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Carlo Ginzburg - I benandanti

Quello che fa scoprire Ginzburg ne I benandanti è la partecipazione attiva al rito, in assenza o quasi di divinità. La religione cristiana, attraverso la messa, impone una presenza passiva alla funzione, in cui il credente è un semplice ascoltatore, chiamato a dire si ai precetti enunciati da prediche, preghiere e letture. Per quanto lo si voglia edulcorare con canti e balli, come fanno i pentecostali, il modello è comunque quello.
I benandanti invece sono soggetti attivi di un culto presente in Friuli fra il XVI e il XVII secolo: loro sono chiamati a combattere il male, in battaglie fra loro e gli stregoni, dove i primi stavano dalla parte di Dio e gli altri da quella dei demoni. Inscenavano un combattimento fra le forze del bene contro quelle del male; le armi dei benandanti erano rami di finocchio, quelle di streghe e stregoni bacchi di sorgo. La loro è una partecipazione attiva, con uno scopo ben preciso; la buona annata contrapposta alla carestia per cui giocano gli avversari.
A differenza del cristianesimo, quello dei benandanti non è un culto universale, perché ai combattimenti possono prendere parte solo i benandanti e tali sono coloro che sono nati “con la camicia”; ovvero coperti con una parte della sacca placentale. La credenza che questo fosse un segno di elezione è tale che questa sacca, in forma di collana o sciarpa essiccata viene conservata per tutta la vita dagli eletti in questa schiera, che ha le sue truppe, stendardi e capitani, affrontando i demoni a ranghi serrati.

I benandanti parte di un culto europeo

Ginzburg intende questi riti associati oppure originati da quelli antichi della fertilità, in cui è presente nel mondo greco Diana, dea della caccia e delle messi, ma anche diretta discendente secondo Calasso (L’arciere celeste) dell’antica dea madre di origine medio orientale e africana.
Secondo quanto afferma Terence McKenna, il filosofo americano scomparso prematuramente nel 2000 a soli 53 anni:

Lo sciamanesimo non è una curiosa preoccupazione degli antropologi culturali: lo sciamanesimo è il modo in cui la religione è stata praticata nei suoi primi milioni di anni. Fino a circa 12.000 anni fa, non esisteva altra forma di religione su questo pianeta; era così che le persone raggiungevano un qualche tipo di accesso al sacro.

Nella postfazione alla nuova edizione di Adelphi Ginzburg riprende il tema, ribadendo la connessione che aveva intuito negli anni di studio trascorsi negli archivi dell’Inquisizione di Venezia e Udine, ma non si spinge a dire tanto: volutamente confina il culto dei benandanti al Friuli e trova affinità (ma non perfette corrispondenze) negli usi coevi magico-rituali del centro Europa, a partire dall’Alsazia (Strasburgo) per passare all’Assia, alla Baviera e all’Austria con testimonianze riscontrate perfino in Lituania e più tardi in Dalmazia. Il lasso di tempo considerato sono i quarant’anni compresi fra il 1580 e il 1620, periodo in cui questo movimento ha conosciuto il suo sviluppo e diffusione, prima di venire progressivamente identificato con la stregoneria tout court, per terminare con la repressione del Santo Uffizio.

Una strana tolleranza

Gli inquisitori avranno in quell’arco di tempo la loro difficoltà a considerare eretico un culto che si proponeva di perseguire il bene e liberare gli uomini dal male, come quello di togliere incantesimi, malocchi e malefici. I benandanti con i loro racconti estorti nel corso degli anni non offrivano appigli alle accuse dell’Inquisizione, che si muoveva attraverso maglie ben definite. I francescani inquisitori circoscrivevano la loro curiosità ad alcuni elementi considerati empi, come il sabba, con il contorno di banchetti notturni, balli ed orge, l’abiura di Dio e dei santi e altri elementi che servivano a definire l’appartenenza alla stregoneria e a quel punto, ottenuta una piena confessione, obbligavano i sospettati alla purificazione prima della condanna.
Niente di tutto questo avviene nel periodo considerato, in cui il Sant’Uffizio lascia cadere le accuse o rinuncia a indagini e interrogatori, e al massimo condanna i benandanti a multe o pene lievi. In ogni caso è importante il luogo in cui il culto dei benandanti si è sviluppato, al riparo della giurisdizione di Venezia, Stato allora abbastanza forte da saper ben controllare gli sconfinamenti di sovranità dell’ Inquisizione.
Ginzburg ipotizza che questa inerzia (se così si può dire se paragonata all’attività sviluppata contro stregonerie ed eresie) sia dovuta al fatto che in quell’epoca l’Inquisizione aveva altri e più urgenti compiti: in primis la lotta al protestantesimo e luteranesimo e in secundis il fatto che gran parte degli inquisitori fossero frati minori francescani, cui l’autore attribuisce una maggiore morbidezza perché agli inizi del Cinquecento un frate minore avviò una lunga polemica proprio sull’inutilità dell’Inquisizione come strumento di giudizio, controllo e coercizione.

