Andrei Makine - L'arcipelago della felicità
L’Arcipelago della Felicità di Andrei Makine è il tentativo post sovietico di depurare i temi espressi nel film Il quarantunesimo, di Grigorij Chukhrai. Uscito nel 1956, durante la breve era del disgelo e a ridosso dei fatti di Ungheria che crearono il primo strappo nel movimento comunista mondiale, Il quarantunesimo è la storia di un amore assoluto, fuori dal tempo.
Lei è un soldato dell’esercito rivoluzionario e deve scortare fino alle sue linee un tenente degli eserciti bianchi. Gli eventi grandiosi di quell’epoca portano involontariamente i due a essere isolati nell’immensità del paesaggio asiatico, al di là di ogni contatto umano, fuori dalla storia.
Ed è lì – e solo lì – che nasce la storia d’amore pura, due anime che si incontrano sul piano fisico e spirituale nell’assoluta comunione con la natura.
Finirà male, perché il tenente correrà incontro ai suoi, perché ha appena visto una nave zarista al largo. Lei lo vede fuggire e nonostante la passione – o forse proprio per questo – gli spara alla schiena. Maria, la donna soldato, aveva già ammazzato quaranta nemici e il tenente Vadim era il quarantunesimo. Il film si chiude sul richiamo all’abnegazione e al sacrificio di sé, come voleva la logica di quei tempi, come il regime voleva che il popolo fosse educato, ma quello che il regista e lo sceneggiatore vogliono farci vedere è il rapporto fra l’uomo e la vastità della natura, un rapporto che lega da sempre gli autori russi con il territorio in cui vivono, un rapporto che raggiunge vette spirituali sconosciute in altre letterature.
La Siberia e la taiga hanno evocato storie al di fuori della Russia europea, basta pensare a Michele Strogoff di Jules Verne, o a Dersu Uzala, di Kurosawa, due modi diversi di intendere lo spazio sterminato della foresta siberiana: il primo nel pieno dell’avventura e della conquista, di un popolo che spinge la sua sete di dominio e conoscenza verso l’oriente, verso quelle terre apparentemente disabitate, se non da tribù di – nativi li chiameremmo oggi, che appaiono così simili agli indiani d’America, di cui sono i lontani antenati. Il secondo che rappresenta invece l’incontro fra i conquistatori e i nativi: il piccolo grande uomo cacciatore Dersu Uzala, che fa da guida a un ufficiale dell’esercito russo attraverso la taiga e da questo rapporto nasce un’amicizia che va oltre il momento contingente ma che durerà tutta una vita. La storia di Makine fa riferimento a questo secondo modo di intendere, ma prende le mosse dal primo, con la fuga dall’universo concentrazionario sovietico, che sposta uomini e travolge popoli e natura nella feroce determinazione dell’ottimismo distruttivo della volontà.
Storia di due fughe
L’Arcipelago della felicità si inquadra in questo contesto. Da un lato la storia – il regime sovietico dei gulag, o della tirannia di uomini piccoli che abusano del loro potere grazie all’appartenenza all’organizzazione del partito, il controspionaggio – dall’altro la natura, la storia dell’inseguimento di un prigioniero fuggito attraverso la taiga.
Il prigioniero si prende gioco dei suoi inseguitori, sa muoversi nella foresta, e i soldati all’inseguimento lo imparano a loro spese, finendo vittime di trappole o facendosi male da soli, troppo inesperti per reggere più giorni di marcia all’interno di un ambiente primordiale.
A uno a uno devono tornare indietro e resta uno solo, il protagonista, che a questo punto si chiede se sia il caso di tornare, sapendo già che l’ammissione di non aver ritrovato il fuggiasco comporterebbe lo scarico su di lui di tutta la responsabilità, che – tradotto nei meccanismi di potere dell’epoca – significa prigionia, gulag, lavori forzati.
Era questo – fa capire Makine – lo stato dell’esistenza dell’homo sovieticus costretto a filare sui binari dell’ortodossia e ad obbedire agli ordini dei superiori, pena la perdita della libertà, se non nella morte. Lo sbocco a tutta questa impasse è la fuga dalla società e dalla storia, è il riparo trovato con il fuggiasco (che si rivela essere una donna, un’indigena della foresta sfuggita alla deportazione del suo popolo per ordine di Stalin) in un’isola sperduta nel mare di Okhotsk, il golfo delimitato dalle coste del Pacifico della Siberia e chiuse a oriente dalla penisola della Kamchatka, nota da tempo ai giocatori di Risiko.
