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Chuck Palahniuk - Invisible Monsters

 

Chuck Palahniuk è sicuramente uno degli autori più originali e innovativi sulla scena americana. I suoi soggetti sono sempre borderline, come se nella ricerca degli estremi lui riuscisse a farci vedere anche i limiti della nostra coscienza, dei nostri comportamenti, del nostro essere.
La verità è che nessuno di noi conosce il proprio limite, se non dopo averlo incontrato e quindi Palahniuk si diverte a presentarci protagonisti che vivono vite o situazioni al limite. Palahniuk applica il celebre assunto per la narrazione semplificato da Dick, e cioè “cosa succederebbe se” – ad esempio – noi ci facessimo impiantare nel cervello i ricordi di vacanze meravigliose, invece che andarci veramente, in vacanza? Cosa succederebbe se la Seconda Guerra Mondiale fosse stata vinta dai giapponesi e dai nazisti?
Così Palahniuk parte da premesse già estreme, ma reali, completamente immerse nel mondo di oggi, per mostrarci reazioni e comportamenti straniati.
Così la premessa: “cosa succederebbe se” una modella all’inizio della carriera venisse colpita da una fucilata in faccia e perdesse l’articolazione della lingua e perciò sarebbe come muta perché i suoni che emette sono privi di senso e il suo volto non fosse più ricostruibile?

Un cut up narrativo

Shannon è il mostro invisibile del titolo ed è la testimone di tutto quello che ruota attorno a lei, un mondo borderline di amiche modelle fallite, un ex fidanzato poliziotto e soprattutto di trans che la proteggono dal mondo di fuori, mentre il loro mestiere è travestirsi da ricche ereditiere e visitare fastose ville canadesi, facendo finta di essere compratrici, in realtà per saccheggiare i cassetti dei bagni colmi di medicinali da rivendere negli Stati Uniti.
Queste potrebbero essere le premesse di un plot avvincente, ma il nastro gira all’indietro e il romanzo segue la moda dei più innovativi film degli ultimi decenni, a partire da Pulp Fiction o a 21 grammi.
Sono tutte storie non-lineari, storie in cui la scommessa è capire non chi sarà l’assassino, ma come si è arrivati a quel delitto e per fare questo bisogna smontare il tempo, miscelare le scene e raccoglierle in un ordine apparentemente casuale.
L’idea è sempre quella del vecchio cut-up di Burroughs, che ha costruito molti suoi romanzi ritagliando parole e frasi da vari giornali e raccogliendoli in ordine casuale per metterli sulla pagina. Ma per Burroughs il risultato è spesso incomprensibile e l’effetto che voleva generare era quello di generare confusione, distruggere l’esistente e tornare al caos come forza creatrice, oppure suggerire l’ingresso in nuovi universi, come il primo che applicò l’idea del taglio alla tela, Lucio Fontana.

Dammi forza, dammi coraggio

Dopo il passaggio di Dick la distopia ha cancellato l’illusione prometeica della scoperta di nuovi mondi. Quelli che sono stati scoperti hanno superato le fantasie ingenue dei creatori di fantascienza e hanno annichilito il genere. Il risultato è che la narrativa è ripiegata su se stessa e rischia di raccontare il nulla.
Siamo in un’epoca simile agli ultimi bagliori dell’Austria Felix e stiamo aspettando colui che ci lascerà il nuovo Uomo senza qualità. Il fatto che ci si ponga il problema di ciò che si vuol dire significa che siamo arrivati a una fase di stallo.
L’avanguardia di oggi è la narrazione del reale decostruito in mille pezzi, a sua volta descritto attraverso il filtro di un unico punto di vista (nel nostro caso quello della protagonista che è io narrante) oppure di più punti di vista.
Alla fine della lettura l’intera vicenda viene ricostruita e i personaggi acquistano il peso e la rotondità, dopo che li abbiamo visti in tutte le loro contraddizioni, incoerenze, antipatie.
Palahniuk usa dei markers nella sua narrazione: Shannon parla ad un immaginario fotografo a cui fa dire i suoi stati d’animo, come se li pretendesse da lei e Shannon dovesse mostrarli come in un teatro di posa.
Dammi coraggio, flash. Dammi forza, flash. Dammi sopportazione, flash.
Ogni vicenda è sottolineata da questo marcatore che sottende allo stato d’animo vissuto da Shannon, che già ha vissuto e ha bisogno di tutto questo: forza, coraggio, sopportazione e tanto, tanto altro ancora, per poter continuare a vivere, o meglio a dare un senso alla sua vita dopo l’incidente.

