Arundathi Roy - Il Ministero della Suprema Felicità
Che peccato, Il Ministero della Suprema Felicità arriva dopo vent’anni dal suo esordio e nel frattempo abbiamo continuato ad amare Arundathi Roy per i tanti saggi in difesa degli ultimi e delle vittime dei nazionalismi (i kashmiri) e della rivoluzione industriale indiana (gli adivasi e i popoli delle giungle al centro del sub continente). Roy in questi ultimi vent’anni ci ha parlato, commosso e scosso con la forza della sua lingua, denunciando le pene di popoli invasi, ammazzati, stuprati, violentati, torturati, spogliati di case e terra.
Sono i popoli e i personaggi che ritroviamo nel suo ultimo romanzo, che è un non saggio, un non romanzo. Nella sua tentennante incompiutezza, rischia di liricizzare l’oppressione e la violenza e si arena nella crescita dei suoi personaggi. Ci ritroviamo tutti a vivere fra le tombe di un cimitero di Delhi, con stanze dipinte di rosa e fucsia costruite a poco a poco, facendosi spazio fra drogati che vivono ai margini e con amici un vecchio imam cieco, che diventa sodale assieme a un certo Saddam Hussain della regina dal dente d’oro, la ex-meravigliosa hijra (travestito) Anjum, che accoglie chi se lo merita nel nuovo slum.
La trama è semplice, oppure si può anche dire che non c’è trama. Capiamo dopo un certo numero di pagine che Anjum è approdata al cimitero perché non riesce più a vivere nella comunità degli hijra che l’aveva accolta da adolescente. Non è colpa degli altri trans, ma Anjum vuole spegnersi fra quelle tombe, perché non riesce a riprendersi da quello che ha visto, durante i massacri del Gujarat del 2002, in cui bande di fanatici indù avevano massacrato i musulmani di quella regione, che a loro volta reagirono: 790 musulmani e circa 250 indù, vittime di un massacro avvenuto nel periodo in cui il neo premier indiano Narendra Modi era ancora il governatore di quella regione, che non mosse un dito a proteggere i musulmani o per mettere pace.
I limiti del realismo magico
La storia percorre i corpi e li schiaccia a terra ed è come se i protagonisti della storia di Roy non avessero una vita, ma che la loro esistenza sia solo il riflesso di quanto sta succedendo. O che Roy usi le vite dei suoi personaggi per mostrare quello che è successo in India negli ultimi quarant’anni.
Ma il furore espresso attraverso le vite degli altri si esaurisce, si spegne. Dovremmo essere incazzati per quello che è successo ad Anjum, a Tilo, al padre di Saddam Hussain, alla madre di Miss Jebeen Seconda, alla moglie e al figlio di Mesa. Invece proseguiamo la lettura, convinti di essere immersi nel realismo magico del Dio delle piccole cose, o di altri realismi magici, di Rushdie, di Marquez, che ci hanno fatto avvicinare ai grandi continenti e alle grandi storie e sofferenze dei popoli del sud del mondo.
Ma è con quest’ultimo Ministero della Suprema Felicità che si capiscono e definiscono i limiti fissati da quei maestri e di cui Roy è sicuramente l’ultima migliore esponente. E i limiti stanno nel fatto che ci fanno vedere il mondo attraverso una lente che ci fa percepire il mondo attraverso il pulviscolo, che ci fa dubitare della sua realtà, della sua nettezza.
Ci hanno abituati, Marquez e Rushdie, a camminare dentro a mondi sognanti, dove i profumi di spezie e della terra mettevano in secondo piano le morti, il sangue e le lacrime, che pure c’erano, ma confinate a uno sfondo che era già diventato mito. Era storia diventata mito, storia che ha avuto il merito di portare alla dignità gli umili e gli oppressi, che ha dato loro volti e storie in cui riconoscerci come umanità.
In questo farsi mito viene costruita la sospensione dell’incredulità, nel credere che il pulviscolo attraverso cui noi la guardiamo – cioè l’arte dei loro autori nel renderci personaggi e paesaggi, storie e sapori, sentimenti e azioni – possa lenire l’orrore, il sangue, la morte.
I nodi vengono al pettine
Nel Ministero i nodi vengono al pettine, il patto si rompe, la crudezza degli eventi non è più consegnata alla patina del mito, a un Kerala lussureggiante (ne Il dio delle piccole cose) che fa dimenticare le iniquità di una società ingiusta nelle sue fondamenta, la più ingiusta del mondo: una società permeata dell’essenza più pura del razzismo, dove nemmeno il colore della pelle conta, ma solo l’atto di venire al mondo, di respirare all’interno di un corpo che sarà già destinato prima ancora di nascere allo studio, al comando oppure a pulire la merda degli altri, a rimuovere carcasse imputridite di animali.
