Anna Maria Ortese - Il cardillo addolorato
Il cardillo addolorato di Anna Maria Ortese rappresenta il compiuto tentativo dell’impossibilità di descrivere l’inconoscibile. Per quanto la scienza e la ragione possano sforzarsi, avremo sempre un nocciolo, duro ed ineliminabile, che si sottrarrà all’indagine conoscitiva.
Il cardillo addolorato è la storia ossessiva di un segreto, quello di Elmina, che con le nostre categorie potremmo descrivere come una personalità anafettiva, incapace di provare o dare amore a se e agli altri. La causa prima di questo dolore ineliminabile ci viene data all’inizio del romanzo da lei stessa, quando spiega ai tre amici provenienti da Liegi, il principe Neville il protagonista, giunto a Napoli assieme ad Alphonse Nodier, commerciante e ad Albert Dupré, scultore, il fatto del cardillo, ovvero l’uccisione, negli anni dell’infanzia, di un cardellino passione della sorellina Floridia, bambina con qualche handicap o ritardo (sempre secondo i nostri schemi), che muore di dolore (forse si getta dal balcone? O forse è la stessa Elmina che compie il gesto di buttarla giù?).
Questo lutto proseguirà ineliminabile in tutta la sua esistenza, ma lei già ci dice, nella prima parte e prima delle nozze con Dupré, che lei non amerà nessuno perché “la gioia è peccato” e che sposerà Dupré solo per obbedire alla volontà del padre.
Con questi presupposti nessuno avrebbe osato dar seguito a quella promessa, anche nei tempi andati. Per quanto il matrimonio fosse stato soprattutto un contratto fra famiglie, l’esistenza del sentimento reciproco era comunque un presupposto e, anche se non lo era, si dava per scontato che con la convivenza, la crescita della famiglia e la vita insieme quel problema iniziale fosse superato. Ed è con questa presunzione non detta che Albert sposerà Elmina, a dispetto di tutti i tentativi che farà Neville per impedire le nozze, sia per proteggere l’amico, sia per una nascosta (a se stesso) gelosia.
Scivoliamo nel fantastico
Già questo è un presupposto che fa scivolare il punto di vista nell’irreale e nel magico, e questo spostamento viene corroborato immediatamente dall’incontro fra Neville e il Duca Benjamin von Ruskaja, negromante come Neville, il quale mostra a lui e a noi i personaggi muoversi attraverso una “lente di Cracovia”, strumento che, più e meglio di una telecamera nascosta, consente di spiare i personaggi da lontano.
Scivoliamo nella favola, ma neanche in questo territorio siamo in grado di carpire il segreto di donna Elmina, che si ingigantisce attraverso mille versioni della storia del Cardillo, ognuna fornita da diversi personaggi interrogati dal principe. Perché è un personaggio così impossibile e perché lei, pur anelando la solitudine e il disprezzo, il distacco dall’umanità viene così cercata, nonostante le ripetute riprove della sua freddezza?
Dupré la sposa, ma rinuncia da subito a comprenderla, sostenendo che è “un abisso impossibile da superare”. E questa accettazione potrebbe essere l’atteggiamento più saggio, non fosse che la prende in moglie. Ma Dupré fornisce la sua esatta definizione, Elmina è l’abisso, il buco nero attorno a cui ogni personaggio viene irresistibilmente attratto, a dispetto della sua – di Elmina – stessa volontà.
Come Lila ne L’amica geniale
E’ la stessa forza che ha Lila, la coprotagonista de L’amica geniale di Elena Ferrante. Anche Lila è presa di quella che Ferrante chiama smarginatura, ovvero la perdita del senso e di se, che porterà la stessa Lila a sparire, ingoiata da Napoli e tutto il romanzo sarà la rievocazione di una vita terminata nell’assenza inspiegabile.
Così anche Il cardillo addolorato termina nell’inspiegabile, perché i lettori non verranno mai a sapere cosa vorrà dire al principe di Liegi il misterioso inviato da Napoli a proposito del Cardillo, perché il libro si chiude un attimo prima che Neville lo riceva.
Perché Napoli e perché questo legame così viscerale con una città dove sentimenti, tragedie, gioie e passioni appaiono aumentate rispetto all’esuberanza degli italiani, così ben nota all’estero? Perché questa città e non Roma, ad esempio, continua a produrre cultura in ogni epoca semplicemente riuscendo ad esportare se stessa.
