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Andrea Tarabbia - Il Continente Bianco

L’indagine su cosa è il male porta Tarabbia ad affrontare il tema del fascismo eversivo, quello feroce, della prima ora ma declinato ai giorni nostri, quello che storicamente era stato il fascismo agrario di Balbo a Ferrara, con spedizioni nella campagna a bruciare le case del popolo e ammazzare sindacalisti e responsabili delle leghe contadine nei modi più sanguinari e brutali, legando i corpi (vivi o morti, comunque mal conciati) sul cofano davanti delle macchine e portandoli in giro come trofei, nella più totale impunità.
Il fascismo è questo: vigliaccheria dei tanti contro uno, legge del più forte, sopraffazione e violenza in nome di una rigenerazione che solo con la violenza sembra possibile raggiungere. Il fascismo (e il nazismo) è l’individuazione di un nemico e la guerra contro gruppi inermi, in genere le parti più deboli della società.
La giustificazione di gruppi eversivi di estrema destra come il Continente Bianco fa leva sulla biologia, ovvero si da a intendere che l’esistenza e l’azione del Continente Bianco è la verità che emerge – ed è quindi onesta – dai sentimenti di ostilità e repulsione che tutti proviamo quando veniamo invasi.

La creazione del nemico

Sono gli immigrati, che arrivano e sfasciano tutto, entrano dentro le case e sono perfino favoriti dalle leggi dello Stato, promosse dalle sinistre che fa prendere agli zingari gli appartamenti gratis, mentre gli italiani con la sociale a 430 euro devono sobbarcarsi 800 euro di affitto nelle case del Comune. Di fronte a tutto questo come si fa a non incazzarsi?
Sono questi i discorsi dei vari membri del Continente Bianco, con cui Tarabbia, autore/protagonista si confronta.
Ma la denuncia è il primo strumento attivo per mettere in atto i piani di eversione: bisogna cacciarli via, picchiarli, mettergli paura, eliminarli se alzano la testa – e incazzarsi ancora di più con le sinistre, i comunisti, i ragazzi dei centri sociali, che li difendono invece di schierarsi dalla parte giusta.
Perché per uno che non possiede nulla, è normale desiderare di prendere tutto quello che vede, tutto ciò che rappresenta l’irraggiungibile in una vita di lavoro onesto o sottopagato, o comunque sfruttato. Loro hanno ragione a farlo, dice Marcello Croce, l’anima nera del libro, perché chiunque lo farebbe. Quanta rabbia può provare chi non ha nulla da perdere e allora sfascia tutto, questo ci dice il cattivo del libro. Fa parte della natura umana, perché negarlo? Noi del Continente Bianco siamo la risposta a questa rabbia che ci vuole portare via tutto.
Per questo ai fascisti e ai nazisti piace il mondo di Tolkien: perché le società degli hobbit, degli elfi e degli umani sono armoniose, vivono a contatto con la natura, nascono, crescono e si amano, si adorano per quello che sono e combattono i cattivi, gli orchi, quelli che vogliono solo distruggere per dominare un mondo di cenere.

Inutili marcatori

Questo è il quadro, ma ci sono alcune cose che stonano nella cornice e che rischiano di compromettere il patto fra autore e lettore. C’è un capitolo piuttosto oscuro dove i ruoli di onorevole padre e figlio si confondono; ci sono altri capitoli in cui alcuni personaggi del gruppo eversivo compaiono come dal nulla.
C’è poi Marcello Croce, il demone che, forse al pari di un qualche sommo personaggio negativo dostoevskijano (pensiamo a Stavrogin dei Demoni, a Raskolnikoff in Delitto e castigo) è un’ombra che parla solo per illustrare la nera ideologia che rappresenta. E’ cioè così intriso di male da non avere un passato, una famiglia o precedenti legami a quello che ha con Silvia, la moglie dell’analista di Tarabbia.
Un altro trucco abbastanza insopportabile è quello dei marcatori, come Ilse, la cagna rognosa di Franziska (l’unica ragazza del gruppo), oppure uno dei quadri nella casa dell’analista. Sono cose di cui non c’è bisogno e che tornano ossessivamente senza dare nulla in più. Non c’è n’è bisogno; anche se uno di questi marcatori sarà parte dell’ultima scena nel finale, così come altri marcatori serviranno a distruggere la sede del Continente Bianco.
Sono espedienti inutili che vogliono aggiungere un tocco di originalità forse, di ribrezzo (parliamo di animali conservati in formalina), ma che sembrano solo di cattivo gusto e senza alcun nesso con la storia e con le idee di Marcello Croce e dei fascisti del Continente Bianco.