Vite nel frullatore

Shannon si rende conto di non aver futuro e Brandy Alexander, il travestito bellissimo e sontuoso che la cura e la protegge, si assume il compito di costruirlo. Le dice che il passato non esiste più, si inventa identità favolose che fa calzare a Shannon senza preavviso, spiazzandola di continuo con la sua fantasia.
Brandy Alexander è la vita, la regina, l’energia, la forza. Brandy Alexander crea ondate di devozione attorno a sé, ai suoi capelli, al suo corpo ricostruito alla perfezione. Nel corso della narrazione veniamo a sapere che Brandy in realtà non è un travestito qualunque, ma il suo fratello minore Shane che i genitori avevano dato per morto, e che Shannon odiava da morto per aver catalizzato tutto l’affetto dei genitori e trascurando lei.
Il Seth, uomo che accompagna Shannon e Brandy Alexander nelle loro scorribande è in realtà Manus, il precedente fidanzato di Shannon e la stessa persona che le ha sparato in faccia.
Shannon lo ha rapito ma non lo uccide perché lo ama ancora.
Manus doveva finire il lavoro per ordine di Evie Cottrell, la migliore amica di Shannon – anche lei modella ma di minor successo – con la quale lo stesso Manus aveva una relazione.
Tutto questo lo veniamo a scoprire nella seconda metà del romanzo e non c’è la minima sorpresa in tutto questo, perché a un certo punto la storia comincia a girare a vuoto, come un motore che batte in testa e fa avanzare l’auto a sussulti.

La schiavitù della narrazione circolare

E’ la schiavitù della narrazione circolare a discapito della narrazione progressiva. La narrazione progressiva è quella dei grandi di una volta: Guerra e pace, Il vecchio e il mare, Don Chisciotte, Il conte di Montecristo e persino i grandi del Novecento: l’Ulisse è il resoconto del viaggio per le strade di Dublino di Bloom, L’uomo senza qualità si snoda attraverso un arco temporale per coprire le celebrazioni del compleanno dell’imperatore.
Sono tutte linee narrative che si sviluppano in un’unica direzione, una freccia, un vettore che come il tempo procede con un ordine cronologico.
La narrativa inaugurata negli ultimi anni preferisce una struttura circolare, in cui i personaggi sono presentati e costruiti con flash back e incastri, come se la nostra attenzione debba esser tenuta desta da continui cambiamenti, come se non fossimo in grado di reggere lo sviluppo lineare di una storia, che implica un rapporto di causalità fra eventi, personaggi, ambienti, situazioni.
Il montaggio circolare spezza questo rapporto immediato e lo ricostruisce a partire dalla fine della storia. Il suo limite è quello di costruire storie che si sviluppano su se stesse, che ritornano al punto di partenza, perché la partenza è una situazione data e lo svolgimento rappresenta i passaggi avvenuti per arrivare a quella situazione.
Non c’è progressione nel racconto, ma sottesa c’è la volontà di spiegare. Sotto la superficie non c’è la volontà di mostrare le cose, ma di cercare di spiegarle. Cioè un intento didattico, ma anche una spinta morale verso l’ineluttabilità, come se le cose non potevano andare in altra maniera, perché devono essere così.