Riesce a esportare anche le sue brutture, vedi Gomorra. Non riesce la stessa cosa a nessun’altra città italiana. Palermo potrebbe avere quelle caratteristiche, ma la sua vitalità è a sprazzi, spesso offuscata da Catania, non a caso altra città alle pendici di un vulcano. Potrebbe essere Milano, ma i suoi riferimenti sono più cosmopoliti, Milano non vende se stessa, piuttosto assorbe e riemette. Ogni volta che si parla di milanesità si scivola nel provincialismo, cosa che non succede a Napoli. Ed è talmente prorompente l’energia di Napoli da espandersi fino a Roma, da sempre influenzata da napoletani che vivono l’apice delle loro carriere nella capitale.
Un Gollum degradato
La Napoli della Ortese è una città magica, dove non c’è nulla di brutto, ogni parola viene addolcita con l’uso esagerato, barocco dei vezzeggiativi. Ci sono la Casarella, la Scalinatella e mille aggettivi trasformati in una lingua simile a quella parlata, ma ricca, ridondante, così come lungo è il periodo e spesso bisogna tornare all’inizio della frase per riprendere il filo, per ritrovarsi dopo i lunghi incisi che riguardano qualsiasi cosa e che rischiano di far perdere il filo del discorso.
Non sono digressioni, ma solo un ragionare a cui si aggiungono descrizioni e su queste nuovi ragionamenti, così che la mente divaga da un pensiero all’altro, fino a produrre uno smarrimento, la sensazione, specialmente alla fine del libro, di essere stati cosparsi di una polvere magica che fa vedere le cose in un pulviscolo, con la realtà che non è più realtà, con le continue metamorfosi della verità che cambia d’abito e soprattutto le continue trasformazioni – qui siamo nella magia – del folletto adottato dal defunto Guantaio don Mariano Civile.
Anna Maria Ortese con il personaggio muto di Hyeronimus Kaeppchen, ha ricreato l’estrema versione di Puck del Sogno shakespeariano. Ma, come ammette la stessa autrice nel corso della storia, è un Puck degradato, come uno Smeagol del Signore degli anelli che si trasforma in puro Male quando il Gollum dentro di lui prende il sopravvento.
Il folletto Hyeronimus, chiamato volta a volta Lillot, Geronte il Piccolo e capace di trasformarsi in gatto, caprettino, umile servitorello, Portapacchi con la p maiuscola è un essere disperato, fuori dalla comunità degli umani e dei credenti, non scomunicato perché mai parte della Chiesa. Frutto della natura e dei boschi era un tempo giovane bellissimo ed è avviato a morire dopo trecento anni di vita, cosa a cui Elmina si oppone a tutti i costi.
Comprendere l’altro attraverso la magia
Solo a lui Elmina è fedele, per obbedienza al padre che durerà per tutta la sua vita dopo la morte di lui, per un certo voto fatto alla Madonna di Costantinopoli e in questo attaccamento di Elmina a un essere fantastico Neville trova la redenzione di una donna che all’inizio le pare fatta di pietra.
Insomma Elmina ha un’anima e dei sentimenti e non riuscirà ad aprirsi al resto del mondo fino a quando l’enigma della vita di Kaeppchen non verrà risolto.
Questo non significa che potrà innamorarsi di qualcuno, ma questa devozione verso il folletto, un fratellastro, un figlio, un quasi fidanzato, una divinità domestica, bambino dispettoso e umile servitore in cambio di nulla ce la rende umana.
Viene da chiedersi se per stile e temi la voce di Anna Maria Ortese non sia da accostare al realismo magico di tanti sudamericani ed è così, perché quasi tutti gli elementi che caratterizzano questa corrente sono presenti nel Cardillo.
Ma Ortese ha degli scopi, come scrive Simona Carretta in un saggio pubblicato sulla rivista francese L’atelier du roman :
Quando era ancora impegnato nella sua quête, riflettendo sull’eventuale influenza del cardillo nella vita di Elmina, il principe Neville ne aveva tratto una riflessione universale: la scoperta che, spesso, dietro i comportamenti apparentemente inspiegabili di qualcuno, possa nascondersi un «qualche povero, ma terribile altro». Si, dietro l’apparenza, ciascuno può nascondere un segreto del passato, un amore, un Cardillo, una gioia o un dolore. E poco importa portarlo alla luce perché il semplice fatto di immaginarne la presenza ci permette di cogliere il prossimo nella sua concreta alterità e di avviare il processo di conoscenza. Nel romanzo, è proprio l’invenzione del Cardillo, un essere magico, a stimolare questa scoperta. In ciò allora mi appare risiedere il grande merito di Ortese: averci ricordato il valore concreto della magia, o meglio dell’immaginazione, ai fini della comprensione dell’altro.
E sui diritti dell’immaginazione si riapre un mondo enorme, quello scaturito dal Romanticismo, e non è un caso che l’invenzione del folletto sia stato considerato un omaggio o un gesto di vicinanza a Hoffman e ai personaggi dei suoi racconti.
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