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Andrea Camilleri - Il nido di vipere

Le maschere sono quelle: il commissario Montalbano, un gigante buono che lavora per il bene con il contorno dei comprimari: Fazio il gregario aiutante che fa i lavori noiosi, Mimì Augello, vice commissario, intelligente e femminaro, ma soprattutto amico e poi a scendere Catarella, il centralinista macchietta che non azzecca le parole, Pasquano il medico legale, l’unico che insulta il commissario ma che gli vuole, ricambiato, un gran bene – e infine Livia, la fidanzata genovese un po’ bisbetica, che fa la fidanzata e ogni tanto compare a Vigata.
In ogni storia non possono mancare le fimmine, sempre provocanti e che puntualmente cercano di sedurre Montalbano; spesso sono sospettate, equivoche, ma il commissario le sa ascoltare e trovare l’illuminazione per risolvere il caso, in mezzo a imbarazzi, sospiri, tentazioni a cui, per volontà sua o loro, riesce a sottrarsi per salvare la sua faccia interiore prima che con Livia.
Il tutto immerso nella provincia della Sicilia sud orientale, dove la mafia è uno sfondo lontano, accennata di volta in volta, ma che di rado rientra nelle indagini: a volte il commissario ha contatti con vecchi boss, ma solo per capire come indirizzare le sue ricerche, per escludere una pista, quella della criminalità organizzata, che sembra farsi gli affari suoi e non mischiarsi con le ammazzatine.

Il marchio di fabbrica

Su tutto domina il siciliano inventato da Camilleri che è diventato il suo marchio di fabbrica, e si sente la sua voce rauca quando i taliò, gli addrumari, gli accumigliarsi, gli scanti si susseguono e chi si avvicina per la prima volta si blocca alla ricerca del significato, ma poi arriva da se, con lo scorrere di dialoghi e descrizioni.
Gli ingredienti sono questi, ripetuti in quarantasei fra romanzi e raccolte di racconti di Montalbano, tutti sorretti da una scansione che da pure sostanza al suo metodo narrativo:

Per un romanzo di Montalbano diciotto capitoli ciascuno di dieci pagine, ogni pagina nel mio computer vuol dire 23 righe. Un romanzo ben congegnato sta perfettamente in 180 pagine. Per i racconti, 24 pagine, o meglio 4 capitoli di 6 pagine ciascuno. Se non sento questa mia metrica vuol dire che qualcosa non va
(Camilleri in Wikipedia)

Il successo che lo ha circondato fino alla sua scomparsa è un fatto di popolo, che travalica le strategie editoriali e il successo ottenuto con la serie televisiva interpretata da Nicola Zingaretti, suo allievo all’Accademia Nazionale di Arte Drammatica. L’affetto per lui nasce dal basso, dal passa parola dei lettori: le storie del commissario lo fanno conoscere e le vendite dei suoi romanzi aumentano in maniera virale, prima dell’era internet e dei social media. Nasce perché viene avvertito come un personaggio vero, che non ha mai nascosto le sue idee e che è stato capace di gestire una vita pubblica facendo innamorare per l’acume del ragionamento unito al tono di voce.

Morte e gioia di vivere

Se n’è andato poco dopo l’ultima sua apparizione, al Teatro Greco di Siracusa, con un monologo su Tiresia. Vecchio e cieco come il suo personaggio, con l’assistenza di un nipote che gli portava da bere, si avvertiva l’amore della platea per qualcuno che è riuscito a farsi ammirare senza suscitare invidia, a farsi voler bene anche per i suoi vizi, la sigaretta sempre accesa e l’alcool di cui è stato dipendente per anni e che non ha avuto pudore a confessare.
In tanti cercheranno di trovare quella quadra con gli ingredienti delle sue storie, come ha fatto lui, ma è meglio gettare la spugna e rassegnarsi, perché qualunque tentativo di imitazione sarà goffo e impresentabile. Il modello, quello sì, si potrà tenere a mente, l’uomo privato che è riuscito a mantenere l’integrità e non si è lasciato travolgere dall’uomo pubblico, dall’invadenza dei media e anche dall’adorazione, che pure lo rendeva felice senza farlo pesare.
Il suo vero merito, il suo segreto sta nell’equilibrio fra il dramma dei temi raccontati e la forza della comicità e della farsa che attraversa in ogni momento la vita dei suoi protagonisti, e questo misto perfetto di morte e gioia di vivere davanti a un buon piatto di pesce o una bella donna è qualcosa che gli è riuscita bene come a pochi altri: Cervantes e Fielding su tutti.

Il successo all’estero

Il nido di vipere è un romanzo come gli altri di Montalbano, si legge in un fiato, si finisce e si mette sul comodino, pronto a essere dimenticato in fretta, sommerso da altre storie di Montalbano che possono confondersi. Ma questo non è necessariamente un difetto, perché questo predispone alla rilettura, anche se si deve di riascoltare una storia già sentita – come con i bambini, il cui piacere è tutto nell’immersione del mondo di Vigata; non si spiegherebbe altrimenti come mai la RAI continui ogni anno a riproporre le repliche degli episodi con inalterato successo di share.
E’ curioso il successo di Montalbano all’estero: per noi italiani è la lingua che ci conquista e non si riesce a immaginare quale vernacolo possano inventare i suoi traduttori per rendere lo stesso effetto. Forse è più l’atmosfera di sole, Mediterraneo, buon cibo, un calice di vino seduti al tramonto in riva al mare, cioè l’idea che ogni straniero ha dell’Italia, quella della patria del dolce vivere, che ha sedotto i lettori stranieri, così come il pubblico che ha visto la serie tv all’estero.

Il nido di vipere

Il nido di vipere del titolo è quello della famiglia della vittima, il ragioniere Cosimo Barletta, uomo abietto, usuraio e sciupa femmine nel deteriore senso del termine, cioè di un uomo abituato a usare le donne, attraverso il corteggiamento ma senza disdegnare il pagamento e il ricatto.
La sua morte non dovrebbe rattristare nessuno, pensa il commissario, che istintivamente rifiuta all’inizio di occuparsi del ritrovamento del colpevole, ma è solo il senso del dovere che lo spinge nelle indagini.
Il lettore di gialli avveduto individua già dalla metà della trama chi è il colpevole e la maestria di Camilleri è quella di sviare l’attenzione verso una soluzione del caso a cui potrebbe arrivare da subito, concentrandosi sugli elementi del delitto. In questo senso il finale delle ultime pagine non è l’illuminazione che spiazza il lettore, ma gli elementi della storia sono altri e cioè la messa in scena degli abissi a cui può condurre la vita famigliare.
Altro non si può aggiungere, se non che il trattamento di certi temi è qualcosa che ha messo in difficoltà lo stesso autore, che ha tenuto in sospeso la scrittura del libro per diverso tempo, come lui ha confessato. In questo sta la riuscita del genere giallo poliziesco, cioè di fornire una cornice all’esposizione delle meschinità e bassezze dell’umanità, isolando i fatti in un palcoscenico, in cui sia Montalbano, che l’autore, che il pubblico che legge diventano un unico pubblico e in questo modo si crea la distanza che permette di sopportare la crudeltà di una storia in cui nessuno vince, nessuno si salva e contemporaneamente – da una certa distanza – permette di dire a noi, a Camilleri e a Montalbano: ecco, noi siamo anche questo.