Dichiarazione di poetica

C’è un senso di ineluttabilità nello svolgersi dei fatti, ma quello che colpisce è la precisa volontà dell’autore/protagonista di non interferire con gli eventi, anche se questi sembrano precipitare verso epiloghi tragici.
Tarabbia lo fa nelle ultime pagine con una dichiarazione di poetica: io sono un cronista, un osservatore esterno, scrive. Siccome la storia che ho in mano è più importante della vita dei miei personaggi, allora non faccio nulla, perché se facessi qualcosa andrei a cambiare il corso degli eventi. Ci dice, guardando in camera, che lui potrebbe salvare la vittima, ma non lo fa, perché la storia cambierebbe di verso, in pratica non avrebbe più la fine che stava cercando.
Mette i brividi sentire un’argomentazione del genere, anche se siamo all’interno della finzione. Forse lo scrittore protagonista fa questa dichiarazione per fare ombra sul suo personaggio, per renderlo quel tanto vigliacco da farsi disprezzare.
Ma soprattutto è inutile, la storia si reggeva da sola, ma è l’autore che a un certo punto si sente in colpa e vuole giustificarsi davanti ai lettori, ma la dichiarazione è stridente con quanto avvenuto in precedenza, con quanto sappiamo fin dall’inizio.
Dire che la letteratura prevale sulla vita e in nome di questo accettare la morte di un personaggio (pur, ripetiamolo, in un contesto di finzione) è qualcosa di ancor più agghiacciante dello stesso delitto di cui il libro è il racconto. Tutto questo, dal punto di vista dell’autore/narratore, per avere una bella storia da raccontare?

L’insensatezza

Quando si racconta una storia in prima persona si può scegliere di essere testimone e raccontare la storia di altri, oppure si può scegliere di raccontare la propria storia – ed è quello che l’io narrante fa, attraverso il ricordo di un’oscura vicenda accadutagli in precedenza. La storia resta ambigua perché è appena accennata nel racconto di una donna, Anna, da lui seguita fino in Moldavia e del rapporto col marito violento che, in Italia, la uccide. Il marito per gelosia picchia anche lui. Forse, ma non lo dice, il marito uccide la moglie mesi dopo quel pestaggio, episodio che gli aveva fatto decidere di lasciar perdere quella storia. Cioè, dapprima l’autore entra in un’altra vita, cerca di succhiare dai racconti della donna quello che forse potrebbe essergli utile, salvo fuggire quando le conseguenze di quello che ha fatto lo coinvolgono fisicamente.
E’ un’atteggiamento voyeuristico che considera le vite altrui come prede da svuotare per poter essere usate in una storia.
Forse quell’episodio precedente è all’origine del malessere mai descritto (solo come la serpe, o il serpente) che lo porta nello studio del dottor P*** marito di Silvia, la vittima di Marcello Croce che conosce nelle prime pagine mentre sta aspettando che arrivi il suo analista.
Certo che, in una storia così scura e melmosa, intrisa di violenza, machismo e superomismo, una storia in cui si abusa (come sempre a destra) della parola eroe, l’intervento per cambiare il corso degli eventi salverebbe la vittima, in una storia di cui l’autore vuole mostrare l’insensatezza.
Il fascismo delle origini era nichilismo, sfasciava tutto, picchiava e uccideva i nemici e si sarebbe fermato a quello senza la presa di potere del suo capo con la complicità della corona.
Ne Il Continente Bianco, la storia si ripete, tragica, e termina con la dissoluzione del gruppo. Per fortuna non c’è nessuno che ne prenda le redini e non c’è un re a nominare primo ministro il suo nuovo capo. Ma la farsa è solo in questa assenza, perché i fatti e i pensieri sono gli stessi di cent’anni fa, della marcia su Roma.