava che nella prima metà dell’Ottocento scappa assieme all’amico Caesar dalla piantagione dei Randall, in Georgia e, attraverso varie tappe, arriverà al nord antischiavista. La ferrovia sotterranea era una metafora con cui si indicava la rete di contatti e di strade segrete, nelle campagne, fra monti e boschi attraverso i quali i neri riuscivano a guadagnare la salvezza. Durante questo tragitto molti venivano catturati dai cacciatori di schiavi, assoldati dai proprietari delle piantagioni, i cui servigi erano ben pagati. Una volta tornati alle piantagioni, ai catturati era riservata una morte lenta e orribile, in cui la fantasia dei bianchi trovava sfogo nell’invenzione di atrocità brutali, riportate nel libro di Whitehead.
Nel racconto la ferrovia non è solo metafora, ma diventa realtà concreta: è una lunga galleria che si snoda attraverso gli Stati del Sud schiavista, a cui si accede attraverso botole all’interno di fienili, nelle case di quelli che vengono chiamati capistazione, bianchi abolizionisti che rischiano del loro pur di aiutare gli schiavi in fuga. Ma una volta scesi nelle profondità del sottosuolo, passiamo dalla realtà feroce al regno della favola: sappiamo che la ferrovia arriva da qualche parte e va da qualche altra parte, I capistazione ignorano il tragitto e informano i due fuggiaschi che spesso le linee vengono interrotte, altre ne vengono aperte. I treni passano in giorni e tempi casuali e non c’è modo di sapere dove porteranno.
La ferrovia sotterranea: un’idea davvero necessaria?
E’ l’idea portante della narrazione e non è del tutto necessaria, perché il romanzo avrebbe retto benissimo anche senza questa trovata che ha il sapore di un artificio letterario. Colson Whitehead ha dichiarato di essersi ispirato a Cent’anni di solitudine di Marquez, volendo forse iscrivere questo romanzo nel grande filone del realismo magico, ma tutta la narrazione è profondamente inserita nella storia vera – e Whitehead si è ben documentato andando a leggere le lettere dei fuggiaschi raccolte negli archivi – e non si capisce perché il flusso debba essere intervallato da questi trasferimenti su un treno inesistente nella realtà storica, mentre poteva essere altrettanto, se non più efficace, raccontare dei pericoli, delle imboscate, delle bassezze, dei crimini che sono avvenuti alla luce del sole. Ma torniamo al realismo magico e al famoso incipit di Cent’anni di solitudine:
Molti anni dopo, di fronte al plotone di esecuzione, il colonnello Aureliano Buendìa si sarebbe ricordato di quel remoto pomeriggio in cui suo padre lo aveva condotto a conoscere il ghiaccio. Macondo era allora un villaggio di venti case di argilla e di canna selvatica costruito sulla riva di un fiume dalle acque diafane che rovinavano per un letto di pietre levigate, bianche ed enormi come uova preistoriche. Il mondo era così recente, che molte cose erano prive di nome, e per citarle bisognava indicarle col dito.
In queste poche righe ci siamo già persi, non sappiamo nemmeno bene dove siamo e già l’autore ci dice che “il mondo era così recente, che molte cose erano prive di nome” e nonostante questo ci tuffiamo nel fiume di una narrazione che vorremmo non finisse mai. Il realismo magico non è vero realismo, se non la consapevolezza che ci troviamo in un continente, l’America latina, narrata da chi ci è nato e vissuto e accenna a un passato metastorico, e questo è l’unico aggancio al reale. Il resto è un mondo scaturito dalla mente di Marquez, che ci trascina nei suoi racconti fino a perderci nella narrazione. Il realismo magico è una vertigine e a un certo punto non sappiamo più dove siamo. Non basta insomma, l’inveramento della metafora della ferrovia sotterranea per calarci in quello stato ipnotico che un autore come Marquez riesce a trasmettere, quando il resto della storia è ben saldo nella costruzione dei personaggi, dei dialoghi e siamo immersi nella ferocia dei bianchi schiavisti così come nell’idealismo degli abolizionisti e in mezzo troviamo i protagonisti, una donna e un uomo disposti a tutto per portare in salvo la pelle e scappare dalle condizioni subumane della vita da schiavi.