Da buoni a opportunisti

Quello che Ginzburg ipotizza sul movimento dei benandanti è che questo culto sia qualcosa di completamente altro rispetto alla cultura ufficiale, da cui non attinge niente, se non in una fase tarda, quando i benandanti senza troppi complimenti verranno considerati stregoni, in questo rientrando negli schemi della cultura dominante, che non è stata in grado di riconoscere l’alterità del loro culto.
Dopo le prime, incerte versioni, secondo cui i raduni potevano avvenire di persona oppure in spirito, è la seconda quella che si afferma e così avremo molte confessioni dove viene descritta la fase di catalessi o trance, procurata attraverso l’uso di unguenti (elemento questo legato alla stregoneria) o anche senza. Alcuni dicono di addormentarsi, altri di essere stesi come morti, raccomandando a chi gli sta attorno di non toccarli quando si trovano in quello stato, perché il loro spirito potrebbe non riuscire a rientrare nel corpo. E’ questo il più grande terrore dei benandanti, quello di essere condannati a vagare in forma di spirito fino a quando non sopraggiunga la morte naturale.
Sarebbero queste anime, secondo molte confessioni, gli spiriti ostili che chiamano streghe o stregoni, ovvero le anime senza pace che vagano nella vana ricerca dei loro vecchi corpi. Nel culto dei benandanti ci sono elementi di sciamanesimo, dice Ginzburg in un un’epoca in cui il termine ancora non era di moda e usato impropriamente come oggi, perché sempre in spirito le anime spesso cavalcano animali, come lepri o volpi per arrivare ai luoghi di convegno. Quello che ottengono dai combattimenti non sono soltanto vaticini su raccolti e vendemmie, ma anche informazioni minori, personali, che i benandanti andranno a spendersi con chi li ha interpellati a proposito di fatture, malocchi o malanni. Insomma, da crociati del bene, nella fase matura spesso i benandanti dalle loro missioni fanno derivare tornaconti personali ed è qui che inizia il declino, la progressiva confusione di ruoli fra benandante e stregone che porterà alla loro repressione.

L’assimilazione alla stregoneria

In realtà l’incomprensione originaria degli inquisitori, portatori dell’ideologia dominante, scava in profondità e si sostituisce al culto originario, al punto che negli ultimi processi saranno gli stessi benandanti a definirsi stregoni, confondendo i due termini in diverse occasioni, quasi usandoli come sinonimo l’uno dell’altro.
Questo non toglie l’assoluta originalità di questo culto, che si fa tramite delle antiche religioni pagane, dove non esistono divinità, se non una soltanto, femminile, in grado di condizionare i raccolti; ma non è un dio onnipotente come a un certo punto hanno imposto le religioni monoteiste. Il culto di Diana, declinata in varie lingue nei diversi luoghi, è un culto dove un supremo creatore e regolatore dotato di volontà assoluta (come nelle religioni monoteiste) è assente e in questo contesto non può esserci abiura, perché la sua presenza (a sola giustificazione della missione dei benandanti) è soltanto una copertura per i loro combattimenti. E’ curiosa anche l’esistenza di una gerarchia precisa fra gli spiriti, con un capitano e simboli dipinti su gonfaloni le cui descrizioni collimano nelle varie confessioni.
Siamo di fronte a un caso di allucinazione collettiva, che è un termine improprio, perché tutti gli eventi, le battaglie fra spiriti, sono ambientati in luoghi reali ben precisi (di solito vicini ai luoghi in cui vivono i benandanti), oppure in una misteriosa “valle di Giosafat”. Quest’ultimo, è un elemento che ricorre anche in culti coevi della Baviera, dove l’elemento stregonesco prevale,