In questo mare interno con dimensioni enormi si trovano diversi arcipelaghi disabitati, uniti in inverno alla terraferma dal mare ghiacciato. Qui trovano rifugio il protagonista e la prigioniera, cominciando un amore assoluto fatto solo di loro due, che sopravvivono sull’isola da soli, per anni, in mezzo alle brevi estati e ai lunghi inverni, respirando l’aria incontaminata del mare e della taiga, cacciando animali selvatici, pescando e conservando i cibi per l’inverno.
Cosa significava vivere ai tempi di Stalin
I segretari del PCUS si susseguono, i decenni passano, l’Unione Sovietica crolla. Loro potrebbero tornare alla vita civile ben prima della fine dell’Unione Sovietica, ma la loro vita è sull’isola, lontani da tutti. Solo occasionalmente lui va nella città più vicina a cercare provviste, vendendo pelli in cambio. Le autorità sanno che ci sono due che vivono su un’isola, ma rinunciano a cercarli.
Ma dove non era arrivato il regime sovietico riuscirà ad arrivare il turismo: sempre più gite per ricchi danarosi arrivano sull’isola e solo questi brevi contatti distruggono per sempre l’equilibrio formato dai due con l’isola. Tutto questo avviene alla fine, la maggior parte del romanzo è la storia dell’inseguimento e delle relazioni che si instaurano fra gli inseguitori.
C’è il capo del controspionaggio, che comanda su tutti da inesperto dei luoghi, c’è il tenente che è ambizioso e fa di tutto per compiacerlo, c’è il capitano dell’esercito, veterano di guerra (siamo nel ’56), c’è un sergente che è quello che ha già capito tutto fin dall’inizio e che diventerà l’unico amico del protagonista, a cui spiegherà il suo ruolo in tutta la vicenda, quello del capro espiatorio in caso di insuccesso.
E’ un gruppo in cui i conflitti si intersecano fra loro, il più importante è quello fra il capitano dell’esercito e il capo spedizione del controspionaggio, in cui emerge tutta la ferocia del sistema sovietico. La posizione dell’ufficiale del controspionaggio è sideralmente superiore a quella del capitano e degli altri soldati. Non c’è il minimo rispetto o empatia verso il veterano di guerra, che bada alla vita dei suoi soldati, che ha portato il suo paese alla vittoria.
Al contrario, viene minacciato, tenuto a bada, schernito, dileggiato e punito al rientro, per il solo fatto di aver fatto quello che aveva fatto, cioè aver combattuto per il proprio paese.
Stare lontani da tutto
E’ l’atroce dramma dello stalinismo, quello di schiacciare chi si mette troppo in luce. In tempi in cui il ruolo dell’esercito è sempre stato preponderante perché l’Unione Sovietica ha vissuto trent’anni di guerra interrotti solo dalle purghe staliniane degli anni Trenta, i combattenti sono stati puniti per i loro successi, per il pericolo che avrebbe rappresentato la popolarità di generali geniali, a partire da Zhukov.
In questo si nasconde il dramma della fine dell’impero di Stalin: nessuno avrebbe mai cercato di eccellere per non esporsi al rischio di venire imprigionati, torturati, uccisi con un’accusa qualsiasi. La mediocrità dell’apparato doveva trionfare su ogni cosa: chi realizzava imprese straordinarie doveva stare attento a nasconderle, a celarsi, a mistificare le proprie azioni nel timore che in un futuro ogni atto conosciuto potesse essere usato contro di lui.
L’unica via di uscita era stare lontani da tutto, dall’umanità, dalla società e dalla storia.
Nell’esilio sull’isola del mare di Okhotsk non c’è dio né divinità pagane, solo vita, solo l’unione di Adamo ed Eva in un Eden ghiacciato e senza progenie. Le loro vite saranno ricordate: lo fa Makine, raccontandoci questa storia intesa come una possibilità.
Commenti recenti