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Carlo Emilio Gadda - Quer pasticciaccio brutto de via Merulana

Quello che subito colpisce nel Pasticciaccio è il linguaggio, ovvero la scelta di Gadda di utilizzare il dialetto romano unito ad altre parlate del centro e sud Italia (in parte molisano o matese e in parte napoletano) come insuperabile mezzo espressivo per dire e aggiungere significato a quanto il solo italiano sembra non riesca a fare, perlomeno con quella ricchezza e immediatezza offerta dal vernacolo.
E’ il destino di tutti i grandi che hanno segnato la letteratura italiana,quello di inventare o reinventarsi la lingua, a partire da Dante che ha usato la lingua di Firenze nella sua Commedia e ne ha difeso l’uso nel De vulgari eloquentia. Da quel momento il dialetto fiorentino e centro italico è diventato la nostra lingua e ogni autore ha dovuto misurarsi e imparare, come è successo a Manzoni.
Dante si comporta da scienziato, al pari di Gadda che era ingegnere, e nella sua analisi dell’animo umano separa e analizza mentre racconta, cioè usa l’italiano come sintesi di chiarezza, di nitore, di luce che illumina determinati tratti e storie dei vari personaggi della Commedia, laddove Gadda, con il suo uso del vernacolo e il dilatarsi oltre ogni misura e soglia di attenzione di ogni particolare porta al rovesciamento della sintesi dantesca: mentre per Dante il bisogno era quello di ordinare e quindi giudicare, in modo da assegnare ad ognuno il suo posto sulla base di criteri stabiliti a priori, in Gadda si produce il rovesciamento, ovvero l’impossibilità di dare un ordine, di fornire un senso.

Non c’è finale perché non esiste una fine

Non c’è più Dio da parecchio tempo, in Gadda e nei personaggi del Pasticciaccio, soltanto la presenza del prete, tirato in ballo peraltro per una questione di soldi e di eredità, e quindi manca quella tensione presente in Dante come in qualsiasi autore che deve risolvere il romanzo con un finale, deve cioè predisporre gli atti e la sequenza drammatica per arrivare a una spiegazione.
Per Gadda invece questa fine non è data, è lasciata volutamente sospesa, perché, come dice dal titolo e dalle prime righe, tutto è un imbroglio, una matassa aggrovigliata, uno gnommero, come si dice a Roma, o come la condizione di chi viene travolto da una slavina di neve in cui, circondata dal bianco, la vittima non sa più dove sia il sopra e dove il sotto, quali riferimenti spaziali e temporali usare.
C’è solo un modo per saperlo, suggeriscono i soccorritori, che è quello di pisciarsi addosso per capire quale direzione prenderà il liquido, in modo da adattare il corpo per poter uscire fuori. Ecco, trasportando la metafora al Pasticciaccio, l’umanità dovrebbe fare lo stesso per cercare di capire qualcosa, deve imbrattarsi un po’ per capire quale sia la direzione, ma non lo fa.
Questione di cultura, dei tempi (siamo nel 1927, in piena era fascista e all’apice del consenso) e anche se il commissario alter ego di Gadda, Ciccio Ingravallo intuisce chi può essere l’assassino di Liliana Balducci, non procederà all’arresto, ma fingerà di tentennare incolpando altri e interrogando a fondo sia il cugino della vittima che un vicino di casa, per poi dirigersi sicuro verso la casa di una delle serve, in periferia o già nella campagna romana, anche se le ultime parole della domestica di casa Balducci: “No, sor dottò, no, no, nun so’ stata io!” sono la conferma che conosce il colpevole, ma non può dirlo.