Il mistero della valle di Giosafat

Ma il punto è un altro, che lo stesso Ginzburg confessa di aver trascurato durante gli studi: perché proprio questo luogo indefinito è il luogo in cui si svolgono i combattimenti fra streghe e benandanti? La valle di Giosafat volta a volta identificata fisicamente come la valle che separa l’attuale Spianata delle Moschee a Gerusalemme dal Monte degli Ulivi, oppure come il luogo dove si terrà il Giudizio Universale. Secondo Wikipedia:

Essa viene menzionata in Gioele 3,2 ed in 3,12.
«io adunerò tutte le nazioni, e le farò scendere nella valle di Giosafat. Là le chiamerò in giudizio a proposito della mia eredità, il popolo d’Israele, che esse hanno disperso tra le nazioni, e del mio paese, che hanno spartito fra di loro.»
«Le nazioni si muovano e vengano alla valle di Giosafat! perché là io mi metterò seduto per giudicare tutte le nazioni circostanti..»

Quale che sia l’interpretazione che ne davano i benandanti, che non si potrà più accertare, viene da chiedersi come sia possibile che un riferimento biblico così specifico potesse essere noto a una rete di contadini ignoranti, il cui recepimento del cristianesimo, ancora nel 1500, era confuso con elementi pagani preesistenti e di pari peso nel bagaglio delle credenze. E’ un mistero che dovremo tenerci, conclude Ginzburg.

Portare a casa il pane

Per i benandanti essere nati con la camicia è un dono, perché da la possibilità di accedere all’altro mondo, quello dei defunti e degli spiriti, ma è una facoltà stranamente a termine, come un servizio da cui ci si deve ritirare a una certa età.
All’inizio il benandante viene chiamato o invitato da un altro benandante e non ha molti margini, pare di capire, per poter scegliere; però è un dato certo nei loro racconti che a quarant’anni debbano smettere di andare nel mondo degli spiriti; non cadranno più in trance, non entreranno più in quel mondo, come se la vigoria per combattere fosse richiesta anche in virtù della forza fisica e riproduttiva.
Si noti che lo scopo dei benandanti, combattere per il buon raccolto, non è uno scongiuro, un auspicio o una preghiera; questo è quanto possono fare coloro che adorano altri dei, che affidano le loro sorti a un dio onnipotente, in ciò confessando la propria inutilità. Il credente monoteista a ben diritto potrebbe tacciare il benandante di vanità perché pretende di mettersi contro i fati o qualsiasi divina volontà imperscrutabile. Che è quello che fa il benandante, perché lui davvero crede che l’esito dei raccolti dipenderà dalle sorti del combattimento che impegna. In questo sta la vera originalità di questo culto, che porterebbe nelle mani dell’uomo quello che non è mai stato: il dominio completo della natura e degli eventi futuri. E’ un culto che testimonia la precarietà dell’esistenza in quei tempi e in quei luoghi, dove l’ignoranza e la miseria portano a cercare il male nelle stregonerie, derivazioni di un più potente Male assoluto.
Quando gli orizzonti si restringono, si cerca la risposta al male di vivere nelle cose più vicine: il mondo è quell’insieme di terre e piccoli paesi che si trovano fra Udine, Cividale, Palmanova ed è lì che si annidano i malefici di cui i benandanti diventano gli estirpatori.
Sono stati un unicum, pur con tutte le parentele e affinità contemporanee, assieme alle antiche ascendenze. Nell’etnografia italiana ed europea non si trova nulla di così simile e radicato, anche se di breve durata (ma possiamo solo affidarci alle fonti scritte dei tribunali ecclesiastici) e niente vieta di pensare a un culto molto più longevo, la cui reale durata ci è sconosciuta. Resta comunque bello sapere che ci è stata data – o ci siamo dati – questa possibilità.