Immersi nella storia
Ne La ferrovia sotterranea siamo immersi nella storia di un paese e delle sue lacerazioni, in eterno conflitto fra l’aspirazione a essere la terra dei liberi e dal cattivo esercizio della libertà, che diventa egoismo, avidità, violenza, fino ad arrivare a schiavitù e genocidio. E nonostante una guerra civile seguita da cent’anni di solitudine razziale questo dilemma non è risolto, il risentimento non si è placato, le braci continuano a bruciare sotto la patina del politicamente corretto e delle leggi che nel tempo hanno voluto sanare le disuguaglianze e le discriminazioni. E’ un rancore che ha riverberato in tutto il mondo. Non è vero che senza l’esempio americano non avremmo avuto razzismo in Italia e in Europa (anche perché le navi negriere erano europee), ma ne abbiamo purtroppo ereditato le parole, i modi e la cultura.
C’è una pervasività in tutto questo che ha anche dato origine alla cultura nera, quella riconosciuta a livello mondiale, scaturita da una minoranza perseguitata e in esilio, a dispetto di una maggioranza che vive in un continente enorme come l’Africa subsahhariana, con mille sfumature e differenze, in gran parte appiattite sul colore della pelle e segnata dai confini del colonialismo europeo.
La cultura nera americana nasce soprattutto come volontà di autoaffermazione e non poteva essere altrimenti, perché cresciuta con la necessità di nascondersi e di sopravvivere. Non possiamo sapere come avrebbe potuto essere senza lo schiavismo e il razzismo, così come non possiamo sapere cosa ci riserverà l’Africa nei secoli a venire.
Un elenco di atrocità
La narrazione è un elenco di atrocità perpetrate negli anni dello schiavismo negli Stati del Sud a danno dei neri: troviamo le condizioni infami delle piantagioni, dove la vita di un nero valeva solo per la sua forza e obbedienza e dove ogni capriccio di un padrone o di un sorvegliante bianco poteva trasformarsi in torture e morti orrende. Troviamo l’esposizione dei neri come fenomeni da baraccone da esibire nei musei di storia naturale, assieme agli animali impagliati, trasformati in tableaux vivant dietro alle bacheche, a beneficio dei visitatori bianchi e di scolaresche. Troviamo i neri oggetto di esperimenti medici volti alla sterilizzazione e contenimento del numero, alla selezione della razza con l’eliminazione dei folli, degli storpi e dei malati. Troviamo i neri ospiti indesiderati nel North Carolina, dove una legge dello Stato impone la loro cacciata dalle piantagioni per eliminarne la presenza, perché era quello a fare paura ai bianchi che si vedevano sorpassare nel numero e che vivevano sotto la minaccia di continue rivolte. E questo si trasforma in una soluzione finale da incubo, dove ogni nero visto vagare per strada poteva finire impiccato, dove in ogni contea lo spettacolo del venerdì era l’impiccagione di un nero, fra messinscene circensi di dubbio gusto, musiche, canti e giochi in fiere di paese e dove le esecuzioni erano il fulcro del programma.
Questo è il valore del romanzo di Whitehead, che ricorda una volta di più il passato e il rancore che non può non montare alla testa, non può non essere parte dell’eredità che gli Stati Uniti ancora oggi si trovano a gestire. In mezzo a tutto questo si trova a passare Cora, la protagonista, con le sue angosce e i suoi terrori, nella perenne ricerca di una salvezza e libertà verso gli Stati del Nord.
Una frattura mai sanata
E’ una frattura nella nuova nazione che non verrà sanata da una guerra civile e che si riproporrà negli anni successivi della Ricostruzione, che è meglio definire restaurazione, dove lo schiavismo lascia il posto alle persecuzioni del Ku Klux Klan, alla segregazione sociale e di classe, una restaurazione che vedrà acuire la propria crudeltà negli anni successivi alle due Guerre Mondiali, al Vietnam e oggi abbiamo l’Iraq e l’Afghanistan, guerre a cui non viene dato il dovuto peso come ha avuto il Vietnam. Dopo ogni guerra che i neri hanno combattuto per il loro paese e sono tornati a casa pieni di speranza verso una società migliore, hanno trovato in forme diverse solo repressione e violenza, fino ad arrivare ai giorni nostri e alla repressione delle forze di polizia, la crescita del suprematismo bianco e le stragi indiscriminate nelle scuole, soprattutto frequentate da neri e minoranze..
Sono tanti i modi in cui tenere a bada, non ultime le violenze della polizia che hanno generato i movimenti Black Lives Matter, o ancora prima il movimento per i diritti civili e la nascita delle Black Panthers. Ogni epoca, ogni generazione, scandita dalle guerre combattute dagli Stati Uniti ha dato i suoi frutti velenosi. Pare che, ancora oggi, gli unici campi in cui ai neri sia consentito sfondare il famoso soffitto di cristallo siano lo sport, la musica, le arti e l’esercito. Ed è bene non farsi abbagliare da Obama, da Condoleeza Rice, dal generale Powell, sono esempi che non rispecchiano un avanzamento nella società della popolazione nera.
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