Una pietanza sconosciuta

Qual è la verità che non si può confessare? E poi: don Ciccio Ingravallo non vuole che si arrivi alla verità, ci gira intorno, per non infangare la memoria della morta? Possiamo arguire che don Ciccio, che conosceva la signora Liliana perché amico di famiglia (era stato invitato a pranzo pochi giorni prima del delitto), fosse innamorato di lei? Possibile. Ma anche se il o la colpevole venisse fuori, non si verrebbe a conoscere a fondo il mistero di Liliana, che è il mistero di tutti noi. Ma catturare il colpevole significherebbe dover raccontare la storia di Liliana, dovrebbe venire a galla la verità che sta sotto a tutta quella serie di finte adozioni di bambine e ragazzine tirate su per strada e tenute a casa per qualche anno e poi – in qualche modo – scaricate per passare a un’altra subito dopo, nell’ansia inappagata e ufficiale di avere una creatura da crescere, non potendo lei averne.
In una precedente versione apparsa incompleta a puntate sulla rivista fiorentina Letteratura nel 1946-47 nel capitolo 4, poi completamente espunto, Gadda mette in luce le pulsioni lesbiche – vere o sublimate – di Liliana nei confronti di una delle figlie adottive, cui l’autore accenna pure nella versione definitiva data alle stampe con Garzanti nel 1957.
Quindi l’autrice del delitto potrebbe ravvisarsi in Virginia, una delle “figlie” adottive, ma come questo sospetto venga annacquato nell’ultima versione, così anche i moventi del delitto non vengono neppure affrontati: delitto passionale? Intreccio di passione, rabbia e delusione per essere stata allontanata? Volontà punitiva per essere stata estromessa da una possibile eredità? Semplice furto di gioielli con delitto? Sono tutte domande che emergono a posteriori e ritornano in bocca come un retrogusto amaro di una pietanza non pienamente compresa al primo assaggio.

Una città affamata

Dopo quegli accenni e la confessione del cugino Giuliano Valdarena, anche lui possibile o sublimato amante, da cui Liliana Balducci si fa promettere in adozione la figlia (perché femmina dev’essere) che sarebbe uscita dal suo prossimo matrimonio; promessa che viene estorta in cambio di regali: alcuni fra i più preziosi gioielli di famiglia; ne esce la personalità complessa e sfuggente, contradditoria di una donna insoddisfatta della vita, prigioniera della noia e del benessere, alimentata dalla solitudine in un matrimonio dove il marito è spesso assente per lavoro o per – si intuisce – la caccia ad amanti occasionali.
Tutto questo sa Ingravallo, ma è lui che non vuole arrivare alla verità e così il romanzo piega in un’altra direzione, si disperde in mille rivoli che conducono nelle viscere di Roma, in altre sottotrame dove vengono ritrovati i gioielli frutto di un furto avvenuto nei giorni precedenti nello stabile di via Merulana 219, la cui vittima, la contessa Menegazzi, è vicina di pianerottolo dei Balducci. Gadda ci distrae quindi e ci porta alla scoperta di una città povera e affamata di tutto: di pane come di vita.
Il Pasticciaccio sembra un esperimento che Gadda ha fatto per mettersi alla prova e scrivere un soggetto in una lingua, il dialetto romano, che non era la sua. La genesi di quest’opera è coeva o appena successiva a Roma città aperta, di Rossellini, il primo film neorealista e le atmosfere presenti nel libro, le descrizioni, i dialoghi in romanesco rimandano a quell’epoca e allo sviluppo di quella che verrà chiamata la commedia all’italiana, ovvero quel miscuglio di ferocia, ridicolo e compassione, unito a certe capacità mimiche se non clownesche derivate dalla vecchia commedia dell’arte che hanno formato un unicum nella storia dello spettacolo, grazie anche alla bravura di una generazione di attori irripetibile.

