Bhaskar Sunkara - Il Manifesto Socialista del XXI Secolo
Rischia di impantanarsi negli stessi problemi che avevano afflitto i partiti e i sindacati della fine Ottocento – inizio Novecento l’esposizione di Bhaskar Sunkara, cui va dato il merito di riproporre la questione del socialismo in un’epoca in cui il pensiero unico neoliberale è in crisi, attaccato e criticato con successo da più parti, ma non scalfito nei suoi aspetti fondamentali, che sono le conseguenze di sempre del capitalismo: accumulazione di ricchezze da parte di una minoranza a discapito di una enorme maggioranza espropriata, con aumento della diseguaglianza e cristallizzazione delle opportunità di ascesa sociale.
C’è una soglia oltre la quale il profitto cessa di essere la remunerazione del rischio per diventare furto ai danni dei lavoratori e delle moltitudini di tutti i continenti.
La gallina dalle uova d’oro degli economisti di sinistra è trovare quel numero o percentuale che fissa il limite del profitto, così come i teologi medioevali si sforzavano di trovare modi fantasiosi e moralmente accettabili di eludere i divieti della Chiesa di usare i tassi di interesse sul denaro prestato.
E’ un Santo Graal che in un caso come nell’altro non potrà mai essere trovato.
Quello che si capisce dal discorso di Sunkara è che una soluzione non c’è e che le maglie entro cui hanno tentato di districarsi tutti gli economisti e filosofi, da Marx a Kautsky a Bernstein, a Lenin e Trotzskji includendo i padri nobili del socialismo e del bolscevismo oscillavano fra le due equazioni proprietà privata + profitto = democrazia e libertà + diseguaglianza e povertà e l’opposto proprietà collettiva + uguaglianza = dittatura + oppressione.
Tutta la storia del movimento dei lavoratori oscilla fra questi due poli ma una critica dell’attuale sistema capitalistico deve trovare una parte costruttiva.
E questa non si riesce a trovare e il titolo Il manifesto socialista del XXI Secolo è certamente ambizioso, ma soprattutto fuorviante.
Le critiche
Criticato da destra come da sinistra (Daniel Taylor in www.marxistleftreview) anzitutto bisogna dire quello che non è, cioè non è una dichiarazione di intenti come il più famoso Manifesto di Marx ed Engels, ma assomiglia piuttosto a un riassunto della storia dei movimenti socialisti dal 1848 a Sanders e Corbyn.
Quindi quello che possiamo ragionevolmente immaginare come la futura affermazione del socialismo dev’essere letta nel primo capitolo, dove Sunkara immagina un’America del futuro in cui Bruce Springsteen ha vinto le elezioni e il capitale delle aziende viene assorbito da un sistema di cooperative in cui i lavoratori sono anche soci e tutto fila liscio fino alla pensione, dove con la cospicua liquidazione si potrà mettere in piedi un’altra società che se non andrà bene poco importa perché gli ammortizzatori sociali (pensione o indennità di disoccupazione o reddito di cittadinanza) permetterà a chi fallisce di cadere in piedi.
Nessuno ha la soluzione e questa è chiaramente la descrizione di un mondo ideale che però in massima parte è esistito nella Svezia e nei paesi scandinavi; quindi il manifesto socialista non abolirà il sistema capitalista perché il profitto non è eliminabile dalla logica di crescita dell’economia.
Non che la remunerazione del capitale debba comunque portare alle storture e diseguaglianze del capitalismo e ci sarebbe perfino da chiedersi se un sistema in cui i guadagni possano essere divisi più o meno equamente possa ancora chiamarsi capitalismo e se un sistema simile possa evitare le crisi cicliche del capitalismo e garantire il progresso e il benessere sul lungo periodo.
Ma qui torniamo al problema iniziale: quanto basta per poter dire stiamo tutti bene e tuttavia non creiamo disuguaglianze con il resto del mondo e tutti, non solo in America, abbiamo pari opportunità e il sistema premi davvero i migliori? Quanto basta e qual è il punto a partire dal quale il profitto diventa accumulo, crea povertà e disparità di risorse e disuguaglianza?
La disunione del mondo del lavoro
Non è un caso che tutte le tradizioni del mondo socialista fanno riferimento invariabilmente a lotte, scioperi, proteste, in ogni caso alla resistenza a uno stato di crisi imposto e voluto per rompere l’unità precariamente raggiunta dalle classi subalterne.
Oggi c’è disunità e non c’è un partito o movimento capace di mettere insieme i salariati – colletti bianchi o blu che siano – e il sempre più vasto mondo dei precari della gig economy e i vecchi precari in cui rientrano anche molti artigiani o piccoli professionisti e imprenditori o piccoli commercianti che lavorano e incassano in nero i loro guadagni.