Nel Dio delle piccole cose anche questo era consegnato al mito, a qualcosa di dato che dovrà restare immutabile a dispetto del progresso, del benessere, nella supposta “democrazia più grande del mondo”. Nel suo primo romanzo, il racconto dell’amore fra una donna di casta alta con un uomo di casta umile è alla base del conflitto su cui si regge tutto il romanzo, ma in fondo è un conflitto comprensibile, che si potrebbe trasporre in un romance fra donna bianca e uomo nero nel Sud schiavista degli Stati Uniti, o nella castellana e il servo della gleba, o nella figlia del re con il suo giullare.
Nel Ministero non c’è più romance anche quando Roy si sforza di crearlo. Nell’amore fra Tilo e Mesa si trovano solo due persone poco definite e travolte dagli eventi. Di Mesa sappiamo poco e solo alla fine, perché Roy capisce che anche lui deve avere un contorno, una famiglia. Tilo sembra invece uscita dal Dio delle piccole cose: nata in Kerala da una madre divorziata che da sola ha fondato una scuola (come la madre di Roy e come i figli della protagonista del Dio delle piccole cose), finisce a studiare a Delhi, ma è lo stesso personaggio che trasmigra da un libro all’altro.
L’Uomo 2.0
E’ sempre lei, Arundathi, che deve ricorrere a se stessa per dare completezza a una storia che si sarebbe esaurita a metà, con Anjum lasciata a sopravvivere nel suo cimitero chissà per quanto e con quale scopo. E lo scopo arriva con una bambina, nera, figlia di uno stupro di dieci militari a una donna adivasi, comunista e ribelle, le cui ceneri verranno infine sepolte nel cimitero di Anjum.
Così abbiamo toccato tutte le grandi ferite dell’India e i combattenti delle giuste cause, dai ribelli kashmiri ai partigiani maoisti delle giungle del Deccan. Tutto dovrebbe tenersi e la bambina Miss Jebeen Seconda sarà la speranza in un futuro migliore.
Non credo che Roy abbia letto “Niente” di Alberto Salza (sottotitolo: “Come si vive quando manca tutto – Antropologia della povertà estrema”). In questo saggio Salza sostiene provocatoriamente che saranno gli abitanti degli slum cresciuti attorno alle megalopoli del mondo la nuova umanità, l’Uomo 2.0, un essere nato fra gli ultimi del pianeta e che sarà resistente alle malattie e ai nuovi virus che avranno sterminato il mondo evoluto e iperprotetto in cui viviamo.
Sembra però che le conclusioni – più poetiche per Roy – siano le stesse. Il futuro non è al MIT, a Stanford o a Silicon Valley e nemmeno nel Guangdong o a Shanghai, ma in qualche slum di Delhi, Mumbai, Lagos o Il Cairo, dove gli uomini vivono in mezzo agli animali, senza fogna, luce o altri servizi essenziali, dove la proprietà di ogni nucleo termina con l’antenna parabolica che sporge fuori dalla finestra in lamiera.
Sia chiaro che l’Uomo 2.0 è una delle possibilità evolutive, ma dove stia in tutto questo la felicità – suprema felicità – del titolo di Roy è una cosa che sfugge alla comprensione. Non c’è il pulviscolo del mito e non sono le descrizioni di abiti o del cibo che compensano la miseria dell’esistenza, sia delle vittime protagoniste del libro, che degli aguzzini, che non hanno la statura di un Javert, ma sono parte dello sfondo.
Una lettura faticosa
In Guerra e pace la storia passa come un rullo sul suolo russo e determina o cancella le esistenze, ma il lavoro di Tolstoj è quello di sviluppare i personaggi a partire da una situazione oggettiva, quella della storia nel suo divenire. Nel Ministero troviamo la contraddizione fra il tentativo di trasferire la storia nel mito (e rientrare nella grande affabulazione del realismo magico) e la denuncia giornalistica che riporta al vero. Narendra Modi non viene mai nominato, ma evocato con soprannomi fantasiosi dietro a cui è facilmente riconoscibile. Non basta questo per tenere tutto nel mito.
Si chiude così il cerchio, mentre ci aspettiamo che questa bambina crescerà fra gli ultimi per diventare una specie di nuovo Messia al femminile, perché è così che Roy ce la descrive. Ma per arrivare a questo, quanta fatica! Fatica a leggere, portare avanti la storia in modo coerente, fatica a non perdersi in inutili sottotrame o digressioni, oppure elenchi, rapporti di qualunque nulla che leggendo ho saltato per poter arrivare in fondo.
C’è ancora una certa riverenza nelle varie critiche rivolte al libro, dovuta al passato e al prestigio di Arundathy Roy, al fatto che comunque lei è una fra i migliori scrittori in circolazione, anche se ha scritto un solo libro memorabile. L’autrice aveva dichiarato a suo tempo che dopo Il Dio delle piccole cose non avrebbe più scritto altri romanzi e doveva avere ottime ragioni per arrivare a pubblicare un libro come questo, inferiore in tutto al precedente. Oltre a questo, non vedo altro o niente di più di un’operazione commerciale come altre. Ed è un peccato.
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