Come Don Chisciotte

Il Pasticciaccio ci porta all’interno di tutto questo e i commenti fuori campo dell’autore, presenti soprattutto nelle descrizioni di paesaggi e caratteri, hanno quel sapore agrodolce di accompagnamento elegiaco e pienamente consapevole delle debolezze dell’animo umano, unito alla comprensione cattolica del male, della sua accettazione all’interno della vita. Non è la retorica del perdono che viene tirata in ballo, ma un sentimento di comprensione – se non di amore – verso la vita, le situazioni, i personaggi minori dalle battute fulminanti che sono il sale di questo romanzo.
Lo spirito del Pasticciaccio è quello del Don Chisciotte di Cervantes, un girovagare a vuoto, in cui le indagini sul delitto sono un appiglio sempre più labile e spesso si rischia di perdersi in un fiume di parole e descrizioni e impressioni fino allo smarrimento. In questo alternarsi di sospensione e ripresa dell’attenzione, quando Gadda decide di riportarci al tema principale, si consuma l’esperienza di lettura del romanzo.
Se l’esperienza e la sapienza, la consapevolezzza di Gadda ha portato a compimento un’opera come questa è anche vero che in questo poteva riuscire solo lui. Si è parlato più di una volta di smontaggio del meccanismo del romanzo, di denuncia e rinuncia alle regole che tengono assieme la narrazione e comunque il Pasticciaccio si riesce a leggere e si arriva in fondo con la consapevolezza di aver terminato qualcosa di unico, diverso e grande, qualcosa che si stacca dal comune sentire, che non può esser messo di fianco a nulla di contemporaneo, forse giusto al Don Chisciotte, perché anche Cervantes con il suo romanzo distruggeva le illusioni del romanzo cavalleresco, dei poemi e degli eroi buttando tutto in vacca, dimostrando quanto quei temi – e in definitiva la vita stessa – siano una farsa.

La lingua deflagrata

Così il Pasticciaccio, che toglie ogni sviluppo drammatico e banalizza, rompe la tensione e fa irrompere la banalità del quotidiano, la bocca sdentata di Zamira e la putrescenza del suo antro, metà sartoria, metà osteria, metà bordello e metà centro di traffici di ogni tipo. Nel Pasticciaccio arrivano i carrettieri con i commenti sulle donne e le invidie di Ciccio Ingravallo verso gli uomini più belli e fortunati di lui con il sesso femminile: lui, tarchiato, scuro, riccioluto schiuma e si contorce quando Valdarena gli racconta dei suoi successi, intuisce quello che la sua presenza riesce a scatenare, così come quella del ladro di gioielli Enea Retalli, anche lui bravo a manipolare e irretire le femmine.
Il romanzo di Gadda ha lasciato uno strascico che per lungo tempo ha afflitto la cultura italiana, cioè l’idea che la forma romanzo fosse superata e che si potesse prescindere dalla coerenza con trame e personaggi, che si potesse spaziare con qualsivoglia digressione con l’idea di fare della cultura “alta”, contrapposta a quella “bassa”, obbligata a piegarsi alla trama o a dover obbedire alle regole di un genere.
Si comincerà a parlare di antiromanzo, considerando un nuovo modo di narrare che prescinda da unità di tempo e di luogo, inteso come incoerenza nella scansione dei momenti, dettati dal flusso dei ricordi o della coscienza, così come i luoghi sono dilatati o rimpiccioliti, immaginati o solo simbolici, ambienti poco definiti in cui si muovono i personaggi, che vagano in assenza di una storia principale. Gadda non è ancora arrivato agli inarrivabili Rayuela di Cortazar o La vita istruzioni per l’uso di Perec e nemmeno alla massima deflagrazione che porterà il cut-up di William Burroughs; la sua storia non è così deframmentata e caleidoscopica, ma lo è la lingua.
Qui è la vera deflagrazione, che anticipa le successive rotture operate su trama e personaggi. Non c’è stato prima o dopo un autore capace di deformare italiano e dialetto, giocare su elusioni e rendere il ribaltamento del significato che viene usato nel romano, quell’ironia che si deve cogliere immediatamente, o si è fuori dai giochi e dalla società e l’esistenza può essere data in pasto ai leoni mentre il pubblico assente si diverte, beve o resta indifferente. Quella ferocia, insomma, figlia di secoli di potere patrizio, imperiale e religioso, che è la vera impronta della parlata romanesca e anche il simbolo della rassegnazione, quel centesimo catenaccio (per dirla con De André) che alla sera fa sentire stracci.
Tutto questo Gadda lo fa avvertire, ci precipita in quel mondo di astuzia e ignoranza, di opportunismo e vigliaccheria che viene compreso, raccolto nel grembo e amato come le altre parti dell’umana natura: così bene non c’è più riuscito nessuno.