Sono tutte persone che rientrano nella stessa fascia di reddito, tutte ugualmente soggette a entrate discontinue e medio-basse, con una progressiva erosione dei diritti che avviene sia direttamente con l’impoverimento, il taglio, la precarietà, che indirettamente con l’aumento del costo della vita e la riduzione dell’accesso gratuito al welfare.
Finché le persone continueranno a riunirsi per temi specifici (lungo un arco di tempo di circa vent’anni in Italia abbiamo avuto mobilitazioni per: acqua pubblica, vari referendum, girotondi, sardine, mentre il mondo del lavoro si è sempre mosso in maniera frammentata per categoria, con orizzonti contrattuali sempre più stretti e spesso obbligato a mobilitarsi a difesa, come nel caso dell’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori, fra l’altro superato qualche anno dopo dal Jobs Act nel silenzio generale) e i settori viaggeranno separati e ostili le cose non potranno cambiare.
Trovare una nuova unità, ricomporre le fratture
Esistono fratture fra i garantiti e i precari, e fra i garantiti fra quelli assunti prima del Jobs Act e quelli dopo, a tutele crescenti (cioè licenziabili con più facilità e senza giusta causa), e fra i garantiti prima del Jobs Act c’è la grande frattura fra settore pubblico – ultragarantito – e settore privato, soggetto agli andamenti del mercato e alle delocalizzazioni.
Fra l’aristocrazia dei garantiti e il mondo variegato e variabile dei precari ci sta un mare: dagli stagionali agli apprendisti per una vita, ai lavoratori della gig economy, agli affittuari di airb&b, al personale delle pulizie, a tutti quelli che fanno lavori in nero come secondo lavoro, improvvisati o meno imbianchini, idraulici, etc.
E poi tutto il mondo del piccolo commercio, dei negozi di quartiere, il fruttivendolo egiziano, la sartoria cinese, lo store bangladese, il ferramenta, il carrozziere, il barista, il panettiere, il pescivendolo, il macellaio.
Sono tutti mondi, quello dei garantiti, dei precari e del piccolo commercio accomunati dagli stessi interessi e schiacciati dallo stesso peso delle tasse dirette e indirette, obbligati a pagare per compensare l’evasione enorme del grande capitale che sposta i profitti su altri stati a tassazione più favorevole e riversa le perdite sul territorio nazionale.
Poi ci sono i piccoli o medi che giocano a fare i grandi: i medici specialisti, chirurghi, dentisti, avvocati, commercialisti che nascondono il denaro in paradisi fiscali dietro l’angolo: Montecarlo, San Marino, Svizzera, Lichtenstein, Vaticano. Furbi che registrano società in Delaware perché lo Stato garantisce il totale anonimato. Che ostentano grandi consumi mascherati dietro prestanome di comodo o parenti vari, che non danno neanche un euro in beneficenza.
Se deve realizzarsi un’unità è bene stabilire dei limiti: sotto quel limite di furbi di cui sopra resta la grande maggioranza: è questa che deve trovare unità, in nome di una comunanza di interessi che deve diventare comunità di cultura, valori e idee.
Definire le linee di faglia e poi scegliere da che parte stare
I garantiti che sono risentiti e arrabbiati perché credono – abbastanza giustamente – che sulle loro spalle pesi l’intera società; i non-garantiti che odiano tutti e non credono a niente o a nessuno; i commercianti e gli artigiani, che odiano lo Stato perché vedono solo un vampiro pronto ad accanirsi con chi non paga e non ha mezzi per sfuggire: sono tutti dalla stessa parte e devono trovare il modo affinché la loro fatica sia condivisa e la loro vita migliorata, le prospettive aumentate e allargate.
Il problema di oggi è economico, inestricabilmente legato al problema climatico e geografico.
Il cambiamento del clima sta rapidamente ridefinendo le aree ricche e sicure, stringendo le fasce temperate ricche del nord in una morsa, nelle quali gli abitanti pensano di doversi difendere dalle ondate di profughi climatici, vuoi per siccità, vuoi per nuove guerre per l’acqua o altre risorse vitali. All’interno del nord ricco e sicuro la linea di frattura è fra città e provincia, fra grande metropoli accentratrice di ricchezze, e provincie sempre più spopolate e vissute da anziani o invase nei fine settimana secondo stagione o festività.
In tutto questo esiste un problema demografico, dettato da una denatalità che affligge tutte le nazioni ricche del nord del mondo, dagli Stati Uniti alla Cina a Giappone, Corea, Russia ed Europa.
L’unione di classe dei garantiti e non garantiti dovrà lottare e situarsi fra queste faglie e fra i non garantiti bisogna aggiungere anche studenti ed immigrati.
In poche parole, la nuova classe non più operaia, evoluta e nuovamente unita dovrà lottare per emanciparsi, ponendo le stesse domande.
Bhaskar Sunkara su questi temi rimane astratto, nel campo della storia delle idee e tutto si riconduce a Sanders e Corbyn. E’ un libro che non da soluzioni, ma che pone i problemi in modo sbagliato.
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