L’America del Nord Ovest

In una trama come quella di Palahniuk, dove personaggi e situazioni scivolano in un frullatore sembra strano dover fare una simile critica. In realtà i cambiamenti sono apparenti.
Palahniuk fa avanti e indietro con la macchina da presa, ma per tutto il libro abbiamo le descrizioni della stessa situazione iniziale, via via spiegata attraverso le ripetizioni quasi ossessive delle stesse scene.
Brandy, Shannon e Manus (o Seth o uno qualsiasi degli infiniti nomi) sono tre personaggi che vogliono trasformarsi: Brandy vuol diventare uomo; Manus vorrebbe diventare donna; Shannon vorrebbe tornare ad essere quella che era.
Ognuno è insoddisfatto del suo stato, tutti tendono verso qualcos’altro. Vivere la vita al limite, sul filo del rasoio, come se non ci fosse un domani. Per loro non è solo un modo di dire, perché le loro esistenze si fondano sull’improvvisazione continua, quasi una sospensione dal tempo e dai doveri, come essere sempre in gita scolastica.
Se in tutto questo vogliamo vederci una metafora del presente, è sicuro che la lettura porti a questo.
Ci muoviamo nei territori della distopia, come Eggers nel Cerchio o nel vecchio Microservi di Douglas Coupland, o anche prima ancora, Tom Robbins con le sue favole tardo hippie.
C’è un dato che salta agli occhi: sono tutti del nordovest degli Stati Uniti, da San Francisco fino ai confini del Canada. Come se in quei posti la vita e gli esperimenti di vita possano essere tentati senza paura di conseguenze.
Ci si lancia in imprese, nel vuoto. A volte qualcuno si sfracella, come Dan Osman, the Phantom Lord, lo scalatore che si lanciava nel vuoto da diversi burroni, appeso a un sistema di corde e rinvii di sua invenzione. Non a caso Osman arriva dal nord della California.
Non a caso il movimento dell’arrampicata è nato a Yosemite da una comunità di hippies.
La sperimentazione è senza limiti, in cui neanche la biologia viene vissuta come un limite invalicabile, ma anzi in Invisible Monsters viene sfidata continuamente. Chuck Palahniuk da Portland, Oregon, è un figlio della sua terra.

Un’altra rimescolata di carte

Alla fine il racconto deraglia decisamente. E’ il classico caso di un libro scaturito da una situazione: cosa succederebbe se una giovane modella restasse muta e sfigurata dopo che le hanno sparato in faccia?
I personaggi – forse volutamente – non hanno scavo, ma sono ripresi in diverse situazioni, quadri, tranche de vie, sequenze. L’identità dei personaggi muta in continuazione: Brandy Alexander improvvisamente diventa il fratello di Shannon. Lei lo capisce ma non glielo dice perché lo odia. Alla fine scopriamo che anche lui sapeva che la donna senza volto è sua sorella. Nel frattempo Manus, che diventa Seth, seduce anche Brandy Alexander, ma evidentemente non sa che i fratelli all’insaputa l’uno dell’altro lo riempiono di nascosto di ormoni femminili.
Manus non ha profondità: vuole solo attirare gli altri, uomini o donne poco importa, basta che lui riesca a sedurli e a fare sesso con loro.
Fino alla scena finale, il matrimonio dell’amica, dove Shannon da fuoco alla villa della festa, mentre Manus si fa inculare dal prossimo marito di Evie, appena sedotto. Ma veniamo anche a sapere che Evie era Evan, un uomo che a sedici anni ha deciso di operarsi per diventare bella e fare la modella.
Ma che senso ha?
E’ come se Palahniuk non riuscisse a scrivere un finale adeguato, perché qualunque finale sarebbe insoddisfacente, e allora da un’altra rimescolata alle carte.

Un libro inutile

Questo modo di prendere a schiaffi il pubblico arriva da Lost, dalle serie tv americane e dalla serialità, dal linguaggio adottato dalla televisione.
In tv i cambi di prospettiva, i cattivi che diventano buoni e viceversa, i morti che resuscitano, gli scomparsi per sempre che ritornano, i miracolati, gli zombie, i fantasmi, sono tutti accettati soltanto perché diluiti dai tempi lunghi dettati dalla serialità.
Il pubblico del serial è agganciato; a quel punto ha la bocca aperta e può mangiare qualunque merda gli proponiate. I personaggi tengono compagnia, diventano esempi, ci fanno sentire migliori, sono i nostri angeli custodi.
Ma torniamo a Palahniuk: rimescolare le carte non è un finale, così come non convincono le motivazioni di Shannon, che dice di essersi sparata in faccia da sola. Ma come fa una a spararsi in faccia da sola? Senza accecarsi o uccidersi? Come si fa a commettere un’azione senza averne il controllo? E’ la cosa più idiota che abbia mai sentito. E poi il motivo: era stufa di esser bella, il mondo doveva lasciarla in pace e non cercare di afferrarla con avance, molestie, fotografie. Come se non avesse scelto lei il mondo dove sfondare e non ne avesse avuto bisogno.
Per tutto il libro si capisce, fa capire, che vorrebbe tornare quella che era. E all’improvviso alla fine dice che è stata lei a sfigurarsi, perché era stufa di essere bella. Il patto di sospensione d’incredulità è rotto, e proprio nel finale, e questa è la peggiore delusione che si può dare a un lettore. E’ un non finale di un libro che avrei fatto volentieri a meno di leggere per la sua inutilità.